Esemplare caso di prodotto indipendente (come budget siamo sotto ai 2 milioni di dollari) che mescolando in egual dosi furbizia,  coraggio e visione è riuscito a intraprendere un percorso invidiabile, una marcia trionfale il cui abbrivo è stato il laboratorio del Sundance Institute e il culmine le quattro nomination nelle principali categorie degli Oscar, passando per la Caméra d'Or, il premio trasversale per la miglior opera prima del Festival di Cannes. È uno strano oggetto cinematografico Re della terra selvaggia, esordio del trentenne newyorchese Benh Zeitlin, tratto dalla pièce in un atto Juicy and Delicious di Lucy Alibar, che ha co-sceneggiato il film con il regista. 
 
È la storia della Grande Vasca, un'isolata comunità cajun e creola nel bayou paludoso della Louisiana, a un'argine di diga di distanza dai grattacieli e dalle brutture della società come la intendiamo noi; per il feroce ed energico Wink, e per sua figlia, la piccola e volitiva Hushpuppy, è semplicemente il posto più bello del mondo. Per alcuni membri della comunità è un luogo da abbandonare al primo segno di ribellione della natura. Per gli alieni che vivono al di là dell'argine si tratta di una zona di evacuazione obbligatoria, ai cui abitanti offrire vaccini, cibo e rifugio per dar loro l'occasione di scappare da quelle baracche che chiamano casa, in cui i fornelli si accendono con la fiamma ossidrica. Gli inossidabili della Grande Vasca non hanno intenzione di andarsene. Nemmeno quando le condizioni di salute di Wink, già precarie, si fanno irrimediabili. Hushpuppy ha studiato tutta la vita per diventare più forte, per essere degna del titolo di Re, per accettare la scomparsa del padre e salire al vertice della piramide dei predatori.
 
È indubbiamente una visione rara, quella di un'opera prima matura a livello drammaturgico ed estetico, vettore di un'idea di cinema che appare ben formata e originale, personale ma non ombelicale o involuta. L'esordio di Zeitlin è questo e molto altro. È un romanzo di formazione simbolico e poco convenzionale (se non nella struttura o nel linguaggio, quantomeno nell'andamento sghembo e onirico, sinusoidale), che programmaticamente colpisce cuore e mente. Un film che ha la piaggeria di mettere in scena una comunità nascosta e affascinante, portandola in palmo di mano pur senza eroicizzarla. Ha la furbizia di sfruttare la voice over della piccola Quvenzhané Wallis, che unita alla sua selvatica intensità, alla lacrima finale e a una bella colonna sonora folk carica di enfasi diventa un'arma di commozione di massa. Ma ha anche il coraggio di essere altro, di rifiutare di farsi ricondurre a un precedente e di rifugiarsi nella derivazione. Ha una visione di cinema che può fare incazzare come esaltare, ma difficilmente lascia indifferenti. 
 
 
Re della terra selvaggia (Beasts of the Southern Wild), regia di Benh Zeitlin, USA 2012,  93'.