Tre storie si incrociano, si sovrappongono, divergono, scorrono parallele. Tre stili di racconto, vari personaggi ed esigenze diverse convivono grazie al montaggio, nella ricerca di una radice comune, di un punto di contatto. Un film in costruzione che si alimenta della sua stessa idea di cinema: indagine, rete di racconti, contaminazione, lavoro in divenire.
Sospeso tra il documentario e la sperimentazione, Cielo senza terra prova a discostarsi dagli stilemi del cinema italiano oggi più visibile, quello che, all’insegna delle velleità autoriali in gioco e del pubblico di riferimento, si potrebbe tranquillamente definire medio. La proporzione tra ambizione del progetto e sua effettiva realizzazione pulsa di ondivaga, interessante, discontinuità.

L’autore, Giovanni Maderna, nel tempo e nello spazio dilatato di una lunga gita in montagna con il figlioletto, si guarda allo specchio, si mette in scena, parla di sé con il figlio e attraverso il figlio. Il piccolo Eugenio è spesso complice, ogni tanto stizzito. La filmmaker Sara Pozzoli registra le conversazioni dal respiro filosofico, le confidenze, le camminate, il quotidiano. Maderna è quasi sempre in campo, ostenta se stesso, la natura cinematografica delle riprese, il desiderio di mostrarsi. La città è un eco lontano di rumore e forse il ricordo di un matrimonio fallito. L’aspetto più significativo di questo grande episodio del film (il principale, la colonna portante) è il contrasto tra la delicatezza e la natura privata di un rapporto eletto tra padre e figlio e il desiderio di pedinamento, di registrazione a tutti i costi (attraverso il cinema) di questa relazione. Certe volte Eugenio (molto saggio per la sua tenera età) si rifiuta di essere ripreso, ma la videocamera resta accesa; certe volte invece, nell’intimità del dialogo tra adulto e bambino, l’occhio della macchina da presa sembra scomparire, restituendo il ritratto di due personalità complesse, di due ricche biografie interiori. Maderna lavora in precario equilibrio, rischia più volte di sfociare in una piatta autoreferenzialità o di strumentalizzare i dialoghi con Eugenio, ma tutto questo non accade: rimane l’affetto e il desiderio di essere visti per come noi stessi ci vediamo. La dolcezza discontinua della memoria e delle sue ombre, i ricordi.

Nelle lunghe riprese della camminata in montagna si innestano come schegge altre vite, altre forme di narrazione. Gianni Grandis, produttore musicale, racconta in prima persona il proprio percorso professionale. Si sente solo la voce, la stessa voce che prima della lavorazione del film  aveva colpito il regista mentre ascoltava una testimonianza di Grandis alla radio. Insuccessi e rock progressive. Maderna definisce il proprio lavoro un prog-western: progressive nell’accumulo di materiali e stili differenti, western nella suggestione dell’inseguimento nelle grandi distese e praterie, alla ricerca di tracce, nemici, sentieri.
Nel tempo del film (che è anche il tempo di un’estate) trova spazio anche la vicenda della INNSE, industria metalmeccanica nota per le proteste degli operai contrari alla sua chiusura da parte della dirigenza per lucrare sul terreno. Ecco che si cambia ancora registro, punto di vista, prospettiva. Il linguaggio di questi frammenti è sia quello del giornalismo d’inchiesta (macchina a mano con l’autore, questa volta, dietro l’obiettivo), sia quello del documentario civile (commento di riflessione in voce off e riprese che si avvicinano agli operai, entrando nel loro mondo).

Nell’economia di un ampio metraggio, le intenzioni del regista appaiono piuttosto intellegibili: l’idea di una struttura a pastiche è quanto mai chiara. L’episodio principale, il del rapporto con il figlio, monopolizza la durata soffocando le altre suggestioni. Forse, con i tempi che corrono, è necessario far prevalere la sfera privata sull’impegno civile e sul desiderio di raccontare? La domanda rimane senza risposta o, forse, volutamente capziosa. Un film fiume, lungo e liquido, dentro cui abbandonarsi lasciandosi trasportare dalla corrente o contro cui lottare, alla ricerca di una propria personale continuità nel flusso di suggestioni e immagini.

Cielo senza terra, regia di Giovanni Maderna e Sara Pozzoli, Italia 2010, 123’