Ci sono pochi cineasti che possono vantare un curriculum autoriale cristallino al livello di David Cronenberg. In oltre quarant’anni di carriera, a partire dai primissimi Stereo e Crimes of the Future, il cinema dell’autore canadese ha saputo rinnovarsi continuamente, di film in film, pur continuando a rimanere se stesso. Proprio nei due lavori citati, situati a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70, prendeva una forma primigenia, ma già suggestiva ed estremamente controllata, una ricerca delle direttrici dell’animo umano che procedesse attraverso lo scandaglio di quegli elementi che si posizionano nella delicata zona grigia tra sessualità e psiche. È da qui, per Cronenberg, che si parte per capire cosa sia il futuro: non semplicemente una forma di preveggenza di ciò che verrà, ma una visione lucida e multiforme di ciò che attende il nostro corpo all’interno di uno spazio finito. Si sono scritti volumi interi sul “profeta della nuova carne”, e i fan della prima ora hanno fatto in tempo anche a prendere le distanze da lavori come A Dangerous Method, come se la scoperta dell’evoluzione, della trasformazione del corpo umano non passasse anche attraverso l’evoluzione del concetto di psiche (e della psiche stessa).

Cosmopolis in un certo senso fa piazza pulita di tutto questo. Cronenberg rilegge Don De Lillo come se lo scrittore americano fosse il solo in grado di mettere per iscritto il tentativo di provare dolore di personaggi come il  Max Renn di Videodrome o il Tom Stall di History of Violence. È forte l’emozione nel vedere il giovane miliardario Eric fondersi letteralmente come personaggio con la sua limousine: sembra di vedersi scorrere davanti agli occhi tutta la filmografia cronenberghiana, le linee di tensione degli interni del veicolo che schizzano verso un altrove in cui uomo e macchina diventano indistinguibili l’uno dall’altra. I concetti che entrambi esprimono sono del resto strettamente correlati: tanto la limousine isola Eric e i suoi ospiti dal mondo fisico esterno, e quindi gli impedisce di toccare con mano la sensazione di disfacimento e putrefazione che pervade l’umanità, tanto Eric è talmente alieno e affogato nel suo opulento mondo ovattato da essere incapace di comprendere che un mondo esterno esiste realmente. La visione della fisicità e della sessualità che emergono da Cosmopolis sono di una nettezza e di una lucidità tanto terribile da far sembrare Crash un horrorino di serie B: per Eric l’impatto con una lamiera contorta sarebbe un sollievo, un risveglio da un incubo terribile dove non esiste appagamento concepibile per i desideri, visto che è negata qualunque connessione tra causa ed effetto.

C’è più emozione nell’esame di una prostata asimmetrica che in un rapporto sessuale, c’è più tensione erotica in un dialogo con un programmatore che in uno (straordinario, ballardiano: da mostra delle atrocità) con la propria moglie che sembra impenetrabile (sotto qualunque punto di vista). In questo panorama sconsolante, in cui le emozioni degli altri sono un nulla, e quelle proprie ancora meno, brilla per la sua tragicità un senso di morte incorporea che pervade ogni cosa. “Non riesco bene ad immaginare la morte a quel livello di reddito” diceva un personaggio di Don De Lillo all’inizio di Rumore bianco, “Forse non c’è una morte come la conosciamo noi. Sono soltanto delle carte che cambiano mano”. In questo inferno così ordinato nel suo disordine, in cui il dolore fisico sembra quasi una dolce chimera, la sensazione più spaventosa è data dalla razionalità con cui la mancanza di senso viene distribuita equamente in tutte le cose: attraversare una città in tumulto per andare dal barbiere, scopare in auto, non scopare la propria moglie (anzi, non riuscire nemmeno a dare una forma al proprio desiderio per essa), uccidere la propria guardia del corpo, sono tasselli di una follia che è destinata  non esplodere mai, per autoalimentarsi come si autoalimenta la ridicola macchina capitalistica di cui Eric è il vertice.

La quotidianità diventa una sarabanda di meeting in agenda, e la percezione del reale (o meglio, del fattuale) non è cosa che possa essere presa in considerazione, come se il corpo dovesse produrre senza essere corpo. È Eric stesso a constatare la morte del futuro in nome del presente: forse è questo che Cronenberg ci dice da più di quarant’anni. Allo spettatore all’uscita resta una pluralità di dubbi privi di risposte: il più grande e più inquietante di tutti è che la mostruosa realtà di Eric sia molto meno lontana di quanto si possa immaginare. Forse tutto acquisterebbe un senso maggiore se si riuscisse a vedere coi propri occhi (e magari, chi lo sa, toccare) il luogo dove le limousine trascorrono la notte.

Cosmopolis, regia di David Cronenberg, Canada/Portogallo/Francia/Italia, 2012, 105′.