L’industriale è quello che una volta si sarebbe definito un film “solido”, con una tesi di fondo esposta molto chiaramente, una narrazione che procede con sicurezza e una sceneggiatura in cui nulla è lasciato al caso e tutti i nodi finiscono per venire al pettine. Un film che rimanda all’idea di un cinema ormai scomparso in Italia, accantonato dal disimpegno delle commedie e dal doloroso disordine dei giovani autori.

Tornando a occuparsi dell’Italia contemporanea dopo trentadue anni (dai tempi de Il giocattolo) Giuliano Montaldo non ripensa radicalmente il suo cinema ma ne ricerca semplicemente un’attualizzazione. Così le componenti d’astrazione già presenti in moltE delle sue opere passate qui vengono estremizzate, soprattutto a livello visivo. I personaggi si muovono in uno scenario che pur non avendo quasi nulla di ricostruito appare irreale, trasfigurato anche da un uso antinaturalistico della fotografia, che spoglia completamente ambienti ed esseri umani del loro colore. Luogo simbolo dell’industria italiana, Torino sembra quasi una città fantasma, disabitata e austera, percorsa in auto dai protagonisti in viaggio tra ambienti che sembrano rifiutarli. Le uniche due scene che raggruppano un numero considerevole di personaggi sono quelle in cui il protagonista, Nicola Ranieri (Pierfrancesco Favino), si trova a fronteggiare prima i suoi operai e, verso la fine, il bel mondo accorso a festeggiare il salvataggio della sua fabbrica, i poli opposti tra cui il personaggio è lacerato e in cui sembra non trovare posto.

Ma a una messa in scena rigorosa e straniante e a personaggi che subito vogliono porsi come “esemplari” (l’industriale buono e quello senza scrupoli, il banchiere spietato, il ragioniere fedele, la moglie innamorata e combattuta, l’avvocato viscido, la ricca borghese arida) Montaldo oppone una sceneggiatura più verosimile, che rifiuta l’effetto e arriva addirittura a giocare con gli eccessi di un certo cinema italiano, come quando Nicola mette in scena un falso meeting con i finti acquirenti giapponesi e porta lo spettatore a credere che questa sia andata a buon fine nella tradizione più scontata dell’italiana “arte di arrangiarsi”. La verità, come in tutto ciò che nel film attiene al discorso economico, è invece decisamente più prosaica. Montaldo non cerca né spettacolarizzazioni né facili soluzioni: il tentativo di salvare la fabbrica è strutturato secondo una serie di prove andate a vuoto e a un ritornare costantemente al punto e al problema di partenza.

La progressione narrativa è invece affidata alla vicenda personale del presunto tradimento della moglie Laura (Carolina Crescentini) con il garagista rumeno Gabriel (Eduard Gabia). Quest’ultimo personaggio è esplicitamente rappresentato come un estraneo sotto tutti i punti di vista: è estraneo in quanto forestiero, è estraneo ai problemi che attanagliano i protagonisti e finisce per apparire estraneo al tessuto stesso del film, rappresentando l’unica nota di colore acceso in un’opera volutamente sbiadita. Se tutti i personaggi sembrano rispondere a logiche che Montaldo vuole mutuate dalla realtà sociale dell’Italia contemporanea, Gabriel è invece in tutto e per tutto un soggetto che acquista senso solo nella finzione: il suo amore per Laura è assurdamente casto e il suo lavoro è svolto di notte, illuminato dalla luce dei fari e accompagnato da brani di musica classica. Anche il rifiuto del denaro offertogli da Nicola per andarsene procede evidentemente in questa direzione. La presenza di questo elemento dissonante (non solo nell’economia del film) porta all’esplosione delle contraddizioni dei personaggi, ma finisce anche per mostrare, all’opposto, l’aridità di un mondo completamente consumato e dei suoi abitanti, che si spartiscono una carcassa ormai spolpata.

Proprio perché il cinema non può essere solo cronaca, Montaldo, fatta propria la lezione dostoevskiana, ci dice come dovremmo essere e come siamo, e lascia al suo protagonista due strade da percorrere, entrambe dirette inevitabilmente verso la dannazione.

L’industriale, regia di Giuliano Montaldo, Italia 2011, 94′