È possibile essere inattuali senza essere nostalgici? Il nuovo millennio ha visto le sale spesso affollate di opere che, direttamente o indirettamente, rifacendosi a immaginari altri e riproponendo riferimenti al passato, finiscono con il dare vita ad accozzaglie di citazionismi e produrre sguardi nostalgici verso epoche d’oro ormai lontane. In pochi sono riusciti a far propri linguaggi inattuali per restituirli alla contemporaneità. Tra questi c’è sicuramente Bertrand Mandico, cineasta consacrato dal suo lungometraggio d’esordio Les Garçons sauvages, presentato alla 32° Settimana della Critica di Venezia, ma che aveva già realizzato numerosi cortometraggi, presentati nei festival internazionali e portati in Italia nell’omaggio a lui dedicato al 33° Lovers Film Festival – LGBTQI New Visions di Torino.

Mandico riesce nell’impresa di rievocare le ombre del passato con uno stile selvaggiamente viscerale che pone lo spettatore di fronte a visioni primigenie in cui anche la citazione si fa creazione. Nel farlo richiama i fantasmi di Vigo, Fassbinder, Cocteau, Anger e molti altri, irrorandoli dell’erotismo e della provocazione delle opere di Borowczyk (al quale Mandico ha dedicato diversi saggi scritti). Inoltre, gli immaginari evocati dal film vengono amplificati grazie all’utilizzo di tecniche ormai desuete nel ventunesimo secolo: la pellicola prende il posto della fredda immaterialità del digitale e i fondali, la retroproiezione, la dissolvenza incrociata e il maquillage manuale sostituiscono l’imperversante computer grafica.

Isola de La Reunion, inizi del Novecento. Il film si apre con cinque ragazzi che, in trance orgiastica, commettono un feroce delitto. Prosciolti dalle accuse vengono affidati a un misterioso capitano che promette alle loro famiglie di renderli innocui dopo un periodo in mare. A bordo dello spettrale vascello del capitano i ragazzi compiranno un viaggio che li condurrà su un’isola sovrannaturale dove tutte le loro certezze perderanno progressivamente consistenza. Nel raccontarci la sorte dei ragazzi selvaggi Mandico si appropria di Verne e Kipling come di Stevenson e Burroughs, trovando la propria voce a partire dagli echi a cui ha dato liberamente forma. In Les Garçons sauvages la fantasiosa appropriazione di immaginari, sia letterari che cinematografici, è il terreno ultimo per poi volgere lo sguardo verso incontaminati orizzonti di senso.

Liberatosi dalla costrizione dell’adesione a logiche binarie Mandico trova la forza propulsiva del proprio cinema nella mirabile capacità di farsi creatore di mondi visivi inesplorati. Pioniere alla frontiera del visibile, Mandico non afferma tesi dominanti ma esplora quei territori di confine dove la provocazione e lo scandalo dei corpi senza nome sono strumentali alla caduta delle convinzioni dello spettatore e all’apertura di nuovi orizzonti cinematografici.

Fare cinema come una volta, fare cinema come se fosse la prima volta.

Filmidee: Com’è nata l’idea dei ragazzi selvaggi?

Bertrand Mandico: Volevo realizzare il film che mi perseguitava, il film che volevo vedere, non mettere a tacere il mio piacere di spettatore e autore. Volevo cercare di esplorare un certo tipo di storia fantastica, una storia che solitamente non si sviluppa quando ci si appresta a girare il film d’esordio: una storia che combinasse avventura e surrealismo, isole tropicali e studio, navigazione e tempesta, sesso e metamorfosi… Ho girato il film cercando di abbracciare la fantasia, sempre con il desiderio di provocare il pubblico in questo senso. Nella scrittura de Les Garcons sauvages ho dato libero sfogo alle mie pulsioni, al mio desiderio di sfumare le carte dei generi. Il desiderio di fare un film d’avventura, epico, romantico, organico, fantastico, erotico… il desiderio di offrire alle attrici un tipo diverso di ruoli. Il desiderio di soddisfare il mio impulso cinematografico. È l’alchimia che ha dato il via a tutto. Ho immaginato un intreccio tra letture di gioventù, racconti d’avventura alla Jules Verne e William Burroughs.

Fi: Uno degli elementi caratterizzanti Les Garçons sauvages è la virilizzazione dei corpi femminili, da dove nasce questo tipo di scelta?

BM: Ho mescolato le carte. Le attrici interpretano ragazzi che diventano donne ma che restano maschi nella loro testa. I soliti punti di riferimento sono invertiti, scompaginati, i confini vengono cancellati. E il contesto in cui si svolge il film, lontano dalla realtà quotidiana, rafforza questa nozione di perdita di riferimenti. Non c’è più un rapporto binario, solo un’idea di pubertà iper-transgender… Nel film, uno dei personaggi, già trasformato in una donna (Séverine), vuole essere baciato da un capitano (dotato di un seno e innamorato di lei), a condizione che lei sia baciata non in quanto donna ma come un uomo amato da una donna. Non c’è più identità sessuale nel film, tutto è illusione, trasformazione, transizione perpetua, adattamento. Il concetto originale della storia era che le ragazze impersonassero dei ragazzi. Non ho mai visto il film in altro modo. Volevo addestrare le attrici in questa avventura, i problemi erano inebrianti per loro come lo erano per me. Se fossi stato costretto a girare con dei ragazzi mi sarei rifiutato di fare il film, sarebbe stato un errore. La metamorfosi nel film non voleva dire diventare una donna o diventare una donna di nuovo. I ragazzi dovevano adattarsi alle loro nuove condizioni fisiche, pur mantenendo la loro identità, rimanendo loro stessi. È un tipo di direzione degli attori abbastanza semplice, ma era necessario saperla dosare durante le riprese perché fosse credibile e sufficientemente ambigua.

Fi: La colonna sonora è estremamente eterogenea, da Offenbach a Nina Hagen Band: come hai scelto e che ruolo dai alla musica?

BM: La musica è come il fiume su cui navigano le mie immagini. Mi aiuta a svegliare la mia immaginazione, mi accompagna durante tutta la realizzazione del film. Creo una raccolta di canzoni che rispecchiano una colonna sonora immaginaria e possibile, che mi aiuta a concepire il film. Poi me ne disfo, e quando lavoro sulla colonna sonora, conservo alcuni dei pezzi preesistenti che mi sembrano essenziali, poi inizio a lavorare con i musicisti sulle loro creazioni che corrispondono alla mia visione del film. La musica è uno dei miei personaggi. Non riesco a immaginare un film senza musica… Ci sono, naturalmente, film secchi e lucidi… Ma che tristezza, alla fine, sono come occhi senza lacrime! La musica passa da un lato all’altro della mia storia come un’edera che intreccia una colonna (sonora) e così bacia e morde le immagini. Per Les Garçons sauvages ho usato come punteggiatura qualche brano chiave di Nina Hagen, Cluster e Offenbach… ma anche nuove creazioni del gruppo electro Scorpion Violente e della musicista islandese onirica Hekla Magnúsdóttir. Ho anche chiesto a Pierre Desprat di creare la colonna sonora originale, sommergendolo di riferimenti musicali per guidarlo al meglio, e lui ha saputo tradurre i miei desideri musicali con la sua voce cristallina e le sue melodie malinconiche. Infine, come ciliegina sulla torta, abbiamo costruito il brano conclusivo di Les Garçons sauvages rielaborando un pezzo originale di Ekko Löwensohn, sul quale sua sorella Elina ha cantato, Pierre ha scritto gli arrangiamenti e io ho scritto le parole.

Fi: Nel film i tuoi immaginari di riferimento non si esauriscono in citazioni fini a se stesse ma diventano la base per la creazione di un ambiente filmico. In questo senso, quanto è importante la tua anima cinefila nel tuo essere cineasta?

BM: Il cinema è il mio ossigeno, non tutto il cinema, ma un certo cinema romantico e selvaggio; perseguo un ideale. Sono molto permeabile ai film che vedo e richiamo le influenze che mi sono care, nel mio inconscio, senza cercare di identificarle, come un magma astratto. È come uno stato di ubriachezza che mi aiuta a trovare la mia voce, a determinare la mia strada e il mio linguaggio. Per Les Garçons sauvages ero ossessionato da fantasmi cinematografici eterogenei. Quando faccio un film, ho voglia di fare snorkeling nell’abisso più profondo, nel mezzo di navi che affondano, che sono i film che ho amato.

Fi: Nel mondo contemporaneo del green screen e degli effetti speciali scegli di riutilizzare i fondali, la pellicola, la retroproiezione… Un modo di fare cinema come andando alle sue origini, un modo che sembrerebbe ormai perduto.

BM: È nei limiti imposti, o che mi impongo, che trovo la mia libertà. Cerco di rendere grandiose cose che faccio con dieci o cento volte meno soldi di altri. Ho ambizioni visive forti e che costano care sulla carta, e mi impegno con particolare dedizione nel realizzare questi effetti con il minimo della spesa, pur rimanendo esigente sul risultato. Utilizzo tutte le possibilità che la pellicola mi offre, pur giocando con nuove tecnologie, le proiezioni digitali, le scansioni della pellicola. Cerco anche di giocare con la poesia insita nel trucco, la materia carnale e i rivestimenti. I suoi procedimenti abbandonati contengono, in qualche modo, ciò che chiamo erotismo cinematografico. In tutto questo vedo il digitale e i suoi effetti speciali come una materia fredda, quasi clinica. Mi piace mettere in discussione il cinema come viene inteso oggi, il suo canone. E provo a far eco al cinema che mi ha segnato. Senza fare film nostalgici o copie di altri. Mi sento particolarmente a mio agio nella mia epoca.

Fi: Non c’è traccia di realismo cinematografico in Les Garçons sauvages. Sembra che tu ci dica che il cinema e la vita sono elementi separati.

BM: Sono realista nella misura in cui faccio un cinema che accetta se stesso. Non cerco di far credere allo spettatore di aver realizzato un documentario, ma voglio sempre mostrare il dispositivo cinematografico, me ne prendo la responsabilità. È una forma di realismo. D’altra parte, creo mondi paralleli in modo da poter parlare meglio di ciò che mi circonda tutti i giorni. La realtà è troppo banale, per i miei gusti.

Fi: Su questo tema della realtà, uno dei tratti distintivi del tuo cinema è l’erotizzazione della natura. Tema che si trova anche nei corti del tuo Programme Hormona.

BM: Per me la natura è iper-sessuale, ho solo accentuato quello che vedo. La natura e le scenografie in generale sono elementi rivelatori. La natura è sempre forza rivelatrice di uno stato interiore dei miei personaggi.

Fi: Fai dello scandalo e del piacere il centro del tuo cinema. Sembra, per dirla con Amos Vogel, che tu non veda tabù visivi ma solo delle frontiere.

BM: Ho iniziato a scrivere con il desiderio di combattere le convenzioni della sceneggiatura, di essere libero, di esprimere le mie visioni. Mi sono lasciato trasportare dalla mia immaginazione, come una barca su un oceano in tempesta, cercando di arrivare sano e salvo al porto. È la meccanica organica vivente che mi motiva, la comunione dei fluidi, le fusioni, le metamorfosi: i valichi di confine, le zone non marcate… Lavoro su tutto questo in maniera ossessiva, quasi inconsciamente. Les Garçons sauvages non è un film a tesi, è più all’ordine della pulsione. Le mie idee mi dicono dove sono ma non mi dicono dove sto andando.

Fi: Ultima domanda: dopo una lunga carriera di cortometraggi, sei soddisfatto della forma del lungometraggio?

BM: Sì, assolutamente. Sono come una pianta che cambia vaso, le mie radici possono solo diventare più profonde.

(Intervista realizzata in occasione della rassegna “Altre Visioni” organizzata dall’Associazione Culturale Sindacato Belleville al Cinema Massimo di Torino, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema. Traduzione a cura di Alessandro Del Re e Giulia Briccardi)