Introduzione. IL FILM ALL’EPOCA DELLA SUA (SOGNATA) IRRIPRODUCIBILITÀ TECNICA di Roberto Manassero

Perché l’ultimo film di Jonas Mekas, il suo ennesimo video-diary Sleepless Night Stories, presentato al Forum Expanded dell’ultima Berlinale, era infinitamente più bello e profondo e ispirato di qualsiasi altro film underground americano visto in una sezione composta per la maggior parte da registi con un quarto dell’età dell’ottantaduenne Mekas ma un decimo della sua capacità di cogliere il divenire dell’arte rispetto al suo tempo? E pensare che l’Expanded dovrebbe cogliere l’anima più avanguardista del cinema contemporaneo, non solo americano e non realizzato nel solco di Mekas e compagni.
 
Come scriverebbe lo stesso regista newyorkese, con lo stile diretto e colloquiale, da artista sulle barricate, utilizzato per i testi qui ripubblicati, la risposta è semplice. Perché il cinema underground che si produce ancora oggi soprattutto a New York, lontano dall’astrazione oggettiva di James Bening e di sue allieve come Sharon Lockhardt o Deborah Stratman, non è diverso da quello che cinquant’anni fa, all’inizio degli anni ’60, venne definito New American Cinema e che Mekas, allora e nei decenni a seguire, contribuì più di ogni altro a diffondere e teorizzare, oltreché, naturalmente, a praticare.
Fa perciò un certo effetto – ed è ancora più importante – leggere quello che Mekas scriveva in quel periodo, sia in difesa di attacchi molto violenti sia per delineare i presupposti di un cinema che aveva nella sua infinita mutevolezza anche la sua forza. Perché la natura cangiante e purtroppo paradossale di quel cinema l’ha portato a bruciare le tappe della propria evoluzione, facendolo diventare in breve tempo l’immagine cristallizzata di un periodo storico, la visione immediata di un futuro che non sarebbe mai arrivato.

Il New American Cinema è ancora oggi un momento fondamentale dell’arte del ’900 (non solo del cinema, si badi bene): un’avanguardia rapida e vorace, come forse tutte le avanguardie, capace di cogliere la propria essenza nel momento stesso in cui affermava la propria visione. Una visione nuova, totale, oltre la finitezza della pellicola e dentro la materialità della luce, ma anche assoluta e non rinnovabile.

Leggere ad esempio che nel 1965 un film come Shadows, datato 1959 e per ammissione dello stesso Mekas fondamentale per la rottura con il cinema convenzionale, era in realtà già superato – perché «da allora sono trascorsi cinque anni. Anzi sei. Sono successe tante cose. È avvenuta una rivoluzione. È nato tutto il nuovo cinema» – fa capire come per i suoi protagonisti il cinema underground fosse soprattutto un corpo in costante evoluzione, un’espressione libera che correva contro il (proprio) tempo.

Ed è questo che hanno fatto quei grandi protagonisti, Ken Jacobs con la decomposizione del montaggio, Stan Brakhage con l’alterazione del singolo fotogramma di pellicola, Gregory Markopoulos con gli sfarfallii dell’immagine, Storm de Hirsch con il nastro magnetico bucherellato, lo stesso Mekas con la creazione di un unico, infinito diario filmato di una vita privata e universale: tutti quanti hanno lanciato la loro invenzione ben oltre il traguardo prefissato, con l’incoscienza di chi era troppo avanti per accorgersi di essere già arrivato.
«Ed ecco che a questo punto siamo a un passo dal cinema assoluto, dal cinema della nostra mente. […] Facciamo un altro passo e togliamo di mezzo tutti i film per diventare film noi stessi». Come si può, rileggendo oggi queste parole, non pensare che il New American Cinema si sia esaltato e al tempo stesso esaurito nella meraviglia della sua ambizione? Nel momento in cui si intendeva come infinito, oltre il bordo di qualsiasi inquadratura e qualsiasi supporto, era già arrivato alla fine del suo viaggio, «alla mente dell’occhio» come scrive Mekas, «al cinema definitivo delle persone».

Nella raccolta di saggi qui presentati, che considera un arco di tempo compreso tra il 1962 e il 1969, si possono cogliere la fatica, l’eccitazione, se vogliamo anche la convinzione un po’ ingenua, con cui Mekas definisce e difende i territori di una nuova direzione artistica. Una direzione costruttiva, non distruttiva, come ci tiene a precisare, ma il cui valore sarebbe stato sempre ricondotto a un particolare periodo storico, lo stesso tracciato dalle date dei saggi. Ecco perché continuare oggi a rifare il New American Cinema (come ad esempio fa la cineasta di Brooklyn Gina Carducci), non può e non deve avere senso, mentre ne ha ancora – e ne avrà per sempre – l’autorialità inesauribile di Jonas Mekas, il proseguimento nel 2011 e a seguire di un viaggio cominciato cinquant’anni fa e non ancora finito.

Se il sogno del cineasta del New American Cinema, come scrive Mekas a proposito di Naomi Levine, era realizzare un film come un pezzo unico, ottenere insomma la paradossale irriproducibilità tecnica dell’opera d’arte, allora possiamo dire che quel sogno è stato pienamente realizzato. Non c’è niente di più simile a una tela di action painting di un film di Stan Brakhage o di Barbara Rubin: ma come l’azione strabordante di Pollock non definisce l’espressionismo astratto americano, e viene forse superata dalla riflessione in senso opposto, rivolta cioè alla struttura intima dell’opera, del misticismo materico di Rothko, del déplacement grafico di Morris Lewis, della fissità spaziale di Barnett Newman, così l’estasi onirica dell’underground, il viaggio spirituale «attraverso lo spazio, il tempo e la memoria», conduce ad approdi esaltanti e al tempo stesso circoscritti, riferiti cioè a un contesto artistico straordinario ma in fondo figlio del proprio tempo e non di quell’anima universale dell’arte che Mekas e compagni inseguivano.

Oltre il cinema assoluto di chi dichiarava di essere un film (Naomi Levine, 1964) non si poteva andare. E infatti non si è più andati, lasciando ai pionieri del New American Cinema il privilegio di tenere magnificamente vivo il loro percorso (basta guardare un qualsiasi film di Stan Brakhage per restare folgorati o, ancora, la coerenza fin autolesionista di Ken Jacobs) e trasferendo altrove, ad altre ricerche sul rapporto tra l’arte e il suo tempo, quella libertà espressiva che, scriveva Mekas, «porta a lasciare che il cinema sia».