UNA MISTERIOSA CARICA D’AFFETTO

Negli ultimi anni, anche grazie a Internet, appare moltiplicato un tratto che era da tempo centrale nei media: il loro nutrirsi di immagini del passato, che si ripresentano a distanza di tempo (spesso pochissimo) gravide di una misteriosa carica d’affetto. Gli spot pubblicitari e i video musicali ci offrono versioni mignon dell’immaginario cinematografico degli anni ’60, ’70 o ‘80, squillanti colori optical o sgranati super8; gli spettacoli televisivi dagli Usa all’Europa puntano sempre più sul ritorno, talvolta sadico e quasi necrofilo, delle vecchie star; l’industria automobilistica e il design ripropongono oggetti quasi uguali a quelli di qualche decennio fa (la Vespa o la Coccinelle Volkswagen). Sono continuamente in cantiere nuovi remake di film e telefilm. Per non parlare della musica, che, secondo il critico Simon Reynolds (Retromania: Pop Culture’s Addiction to Its Own Past, Faber and Faber 2011) è dominata, negli anni 2000, dal prefisso “re-” (remake, rétro, remix, rentrée…).

Quando pensiamo a un periodo del secolo scorso, prima ancora che una serie di eventi o personaggi, viene in mente la grana delle immagini e il ritmo delle musiche: il bianco e nero, il super 8, il video pieno di “sganciamenti” della tv anni ’80. Come ci spiegano i sociologi, la nostalgia si affaccia come meccanismo compensativo, nei momenti di  crisi e di passaggio: tra le età della vita, o tra le epoche della storia. Da tempo il fenomeno più vistoso è la cosiddetta Ostalgie, quella che, nei paesi ex comunisti, si manifesta come passione feticista per i poveri prodotti industriali di prima del 1989 (specie in Germania Est, ma anche in Russia, Bulgaria, Ungheria, etc). In Europa e negli Usa, poi, esiste una vera industria della nostalgia: numerosi manuali di nostalgia-oriented marketing spiegano come sfruttare la nostalgia delle varie fasce d’età e generazioni, basandosi su ricerche di mercato. A sfogliare questi diabolici manuali, emerge qualcosa che i cinefili hanno spesso intuito: le generazioni iper-nostalgiche non sono quelle dei più vecchi, ma i trenta-quarantenni, cresciuti davanti alla televisione. Insomma: la nostalgia crea un’identità generazionale che non passa più attraverso grandi narrazioni collettive ma attraverso memorie individuali di spettatori-consumatori. Il contenuto della nostalgia, d’altro canto, sembra quasi irrilevante: le aziende e la pubblicità suscitano la forma di un sentimento, non si rifanno a eventi storici, a referenti reali.

Il cinema non è in prima linea in questa propaganda del passato: ma certo ne è stato il protagonista, soggetto e oggetto insieme lungo i decenni. E oggi, ciò che fanno molti registi è fronteggiare questo passato struggente e sinistro che assedia le immagini del cinema e insieme le nutre.

NOSTALGIA DI MASSA

Occorre fare un passo indietro, perché è vero che “la nostalgia non è più quella di un tempo”. Intanto, come la intendiamo noi, oggi essa è figlia della modernità. Fino a un certo punto, la nostalgia seguirà un paradigma “modernista”, l’idea della storia come declino; il senso di una perdita di totalità e di senso. È, appunto, il doppio dialettico della nozione di progresso, inseparabile da esso. Ma è negli ultimi decenni che è successo tutto. La nostalgia di massa esplode negli Usa già negli anni ’70, l’epoca di L’occhio privato, American Graffiti, Come eravamo. Un decennio anche di nostalgia cinefila, che approdò al trionfo dei remake anni ’80, e a veri casi di edipismo (De Palma con Hitchcock; Bogdanovich, di volta in volta, con una decina di registi). Ma, nel decennio seguente, qualcosa cambia. Intanto, la memoria diventa sempre più mediale. Come scriveva il sociologo Fred Davis nel 1979, la nostalgia “esiste per i media, grazie ai media e nei media”. Il divario temporale tra il fenomeno e la sua riapparizione come oggetto nostalgico si accorcia sempre più, e la nostalgia si rifà a eventi di carattere privato e non collettivo; l’identità nel tempo si fonda su frammenti di passato; il legame più forte non è tanto con la giovinezza, quanto con l’infanzia; tra il presente e il passato non c’è una continuità, seppure nel senso della decadenza, ma un salto. Infine, sono spesso gli oggetti manchevoli, dimenticati, brutti a suscitare nostalgia nel loro riemergere. Oggi, la situazione è ancora più ampia e complessa. Più che di rétro, revival o nostalgia, per il rapporto del cinema odierno con il passato il termine più opportuno è forse quello di vintage.

UNA MEMORIA INTIMA E OMOLOGATA

Per i nostalgici degli anni ‘70, e in parte ‘80, il rapporto affettivo con il passato è la tappa di una continuità, è un filo rosso da seguire, una narrazione. L’oggi è figlio dello ieri, lo spettatore e il regista hanno un rapporto piuttosto intenso con il passato proprio e altrui. Man mano, però, assistiamo a una mutazione, quella stessa che all’epoca veniva intuita nei saggi di Fredric Jameson, quando diceva che la rottura della temporalità storica libera “un presente che inghiotte il soggetto con indescrivibile vividezza (…) portando con sé una misteriosa carica d’affetto”. La relazione col passato è “alienata”: il modello non è più il romanzo borghese di formazione, ma un “assortimento consumabile di immagini, segnato molto spesso dalla musica, dalla moda, dalle acconciature, dalle moto o dalle auto”. Più che apparire come qualcosa che scorre, il passato sembra situabile spazialmente (come l’Avid rispetto alla vecchia moviola…) in un luogo ideale, un inventario che sta da qualche parte e dal quale si può attingere. La forma principale di questa apparizione, per cui in effetti il vintage è il contrario della storia e perfino della memoria, è la moda: una moda-citazione, per la quale il passato è un guardaroba. E il successo delle operazioni vintage sta nel far tornare il periodo giusto al momento giusto.
In questa fase più recente del vintage le ultime tracce di una soggettività evaporano per lasciar posto a una memoria insieme intima e omologata. Nei registi, questo si traduce in un rapporto con il cinema del passato che non implica più un rapporto di conflitto, emulazione, di “angoscia dell’influenza”, o la figura di un Autore alle prese con il passato. C’è anzi un certo automatismo nel rapporto con queste immagini, un loro dialogare impersonale e trans-mediale, nel quale il cinema è solo uno degli snodi.

È istruttiva, al riguardo, la differenza tra due figure come Steven Spielberg e Quentin Tarantino, indicative di due diversi decenni. Il primo è insieme l’alfiere della citazione, del remake esplicito o mascherato, e l’ultimo rappresentante di un vecchio amore per il cinema, cresciuto soprattutto davanti alla tv. Gioca ancora con l’iper-soggettivazione del passato, collegato, più esplicitamente di altri, al mondo dell’infanzia. Il cinema del passato è qualcosa che si guardava da bambini, e che si filma ridiventando bambini: questo vale non solo per lo Spielberg regista da Incontri ravvicinati del terzo tipo in poi, ma anche per lo Spielberg produttore (Gremlins, The Goonies). Tarantino invece compie il passo verso una compiuta oggettività e autosufficienza dei simulacri. I frammenti di commedia e di tragedia si possono estrarre dal cinema più infimo e ridicolo, e gli anni ’70, ad esempio, divengono una main form, ma privati di ogni referente storico reale. Il passato, che è essenzialmente un’immagine, è innanzitutto fonte di coolness, più che di nostalgia. (Il punto di non-ritorno, per Tarantino, è stato Grindhouse, allegro canto necrofilo del deperire della pellicola, dopo il quale Bastardi senza gloria apre forse un’altra strada).

Se nel cinema “postmoderno” degli anni ’70 e ‘80 ricordi personali e ricordi mediali potevano confondersi, e i primi ammantare i secondi, fingendo di essere loro i protagonisti, con il trionfo del vintage ogni illusione è scomparsa. Ciò che credevamo essere la nostra parte più intima è forse anzitutto un’immane distesa di immagini. Ma non per questo, la temperatura emotiva con cui questi simulacri ritmati e colorati ci vengono incontro diminuisce, né l’emozione che essi suscitano è meno intensa. I registi più profondi sono stati forse non coloro che hanno cercato disperatamente e nobilmente di recuperare il senso del passato, e la forza emotiva di una nostalgia “progressiva”, ma coloro che si sono avventurati nei lati più oscuri di un mondo di immagini vintage ormai slegate dall’oggi. Se si osserva la carriera di alcuni dei massimi registi tra anni ’80 e ’90, si può scorgere l’intuizione di questo mutamento. I personaggi di Tim Burton (Edward mani di forbice, ma non solo) si muovono in un mondo di merci che mimano un indefinibile e struggente passato che non è mai esistito e si ripete sempre uguale, una “Burtonland” che non si saprebbe dove collocare: forse in un Natale trascorso davanti alla tv.  Per Lynch fino a Cuore selvaggio l’accumulo di segni e simulacri, liberi dalla storia, è il simbolo del caos e della follia del mondo, ma anche il sogno di un utopico altrove (come il mago di Oz, prototipo del mondo finto eppure a suo modo paradossalmente funzionante): e nei suoi film successivi le certezze non saranno né storiche né psicologiche (i personaggi sfumano l’uno nell’altro), ma morali e quasi teologiche: il diavolo, probabilmente.

POST-AUORIALITÀ DEL VINTAGE

Dall’epoca della Amblin a quella di Tarantino a quella di Mad Men, sarebbe interessante seguire i vari aggiornamenti del vintage cinematografico, il suo intrecciarsi con gli altri media e con i processi di produzione. Anche la semplice pratica dei generi classici rischia di apparire talvolta un esercizio vintage. Specie in alcuni casi, come la fantascienza. Lo ha mostrato di recente Moon di Duncan Jones, piccolo omaggio alla fantascienza pensosa e minimal (Dark Star di Carpenter, serie tv come Ufo o Space 1999). E gli spettatori informati avranno provato un piacevole brivido supplementare nel sapere che l’autore del film era “il figlio dell’uomo che cadde sulla terra”. Greg Mottola, che ha costruito una certa riconoscibilità di autore attraverso un uso ironico dei media passati, si è inventato in Paul un simpatico alieno, costruito attraverso la classica iconografia anni ’50 – e alla X-files – il quale, abbandonato negli Usa dal 1947, avrebbe fatto anche da consulente a tutta la cultura pop americana da allora (compreso Spielberg, ovviamente).

L’impersonalità o la post-autorialità del vintage emerge al meglio nelle serie televisive, dove in effetti la figura dell’autore deve essere ripensata, passando dall’autore al produttore, lontano dai segni stilistici.  Mad Men riesce a creare un universo autosufficiente che, attraverso la serialità, ottiene un surplus di fascino e di autosufficienza, con il paradosso che gli anni ’60 del film non sembrano, come nel classico paradigma della nostalgia americana, un mondo innocente, ma un mondo adulto (in cui si fuma, si beve), e il perno è la diffusa sensualità che anima i rapporti tra i personaggi. Un mondo iper-sessuato, come se il fondo del vintage fosse una mascherata sexy (elemento, questo, amplificato nella recente serie Pan Am).

Colui che ha fatto di questa condizione vintage il cuore della propria opera è Todd Haynes. L’ultimo Mildred Pierce torna sulle orme di Lontano dal Paradiso variandone il progetto. Lì il regista smontava il dispositivo della Hollywood classica mettendola a confronto con il non-visibile, il fuoricampo dell’epoca (nel sesso, nella politica, nei conflitti razziali) ma senza mai uscirne; insomma trattava dei contenuti rimossi del cinema classico americano usando il suo stesso stile ellittico. L’adattamento del romanzo di Cain Curtiz, invece, fa con il mezzo-tv quel che i grandi registi mélo facevano ai loro tempi: lo sabota. Con iniezioni di realismo bruto (calcagni sanguinanti, vomito, un sesso ben poco glamour, con la scelta stessa di un passato “fuori moda”come gli anni ’30 della Depressione). In questo modo, inquina l’autoreferenzialità del serial spiazzando di frequente lo spettatore, con una strategia opposta a quella di Mad Men.

SUPREMAZIA DELLE SUPERFICI

Il vintage ha fino a un certo punto le sue momentanee preferenze, magari legate all’avvicendarsi delle generazioni: quelli a cui di volta in volta i trenta-quarantenni sono più sensibili. Oggi il massimo del cool sono forse gli anni tra la fine degli ‘70 e gli ‘80, come mostrano da tempo i remake di film e telefilm (Starsky & Hutch, Charlie’s Angels, Hazzard, gli imminenti Footloose, Dallas, Ghostbusters, Visitors), o quel sorprendente evento che è stato il 25mo anniversario di Ritorno al futuro. La Fox ha lanciato un canale satellitare dedicato esclusivamente ai telefilm anni ’70-‘80, Fox Rétro (al momento attivo in Italia e in Sudafrica, presto in un altro paio di paesi europei). Ma ormai il vintage ha raggiunto una tale auto-sufficienza che non vale più nemmeno la cosiddetta “regola dei vent’anni”, per cui ogni decennio idealizza i vent’anni prima. La nostalgia vintage ha anzitutto la funzione di attivare segni, e può riferirsi tranquillamente a epoche che i soggetti non hanno mai conosciuto. L’importante è che siano epoche interne al sistema dei media, che ci abbiano lasciato film, canzoni o fotografie.

Forse il modello, il prototipo della nostalgia vintage è stata una certa immagine degli anni ’50 e dei primi ’60, come mondo prima della coscienza sociale e politica, prima della grande crisi economica (per gli Usa, prima dell’omicidio Kennedy e del Vietnam). Questa “funzione” ’50 o ’60 ha un valore per lo più regressivo, che ci mette davanti a una conseguenza interessante: al momento, dal circuito del vintage è esclusa l’eredità della nouvelle vague, e della modernità cinematografica. Degli anni ’60 si possono dunque prendere alcune superfici, per esempio di Jacques Demy, a ogni operazione colta-rétro non può mancare Catherine Deneuve, e l’immagine di Anna Karina è presente in tanti profili facebook, ma l’intreccio di rottura modernista, coscienza della storia del cinema, e iper-soggettivismo giovanile, rimane qualcosa che al momento non si sa bene come digerire e rendere vintage.

Ne è ben cosciente Christophe Honoré, che in Les bien-aimés, in apparenza gioca con gli stessi materiali di certi film di Ozon – ma in realtà tutti i suoi sforzi sono di andare contromano, risalire la corrente della nostalgia unendo invece di separare, creando un racconto nel tempo: andare insomma a ritroso dal vintage alla storia. Ma ciò mostra una volta di più la forza del paradigma neo-nostalgico, la difficoltà di raggiungere il racconto partendo da una supremazia delle superfici: il film si apre e si chiude sul primo piano delle scarpe, e come in ogni film rétro, a trionfare è sempre il feticismo dell’oggetto.

BALLANDO AL BUIO

I segni del vintage, i ritmi, gli oggetti possono sfiorare la pelle di un film, e segnarla. In Drive di Nicholas Winding Refn il giubbotto di Ryan Gosling, le musiche (quasi tutte originali, ma in stile anni ‘80), le auto, il recupero di una dimensione narrativa in cui la suspense viene dai silenzi e dalle pause, creano un mondo di grande tensione emotiva che allude a qualche altro tempo e altro luogo ma che rifiuta ostinatamente di mostrare altro che la propria superficie. Siamo davvero oggi? Da dove viene questo senso di déja vu, questa eco? Le musiche sono anni ’80, ma le atmosfere sono da poliziesco urbano precedente, come se il protagonista fosse stato catapultato dritto dall’epoca di Taxi driver o Driver di Walter Hill. L’indecidibilità cronologica, l’allusione che non si fa citazione, ottengono un effetto di sbandamento. Anche qui il passato è qualcosa che può essere credibilmente tragico e adulto e insieme svolgersi secondo le regole del genere, il che rende ancora più fatale e cupo il destino dei personaggi-maschere.

Ancora più difficile, vertiginosa, la strategia di The Artist davanti alle proprie immagini. Hazanavicius non cerca di smascherare il vintage risalendo alla continuità storica (per quanto fiabesca e musicale), ma attraverso una paradossale storicizzazione filologica, di una filologia che, anziché togliere magia, ne dona ulteriormente. Il passato di The Artist non è all’imperfetto, ma anzi sottolinea con precisione i passaggi cronologici.
Anche qui, come in Super8, a un certo punto si può ricadere in una sorta di effetto vertigine, di mise en abyme. Se Abrams, nel rendere omaggio a Spielberg, lascia intravedere al fondo delle proprie immagini il rapporto tra anni ’80 e anni ’50, la parodia filologica di Hazanavicius ha a tratti l’aspetto di certi titoli degli anni ’70 (Movie Movie, Silent Movie, Frankenstein Junior) in cui la parodia era indistinguibile dalla nostalgia. La differenza è però questa: che i registi-cinefili degli anni ’70 si nutrivano del passato, mentre oggi Hazanavicius deve nutrire lui il passato, reinventarlo e accudirlo, senza alcuna complicità, senza trovare in esso conforto e rifugio.

La trovata centrale del film, ossia il suo anacronismo stilistico (il film continua a essere muto anche quando racconta gli anni Trenta) è una specie di metafora dell’inadeguatezza del cinema come lo abbiamo conosciuto fino a oggi. La tonalità ultima è perciò più cupa di quella di un ironico “omaggio al passato”, il muto non è grazia ma anche prigione. Il cinema di oggi, sembra dire Hazanavicius, deve ricominciare a parlare – e forse soprattutto a ballare. La risposta finale, liberatoria e insieme disperata, è per il regista un ritorno, nel massimo di artificio rétro, alla realtà fisica della performance. The Artist termina su un classico, elegante piano intero dei due protagonisti che ballano davvero, a lungo, senza stacchi. Ricordandoci che quel che ci manca, e a cui il cinema non vorrebbe dire addio, è il tempo che scorre, i corpi dentro questo scorrere, e il loro ritmo.

L’ULTIMA INFANZIA POSSIBILE

Più complessa l’operazione di Super8, che si regge su un sottile gioco di rimandi. Il film unisce sotto una medesima temperatura emotiva la bassa definizione del super8 e lo splendore delle fiabe di Spielberg. Il suo omaggio alla fantascienza dell’epoca (il film è ambientato nel 1979) è inevitabilmente una mise en abyme, perché Spielberg, abbiamo visto, è stato il principe di un cinema fatto d’altro cinema. Abrams lo sa e quasi lo teorizza nello script, quando mostra che la soluzione di tutto va cercata nel 1958: è forse quella la scena primaria delle immagini che vediamo.
Nel film di Abrams, in cui il protagonista è una sorta di piccolo Dick Smith (vale a dire: prima degli effetti digitali), nella scena dell’incidente del treno fanno irruzione gli effetti del cinema catastrofico contemporaneo. In questa maniera, Abrams si rivela e mostra indirettamente il tempo a cui appartiene.
Questa città di provincia, le scene notturne, i piani medi in cui tutti i protagonisti compaiono insieme, ci dicono d’un tratto dell’equilibrio e della tensione tra solitudine e comunità prima dell’epoca della comunicazione globale del web. In maniera significativa, Abrams non si interessa particolarmente all’epoca, alle sue scenografie, ai suoi costumi e alle musiche del momento; sceglie piuttosto lo stile dei film della sua infanzia come incarnazione ideale dell’ultima infanzia possibile del cinema americano. Super 8 è il racconto di una crescita e di una comunicazione che passa attraverso gli occhi, gli sguardi tra i personaggi (vivi o morti) o nell’occhio del cinema (passato o presente).

Emiliano Morreale, critico e selezionatore di festival, ha pubblicato il libro L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli 2009.