“Avevo bisogno di quella leggerezza che solo nel tuo modo di vivere la vita riuscivo a trovare”: mossa da quest’urgenza, Maria Boldrin chiede al piccolo Theodor di girare il suo primo film assieme. I protagonisti saranno loro due, la macchina da presa sarà guidata da entrambi. Il tema: provare a ritrarre il mondo reale e quello dei sogni attraverso l’incontro dei loro sguardi.

La regista (soprannominata Momo) pone come gesto primario nei confronti del suo cinema la fiducia nei legami, in questo caso quello che col tempo si è creato fra lei e Theodor, novello filmaker di cinque anni. Li osserviamo mentre dialogano e costruiscono il film scena per scena: Maria spiega al suo apprendista cos’è un microfono e lui in cambio le insegna come cacciare un bisonte. Ogni gesto colma le lacune dell’altro, come nel più felice rapporto amoroso. Una macchina da presa “matura” (quella professionale usata dall’operatore) cerca di cogliere l’imprevedibilità del bambino, mentre la sua (autenticamente rudimentale) riprende la troupe e la sua amata compagna di avventure.

Theodor spinge come per gioco l’altalenarsi tra forma e teoria, l’interno sicuro di un appartamento e le strade fredde di Vienna, il pensare a una cosa e il farla senza pensieri. La voce della regista accompagna la visione sollevando ogni velo di finzione dalle cose: quel che resta è lo sguardo curioso in camera di un bambino, con i suoi pensieri luminosi sul mondo e le soluzioni più semplici ai problemi. I caldi toni immacolati di una stanza con i suoi giochi fanno riemergere dalla memoria quei ricordi perduti d’infanzia. L’interesse da parte della Boldrin nel restituire in maniera fedele quel sentimento è frutto di una didattica, ancora prima dello sguardo, dettata da rapporti umani sinceri. Il film diventa solo un pretesto per lasciare una testimonianza di questo incontro unico: “Non credo che fra qualche anno ti ricorderai ancora, ma volevo che un giorno tu sapessi quanto sei stato importante per me”. Il bisogno di cure che la regista ha prestato negli anni da babysitter a Theodor, oggi si inverte. Questa volta è lei che ha bisogno di sicurezze, proprio nell’età dei vent’anni in cui finisce un percorso e si fa strada nel mondo degli adulti. Il film racconta anche questo: fasi di passaggio da cui è impossibile fuggire, a cui è importante non sottrarsi. Il piccolo Theodor combatte la paura di fronte a un acquario di squali, così come Maria sceglie di abbandonare Vienna per cambiare vita.

La sperimentazione con nuove forme di linguaggio (ci vengono in mente i recenti Selfie di Agostino Ferrente e Un film dramatique di Éric Baudelaire) non può dissociarsi dalle intenzioni di chi lo utilizza. In questo caso, non solo il gesto di mettere in mano una videocamera a un bambino, ma ancor prima insegnargli come usarla per potersi esprimere liberamente, diventa parte fondante del film stesso. Grazie all’ottimo lavoro svolto dalla regista, abbiamo la possibilità di osservare il mondo con occhi vergini. Ma la cosa che ancora più commuove, è pensar che Theodor non sta solo filmando ciò che vede, ma quello che ritiene importante e che desidera rivedere. Riprende mentre impara a contare, mentre scende dallo scivolo con il padre, mentre osserva il fratello più piccolo. Abbiamo allora, ancora più che un posizionamento visivo “dal basso”, una testimonianza diretta di quello che conta per un bambino nel momento stesso in cui è lui a scegliere. Il cinema didattico si è imposto il dovere di pensare a cosa sia meglio per i bambini, ma raramente come in questo caso ha lasciato che fosse il bambino a prendere la parola. Ascoltarlo, ci fa pensare a nuovi mondi.