L’ispirazione del primo lungometraggio di finzione delle sorelle Delphine e Muriel Coulin (l’una scrittrice e l’altra documentarista), finanziato dallo storico produttore dei fratelli Dardenne Denis Freyd, nasce da un fatto di cronaca. Nel 2008 in Massachusetts, diciassette ragazze dello stesso liceo suscitarono l’indignazione nazionale esibendo con orgoglio il loro pancione, frutto di una gravidenza volontaria. L’opinione pubblica cercò di lavarsi la coscienza puntando il dito contro lo studente ventiquattrenne padre di alcuni dei bambini e contro pellicole come Juno di Jason Reitman, veicoli di modelli travianti per le fanciulle.

Scansando i contorni scandalistici del soggetto, il film delle Coulin si nutre soprattutto delle suggestioni fornite dall’ambientazione scelta, Lorient, cittadina bretone affacciata sull’oceano. È qui che venticinque giovani donne, durante la Seconda guerra mondiale, decisero di gettarsi da un ponte tenendosi per mano, poco prima dell’arrivo degli Inglesi. Ed è su queste stesse spiagge che ancora si raccolgono i resti del conflitto, scampati alla ricostruzione postbellica. Allo stato attuale Lorient rappresenta una delle molte province francesi problematiche, disagiate economicamente e socialmente, ma per lo più dimenticate dai media. Nella vicenda tutta protesa al futuro delle diciassette ragazze che contemporaneamente decidono di vivere l’esperienza della gravidanza, risuonano quindi sia gli echi inquietanti provenienti dal passato che le drammatiche contingenze del presente.

Sospeso tra realismo sociale e slanci lirici, il racconto è a prima vista un’osservazione sulle dinamiche di inclusione ed esclusione che regolano la vita di gruppo. Camille, la prima delle liceali a rimanere  incinta, grazie al suo carattere autoritario riesce a fare della sua diversità una condizione da imitare per le compagne, che una dopo l’altra scelgono di seguirla. Quella che si va profilando è una nuova comunità che, elaborando le proprie regole di appartenenza e i propri codici comunicativi, si afferma tanto coesa al suo interno quanto misteriosa e indecifrabile all’esterno. Allo stesso modo, la fecondazione collettiva assume sempre più i connotati di una decisione spaventosamente razionale e calcolata, che include anche un progetto per l’avvenire: la costituzione di una società composta esclusivamente da madri e figli. Arroccate in quest’utopia, le ragazze non arrivano mai a spiegare le reali motivazioni che stanno alla base del loro gesto.
L’inevitabile collisione con il mondo adulto attorno a loro vede quest’ultimo perdente già sulla carta: la legge impedisce infatti ai genitori di forzare delle minori ad abortire. Insegnanti, padri e madri, finiscono per rimanere intrappolati nell’immobilismo, addossandosi vicendevolemente responsabilità e colpe, mentre la fortezza delle piccole gestanti rimane inespugnabile e incomprensibile ai loro occhi.La spinta dinamica delle ragazze si muove in direzione contraria all’inerzia adulta, portandole a rigettare i modelli di vita già predisposti per loro e a pretendere una  trasformazione.

Una necessità di movimento che trova nel corpo – su cui già è scritta un’evoluzione, vista l’età di passaggio delle protagoniste  – il suo mezzo di espressione. Il corpo femminile con la sua capacità di mutare e generare diventa lo strumento perfetto per la conoscenza e l’affermazione di se. L’occhio delle registe accompagna la curiosità delle ragazze per il proprio involucro fisico avvicinandosi alla grana della loro pelle adolescente, svelandone difetti e impurità, ma anche la bellezza rosea e acerba. Durante la sequenza della visita medica scolastica, le ragazze si espongono al nostro sguardo senza sottotesti maliziosi o ammicamenti loliteschi, ma portando la naturale conflittualità insita in una forma infantile e matura, sgraziata e delicata insieme. Le giovani spiano le coetanee e se stesse anche durante la gestazione, con la macchina da presa a sfiorare le pance arrotondate, decorate da disegni tracciati a pennarello, a metà tra gioco e desiderio di ingentilire una deformazione per certi versi terrificante. Questo trattamento del corpo adolescente e dei misteri che si accompagnano alla scoperta della femminilità richiama alla mente titoli come Naissance des pieuvres di Céline Sciamma e Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola. Ma se quest’ultima spingeva la rappresentazione fino a una trasfigurazione dei corpi, che dopo il suicidio collettivo rimanevano congelati in un biancore irreale, le Coulin perseguono al contrario un’estetica naturalista e poco incline all’idealizzazione.

Questa scelta, insieme a quella della macchina a mano e di un’illuminazione naturale, non esclude tuttavia la presenza di momenti più poetici ed evocativi, soprattutto quando lo sguardo delle registe si volge ai paesaggi. La spiaggia battuta dal vento è lo spazio che apre alle ragazze la prospettiva  dell’immaginazione, l’orizzonte che guarda verso le infinite  possibilità offerte dall’avvenire. Così come l’acqua, questa volta quella della piscina dove si tiene il corso di ginnastica prenatale, è l’elemento in cui i loro corpi possono abbandonare il peso del reale e galleggiare nell’utopia. Al contrario, i percorsi predeterminati delle strade cittadine, o la noia racchiusa nelle inquadrature fisse sulle protagoniste, sole nelle rispettive stanze, finiscono per riportare in superficie tutta la gravità della situazione.

Il merito delle sorelle Coulin è quello di accostarsi a questo soggetto adottando uno sguardo che fa dell’indeterminatezza la propria cifra stilistica più evidente. La leggerezza solare delle sequenze di gruppo passa impercettibilmente al grigiore della solitudine introspettiva, in accordo con l’imprecisione del sentire dei personaggi. Le registe preservano il mistero che gravita intorno a una scelta così radicale e riescono a tenersi a debita distanza sia dall’indagine sociologica che dal fornire risposte ai nostri interrogativi. Si tratta dell’affermazione di una libertà individuale attraverso il corpo, della nascita di un modello familiare alternativo alla coppia, di una dimostrazione di autonomia rispetto al mondo costruito dalle figure parentali, oppure semplicemente dell’incoscienza di un gruppo di adolescenti? Rimaniamo con questo dubbio e con la sottile fascinazione di un enigma irrisolto.

17 ragazze (17 filles), regia di Delphine e Muriel Coulin, Francia 2011, 90′