Introduzione. UN AMERICANISTA ANTIAMERICANO. LA CRITICA STATUNITENSE DEGLI ANNI ’60 NEL GIUDIZIO DI “CINEMA NUOVO” di Rinaldo Vignati

Il testo che segue venne pubblicato nel 1963 su Cinema nuovo, rivista a cui Guido Fink collaborò a lungo, per poi staccarsene (con altri “transfughi” fondò Cinema e Cinema) non senza strascichi polemici (Guido Oldrini, storico collaboratore della testata, in Gli autori e la critica, Bari, Dedalo, 1991, lo definisce “critico intelligente ma metodologicamente sbandato” e sulle pagine di Cinema nuovo, marzo-aprile 1992, ribadisce che “mette una gran tristezza, vedere Guido Fink che si esercita in tv, di questi tempi, al tiro al piccione contro la critica di sinistra”).

Fink, raffinato studioso di letteratura e cinema angloamericani, è oggi noto ai cinefili per importanti studi sulla commedia americana (come la monografia su Lubitsch edita da Il castoro) o sul contributo della diaspora ebraica al cinema hollywoodiano (Non solo Woody Allen, Marsilio, 2001). A chi lo conosca per tali lavori, il testo qui presentato suonerà un po’ inaspettato. L’analisi della critica cinematografica americana risente infatti del pregiudizio antiamericano (o lo asseconda?) di una rivista legata a un’impostazione di tipo marxiano-luckácsiano (un’impostazione diffidente verso la cultura di massa e il cinema “di consumo”, e pronta a bollare di “irrazionalismo” e “anti-intellettualismo” le espressioni più tipiche della cultura americana). Tra le righe si scorgono implicite prese di posizione che oggi difficilmente potrebbero trovare sostenitori: la rigida divisione tra cinema d’autore (europeo) e cinema commerciale (hollywoodiano); la visione negativa, incapace di coglierne le novità e molto vicina al rifiuto tout court, della nouvelle vague e delle riflessioni critiche dei Cahiers du cinéma.
Nonostante ciò, il testo presenta diversi motivi di interesse, sia perché indicativo di alcuni temi del dibattito critico dell’epoca, sia perché fornisce informazioni di prima mano sulla critica americana di quegli anni.

La rassegna di Fink sulla produzione critica della stampa a larga diffusione è sostanzialmente liquidatoria: considera gran parte degli articoli che appaiono su quotidiani e riviste come “pubblicità più o meno abilmente dissimulata” e critica la loro abitudine ai giochi di parole – abitudine che, più o meno negli stessi anni, anche Truffaut (nel dialogo con Hitchcock) stigmatizzava, con riferimento alla critica francese – usati come segno di brillantezza e come scorciatoia rispetto all’analisi e al giudizio critico. Pochi i nomi che, in questo ambito, meritano un qualche interesse, come Dwight MacDonald – critico di Esquire e autore di riflessioni sul “midcult” su cui si sofferma a lungo l’Umberto Eco di Apocalittici e integrati –, giudicato “uomo intelligente e giornalista di prim’ordine” anche se i suoi articoli sono “capricciosi” e frutto di una “irrimediabile superficialità”, o come Stanley Kauffmann, le cui critiche per New Republic sono “le più vicine, nel loro tono serio e semplice, alla critica com’è intesa da noi”.

Più articolata l’analisi della produzione critica delle riviste specializzate – pur con l’avvertenza che si tratta di fogli con ben scarso seguito e quindi sostanzialmente incapaci di avere una qualche influenza sul pubblico. Quattro le riviste considerate: New York Film Bulletin, Films in Review, Film Culture e Film Quarterly. Le prime due sono invero liquidate sbrigativamente: la prima “non è che un’appendice ciclostilata dei Cahiers” e il giudizio sulla seconda si esaurisce riportando alcune citazioni che ne evidenziano faciloneria e superficialità.
Fink rileva come “l’imita[zione] pedissequa [del]le posizioni di certa critica francese, quella che fa capo ai Cahiers” sia un difetto ricorrente nella stampa specialistica. In Film Culture, in particolare, “l’influenza francese risulta purtroppo schiacciante”. A questo si aggiunge il fatto che gli “incensamenti (e gli autoincensamenti)” della ‘scuola d’avanguardia newyorchese’ passano ogni limite” e che la scrittura cade in “toni astrattamente anarcoidi e deliranti”. L’attiva propaganda dalla “politique des auteurs” portata avanti da Andrew Sarris e Peter Bogdanovich (non ancora passato dietro la macchina da presa) si realizza attraverso “deliranti e apodittiche affermazioni” e l’“accettazione incondizionata di certi registi e il ripudio di altri”. Jonas Mekas, direttore della rivista, è il “pontefice massimo” dell’esasperazione “anarcoide e delirante, ferocemente irrazionalista” che la caratterizza.
Film Quarterly ha il difetto di “non avere una linea precisa” ed è “alquanto ovvia e imprecisa” sul piano metodologico, ma è giudicata la migliore rivista americana di cinema, in quanto, con le sue “pagine serie e posate”, svolge “una funzione di intelligente spassionata disamina di miti”.
Pauline Kael, con i suoi attacchi alle “basi mistiche e neoplatoniche” della “auteur theory”, è considerata come la voce più interessante della critica americana dell’epoca, ma anche nel suo caso si evidenziano le contraddizioni (i suoi argomenti “ci riconducono all’irrazionalismo e al culto del cinema ‘adolescente’ che la stessa giornalista rimproverava a Mekas e a Sarris”).

Un esempio di critica alla critica denso e tranchant che riporta a un’epoca di fronti e schieramenti in difesa di un’idea di cinema, e nella quale il pluralismo di posizioni era reale contrapposizione e non blando opinionismo, scontro solo mimato in ossequio al gigantismo dell’industria.