Elegy of the Enemy
Federico Lodoli e Carlo Gabriele Tribbioli firmano la regia di Elegy of the Enemy, cortometraggio girato in Afghanistan nel 2022 in occasione del primo anniversario della ritirata dell’esercito statunitense dal suolo afghano. Il film è strutturato in forma anti-narrativa: nell’incipit vengono riportate le tesi del premio Nobel russo Ilya Prigogine riguardo la tendenza del pensiero dell’essere umano ad essere in continua evoluzione. Subito dopo, un voice-over con le parole dei mujaheddin protagonisti dei passati scontri con l’invasore americano fa da sottofondo a un collage di immagini e clip tratte da parate celebrative e da suggestivi scorci del paesaggio montano e urbano.
Nonostante il titolo possa sembrare una provocazione allo spettatore, dal film emerge un ritratto autentico del popolo afghano, caratterizzato dall’orgoglio per la propria storia e per le proprie tradizioni, inevitabilmente segnate dalla ferrea osservanza dei princìpi islamici. La stentorea voce dei leader bellici ribadisce la legittimità della loro jihad contro l’invasore statunitense, reiterando l’importanza di trasmettere di generazione in generazione questi valori, pilastri fondamentali dell’identità afghana.
È impossibile rimanere impassibili di fronte alla convinzione con cui queste cause vengono affermate. Nonostante i registi stessi abbiano dichiarato apertamente di aver girato un film dal chiaro intento politico, volto in particolar modo a ribaltare i pregiudizi verso i popoli islamici asiatici, la pellicola non scade mai nella propaganda. Una nota di amarezza chiude il film: la realizzazione che la storia afghana, basata su antichissime credenze, si trova in piena contraddizione con le asserzioni del pensatore russo in apertura.
Giuseppe Pagliarini
La montagna magica
Nell’assedio quotidiano delle immagini tragiche e catastrofiche, la visione di un documentario come La montagna magica di Micol Roubini lascia in noi una strana, ammaliante, sensazione. Una magia che spiazza, per l’audacia narrativa nel voler lasciar raccontare ad un’intera comunità qualcosa che ha sconvolto le loro esistenze, privandoli dei loro punti di riferimento. Senza mai, però, mostrare la tragedia.
Il film, infatti, scava, letteralmente e metaforicamente, nella memoria di un luogo segnato dalla storia industriale italiana: l’ex miniera d’amianto di Balangero. Attiva dal 1918 al 1990, questa miniera, la più grande a cielo aperto d’Europa, diventa il punto di partenza di una riflessione visiva e narrativa sulla relazione tra uomo e territorio.
La tragedia c’è ma non si vede. La regista ci porta alla scoperta di un mondo sommerso dando spazio ai sognatori (così li etichetta nei titoli di testa), esponenti della già citata comunità che vive nei pressi dell’ex cava; sogni raccolti e trascritti senza inventare nulla, come in un flusso di coscienza joyciano.
Il viaggio, fisico e onirico, comincia con il primo capitolo, denominato «La selva», che serve alla regista per introdurre il paesaggio e i personaggi. Qui la selva non è oscura, anzi; una natura quasi incontaminata appare, ma subito comprendiamo la distanza tra quanto visto e quanto narrato: aria irrespirabile, polvere bianca, finissima, sulla frutta, sul viso e sulle mani dei protagonisti, cielo grigio, silenzio e poi paura. Tutti concetti espressi solo a voce e celati allo spettatore: il nemico non si mostra mai, si racconta soltanto.
La montagna, vera protagonista silenziosa, rimane sullo sfondo senza dare punti di riferimento. Le foto dell’epoca, ripescate da archivi di stato, permettono allo spettatore prima di tornare vigile sul racconto, di potersi immergere nell’atmosfera dell’epoca; e poi di seguire un ritmo narrativo che rimane volutamente lento e segue i lavori di bonifica della zona, a loro volta estremamente delicati e bisognosi di tempo. Tanto che il secondo capitolo, intitolato «L’abisso», diviene di fatto una lezione di chimica: le lunghe passeggiate servono al tecnico di laboratorio per svolgere il lavoro di bonifica in uno spazio alienante, novello Eden contaminato dall’uomo.
L’ultimo capitolo del film, «L’impalpabile», vede protagonista finalmente l’amianto, che si guadagna lo schermo grazie alle immagini di laboratorio ingigantite che fanno da contraltare alla corsa nel bosco del ragazzo che già aveva aperto il film; il quale, nel finale, subisce una vestizione con casco e tuta, nuovo rappresentante di una comunità che vive ancorata nel passato.
La montagna magica è un’opera che richiede tempo e attenzione, un viaggio poetico e riflessivo in cui la regista fonde immagini, voci e suoni per restituire un ritratto complesso e struggente di un territorio ferito ma in trasformazione. Film che invita lo spettatore a fermarsi, ascoltare e osservare, in un’esperienza immersiva e toccante.
Luca Talotta
Nella colonia penale
Nella colonia penale, co-regia di Gaetano Crivaro, Silvia Perra, Ferruccio Goia e Alberto Diana, è un film documentario del 2025 selezionato nel Concorso Gabbiano della 43esima edizione del Bellaria Film Festival.
Il film è ambientato in Sardegna, precisamente nelle colonie penali Isili, Mamone, Is Arenas e nell’ex carcere dell’Asinara, luoghi alienanti e difficilmente raggiungibili che confinano i detenuti in aree rurali abbandonate.
Il documentario segue due fili conduttori paralleli e si divide in due parti: una prima che mostra la quotidianità delle case di lavoro all’aperto, in cui il tempo è scandito da inquadrature che enfatizzano il susseguirsi delle stagioni e mostrano una reclusione solitaria e inesorabile. Le giornate sono immerse nel lavoro. Simbolica è l’immagine dei carcerati che costruiscono un muro, come se fossero loro stessi a sostenere la propria gabbia: è infatti labile la differenza che persiste tra lavoro salariato e detenzione.
La seconda parte, invece, è incentrata sul carcere dell’Asinara, chiuso dal 1998, la cui attività principale è rimasta la repressione e deportazione degli animali selvatici, importati insieme ai detenuti, proliferati e ormai rimasti gli ultimi abitanti del luogo.
Non vi è una netta differenza fra i carcerati e gli animali: la scena di apertura con i primi che vengono trasportati dentro dei rimorchi si ricollega alla fine con quella che mostra i secondi strappati dalla loro “nuova casa” e riportati alla vecchia. Li accomuna il confino e il destino di isolamento, in un territorio del tutto nuovo ed estraneo a loro.
Samuele Calosi