Non è facile realizzare un’opera prima di questi tempi in
Italia, ancora meno avere la libertà e la possibilità di scavare in se stessi,
con estrema sincerità e libertà, per mettere in scena una storia che partendo
dal particolare (la vita di parrocchia a Reggio Calabria) arrivi a parlarci
della complessa situazione storica in cui ci troviamo.

Corpo Celeste riesce nelle alte intenzioni della sua
autrice, la giovane Alice Rohrwacher (che, come sarebbe bello accadesse più
spesso, esordisce prima dei trent’anni, in un panorama di vecchi-giovani) e si
situa in una nuova scia di opere italiane realizzate da registi con una
formazione lontana dalle “scuole di cinema” e più vicina alle strade del
documentario.

Unico film italiano alla Quinzaine (e arrivato a un soffio
dalla Caméra d’Or), Corpo celeste è la storia di una crescita, il racconto di
un momento sospeso nella vita di un’adolescente dallo sguardo limpido e dal
corpo in trasformazione. Attorno a lei il mondo degli adulti, taluni confusi,
altri annoiati, altri ancora soltanto troppo stanchi per rispondere alle
domande di Marta, all’inarrestabile ricerca del suo spazio, del rapporto con
gli altri e con le sue tensioni più alte. Di fronte a una Chiesa dimentica
dell’urlo di Cristo (“Eli, Eli, lama sabachthani”), lontana dalla verità della
Parola e vicina alla precarietà dell’apparenza, Marta oppone uno sguardo
resistente, un incedere sbilenco ma ostinato, un corpo ancora puro e
trasparente nei suoi splendidi e immediati rossori.

La giovane regista, calibrando – non senza difficoltà – il
lato grottesco della vicenda con il punto di vista puro di Marta, sceglie
l’essenzialità di una macchina da presa che talvolta avvolge i suoi personaggi,
altre sembra isolarli, riprenderli da lontano, mentre ripensano alle loro vane
giornate. Marta osserva e si muove, costruendo un nuovo itinerario di speranza,
tra la gioia della vita (i gattini appena nati), il dolore della perdita (le
prime mestruazioni che segnano il suo allontanarsi dall’infanzia), fino alla
semplicità di un gesto di libertà che diventa rito iniziatico verso una nuova
consapevolezza (l’entrata nel canale, suggellata da un’inquadratura che
trasforma il suo corpo, così reale, in ombra metafisica).

Marta è il corpo celeste che tiene unita la Terra con il
Cielo nella scoperta finale di essere grande ma continuare a poter sentire
vibrante la realtà, quasi fosse un miracolo.

“VORREI FOSSE RICORDATO COME UN FILM STORICO”: INCONTRO CON ALICE ROHRWACHER

Al contrario di gran parte del cinema italiano, che usa le
città in maniera intercambiabile, Corpo celeste offre un ritratto di Reggio
Calabria nella sua complessità, che restituisce un tuo approccio legato al
documentario. Come hai sviluppato la vicenda partendo dalla città?

Quando ho iniziato a pensare al film ero spesso a Reggio
Calabria, così con il mio produttore, Carlo Cresto-Dina, siamo partiti proprio
dalle suggestioni che mi offriva la città. La conoscevo piuttosto bene e avevo
già ambientato lì un corto (inserito nel film-collettivo Checosamanca): due bambini che, giocando nella Fiumara, raccolgono
rifiuti e scarti per costruirsi la loro casa, un mondo fantastico in cui
giocare. Succede veramente e sono gli stessi bambini che ho voluto far
incontrare a Marta, la protagonista di Corpo Celeste, alla fine del film. Per
me la loro energia è una metafora potente: penso che alla società di oggi non
manchino assolutamente né le possibilità né lo spazio, piuttosto è raro trovare
la tensione necessaria per cambiare uno stato di fatto. Dopo le recenti
vittorie alle elezioni comunali, mi sono augurata che il mio film potesse
essere visto in futuro come un film storico sull’Italia berlusconiana!

Il film si presta a molteplici letture: talvolta sembra
che la critica alla Chiesa non sia il punto di partenza, ma che offra lo spunto
per far emergere una società dello spettacolo che ha ormai divorato ogni tipo
di rapporto umano.

 In effetti la mia idea di partenza era raccontare che cosa
rimane oggi della vita comunitaria in Italia. Avendo scelto come scenario
Reggio Calabria, città totalmente abbandonata dallo Stato, mi è parso evidente
che l’unica parvenza di vita sociale gravitava attorno alla Chiesa, ormai
radicalmente cambiata. Poi avevo trovato emblematico un fatto di cronaca letto
su un giornale locale: una colletta per togliere un crocifisso moderno e
ritornare a uno figurativo. Molti hanno gridato allo scandalo perché ho
mostrato un sacerdote che raccoglie firme per un candidato politico: l’ho visto
fare in molte parrocchie. Talvolta questi sacerdoti sono anche un collante tra
politica e cittadini, reclamano (e in alcuni casi) ottengono qualcosa per il
loro quartiere. Nel film ho scelto di raccontare la figura del sacerdote come
qualcuno che vive il suo ruolo unicamente in quanto professione e per questo
tiene molto a una possibile promozione. Anche lui fa parte di un’Italia
cambiata e smarrita, dove è sopravvissuta soltanto la forma e non la sostanza.
Penso sia questo il fatto per cui ho scelto la Chiesa per sviluppare il mio
film: parlare di religione, di tensione verso il sacro, e della sua attuale
manifestazione segnava un ottimo punto per riuscire a raccontare il drammatico
impoverimento della nostra società.

È piuttosto impressionante assistere al catechismo dei
nostri tempi…

Sono convinta che possono sembrare scene eccessive, ma
nascono dall’osservazione di alcune parrocchie di Reggio Calabria: ci sono
libri per la catechesi che hanno sulla copertina frasi che echeggiano i reality
televisivi (“Saranno testimoni”) e si passa molto tempo ad imparare canzoni
(“Mi sintonizzo con Dio”) o balli (“Il balletto delle vergini”). C’è una totale
assenza della “Parola”, come se dovesse spaventare o far allontanare i ragazzi.
Insomma si usa il linguaggio falso per antonomasia della televisione, per
insegnare dei contenuti che pretendono di essere la “verità”. Anche la Chiesa,
seguendo questo processo, punta al ribasso, come del resto hanno fatto tante
altre istituzioni tra cui la scuola…

Ma la tua scelta alla fine è ricaduta proprio sulla Chiesa
che è il vero perno, sia tematico che figurale, del film.

Sono atea, ma non credo che la vita si riduca alla materia
del momento; mi interessa l’essere in ricerca e all’università mi sono occcupata
di Storia delle religioni. Mi piaceva mettere in scena la storia di una
ragazzina che vive intensamente la propria pulsione religiosa e si trova a
confrontarsi con la realtà. Il titolo del film, che prima era provvisorio e non
è mai stato messo in dubbio, arriva dall’omonimo libro di Anna Maria Ortese: mi
ha ispirato soprattutto per la sua lettura del mondo come sovramondo. Per
quanto riguarda alcune scelte figurative del film, penso di essere – come tutti
gli italiani – impregnata di cultura cattolica, anche nella sua forma più alta
come l’arte sacra.

Il collegamento all’arte sacra emerge nell’uso particolare
della luce e nella presenza di alcuni simboli che costellano il film, in un
giusto (e precario) equilibrio tra realismo e astrazione.

Non so se è giusto parlare di simboli: è vero che la
lucertola del finale è evidentemente un simbolo, ma nasce dal fatto che quando
mi hanno portato vicino al canale alcuni bambini me ne hanno realmente messa
una in mano! La sensazione della sua pelle sgusciante e del suo corpo senza
testa ancora vibrante mi è rimasta lungamente impressa. Solo dall’esperienza
sono risalita al suo potenziale di simbolo. Lo stesso è avvenuto per la scelta
della fotografia: volevo ci fosse una luce invernale, livida, e con Héléne
Louvart, il direttore della fotografia, abbiamo lavorato in questa direzione.
Alcune sequenze più evocative e sospese sono arrivate dalla realtà: Marta che
entra nel canale è un’ombra perché è l’unica possibilità per riprenderla in
quel tunnel; solo in un secondo tempo si può pensare alla suggestione di questo
suo “battesimo con la realtà”.

Marta non è soltanto il personaggio principale del film, ma
è anche l’altezza da cui si guarda la storia. Come hai trovato l’interprete che
favorisse questa giusta distanza?

Dopo l’immersione nelle parrocchie di Reggio Calabria, avevo
paura di essere troppo dura e di apparire giudicatoria: trovare la ragazzina
adatta a incarnare Marta mi avrebbe aiutato enormemente a trovare il giusto
sguardo sulla realtà. Cercavo qualcuno che si pone già dei grandi interrogativi
ma conserva ancora lo sguardo libero dei bambini, qualcuno che fosse semplice e
pieno di stupore, in netta contrapposizione con il mondo che la circonda, dalle
croci al neon alle complessità degli adulti, passando per i cibi troppo
elaborati che si mangiano in quella regione. All’inizio ho fatto dei casting a
Reggio Calabria, ma non riuscivo a trovare l’interprete giusta. Sono rimasta
sorpresa del fatto che tutte le bambine sanno già cosa vogliono essere da
grandi, come se non potessero permettersi di vivere un importante momento di
indeterminatezza. Ho pensato che potesse essere positivo che la protagonista
venisse da lontano (da qui l’idea della Svizzera) e quindi fosse diversa dagli
altri ragazzini del film, con cui abbiamo lavorato in forma laboratoriale. Yile
Vianello l’ho trovata in una comunità auto-sufficiente dell’Appennino, una
realtà che conoscevo bene, dove i ragazzini conservano questo sguardo incantato
e profondo sul reale. È stato importante riuscire a lavorare a lungo con lei,
ma partivamo già da una posizione di vantaggio: la sua alterità rispetto alla
Calabria.

Rispetto ad altri film (e soprattutto ad altre opere prime),
il rapporto con gli attori non professionisti è pienamente riuscito e il più
delle volte si sposa con l’intervento dei volti noti. Hai avuto modo di
lavorare a lungo con loro?

Sono molto felice di essere riuscita, riducendo al minimo la
troupe, ad avere ben sette settimane di ripresa. Un tempo piuttosto lungo, che
ho ottenuto optando per scelte di regia essenziali: piuttosto che un dolly ho
preferito avere un giorno in più di riprese! Il progetto del film si è
articolato in un arco di tempo piuttosto lungo, abbiamo aspettato tre anni
prima di riuscire a produrlo, e alla fine la nostra persistenza è stata
premiata. Dallo scorso Natale, quando il film era pronto, abbiamo ricevuto
inviti da molti festival, tutti i programmatori stranieri si sono mostrati
felici di ritrovare un certo cinema italiano che sempre più difficilmente si
riesce a produrre. Spero che il mio film, e quello di Michelangelo Frammartino
che lo ha preceduto alla Quinzaine, rappresenti un piccolo segnale per il
cinema indipendente.

(L’incontro con Alice Rohrwacher è avvenuto a Milano, il 30 maggio 2011 in occasione della manifestazione “Cannes e dintorni”)