Un monte si staglia immacolato all’orizzonte: come colombe, dal volo leggero e rizomatico, si muovono leggiadre figure femminili vestite di bianco. Salgono verso il Tempio in cima alla collina, richiamate dal suono cadenzato delle campane. I loro passi sono impercettibili, i loro veli si sollevano piano aumentando il movimento dell’inquadratura fissa dalla perfetta composizione formale.

Basterebbe questa immagine per convincerci ad affrontare la visione di Marketa Lazarová di František Vláčil, considerato – dai più – il capolavoro del cinema cecoslovacco, poco conosciuto in Italia se non per la retrospettiva che fu dedicata all’autore dal Bergamo Film Meeting nel 1991. Ora grazie all’accurato cofanetto edito dall’inglese Second Run, che oltre a questo film contiene anche The Valley of the Bees e Adelheid (e come speciale: Sentiment, un documentario sul regista realizzato nel 2003), si può finalmente incontrare un cineasta complesso, troppo spesso “liquidato con onore” per essere stato il padre precursore della Nova Vlna. E in effetti nella sua lunga carriera ineguale, a causa delle dure circostanze storiche (l’invasione sovietica della Cecoslovacchia) che bloccano il suo flusso creativo, Vláčil si trova a lavorare con molti registi che diventeranno autori di spicco della generazione successiva, fra tutti Jan Nemec a cui affida un ruolo d’attore in L’inseguimento: mediometraggio che preannuncia la situazione alla base del celebre I diamanti nella notte.

La filiazione tra František Vláčil e gli autori della Nova Vlna non si riduce a una serie di scambi didattici e culturali, il regista si impone come un nuovo modello, scardinando con prepotenza il linguaggio cinematografico e andando deliberatamente alla ricerca dell’arte assoluta, capace di fondere la cultura di una società (come fa l’architettura) con l’intimità di un singolo individuo (come la musica ). È in quest’ottica che possiamo accostarci a guardare la sua trilogia, vicina a un cinema nuovo per la continua sperimentazione formale, lontana per la volontà di sintetizzare la realtà in uno sguardo che comprenda il giudizio politico e la tensione esistenziale.

Vláčil ha ancora la forza di confrontarsi con la Storia, seguendo le parole erudite dello scrittore Vladislav Vancura e scegliendo di tornare al Medioevo, epoca in cui resistono elementi contraddittori: il cristianesimo, i riti pagani, la centralità del feudo, la nascita di un potere egemone. Sono proprio questi temi a spingere il regista verso la realizzazione (faticosa, durata due anni in cui si rimase più volte a corto di pellicola) di Marketa Lazarová, suo secondo film storico dopo il più tradizionale La trappola del diavolo. Il conflitto tra due famiglie rivali diventa l’occasione per mettere in scena due contrapposte visioni del potere: Kozlic, pagano, e Lazar, cristiano, non si distinguono soltanto per il proprio credo ma anche per un diverso gioco strategico con cui tentano di tenere lontana da sé la morte. Kozlic, con la sua prolifica famiglia, accentra il potere su se stesso, cosa che favorisce persino l’incesto – seppur punito – nella sua casa, Lazar al contrario pensa già a una nuova nazione unita sotto un potere più forte, in cui lui – grazie anche alla nobile e devota figlia Marketa – avrà un ruolo centrale. Nell’andamento magmatico della vicenda, dove il tempo del racconto sembra miracolosamente seguire gli stati emotivi dei singoli personaggi (anche grazie a un uso espressionista del sonoro, legato ai diversi punti di vista interni alla storia), si compone poco a poco un’allegoria delle pulsioni umane, che hanno a che fare con le paludi melmose, i lupi bramosi di carne, mercenari pronti a godere della distruzione. I lupi e la monache sono elementi visuali di un poema che arriva al suo gradino più alto nel sapere di non poter sciogliere alcuna contraddizione insita nel reale, nel concedere soltanto che dalla violenza nasca inaspettato l’amore e l’umano possa vincere l’ideologia (o perfino l’ideale?) nel superbo finale.
Stratificato e polisemantico come le inquadrature di Tarkovskij, enigmatico e bizzarro come le composizioni di Paradjanov, austero e profondo come le immagini di Bergman (di cui non a caso il regista ricorda con ammirazione La fontana della vergine), l’impianto visivo di Vláčil con Marketa Lazarová raggiunge una tracotanza che non riuscirà –o non vorrà- più replicare.

Nello stesso periodo gira un film gemello, simile nelle tematiche, opposto nella sua forma: The Valley of the Bees, sempre ambientato in epoca medievale, è la storia di amicizia tra due crociati che hanno posizioni opposte riguardo al voto di fedeltà all’ordine. Uno proverà a ribellarsi, l’altro si sacrificherà per far tornare l’amico sulla retta via, il destino diventa una strada inesorabilmente segnata da cui è impossibile evadere. In un universo dominato dalle pure idee, anche le inquadrature richiedono una maggiore essenzialità, quasi superflui i movimenti di macchina, il montaggio procede per continue ellissi. Il vuoto è il centro oscuro del film. Il nero dei pipistrelli che il protagonista bambino ha nascosto in fondo al cestino di fiori, donati in omaggio alla giovanissima sposa di suo padre: gesto che gli procurerà la cacciata dal suo regno. La tensione erotica presente nei campi-controcampi del fulminante incipit sarà il richiamo peccaminoso per il novello Edipo, che vorrà trasformarsi in buon padrone di casa quando ha abbracciato ideali ben più ambiziosi.

Nella consegna di questo cavaliere al suo ordine (non più un Tempio in cima a una collina, ma a picco su un mare maestoso ed enigmatico), Vláčil segna la sua resa nel voler raccontare – tra le apparenze arcaiche dei suoi film – l’ideologia imperante nell’Est Europa filo-sovietico. Si ritira in interni con un kammerspiel dai colori soffusi, Adelheid, che ancora una volta racconta l’impossibilità della pace nel mondo. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’amore tra un soldato cecoslovacco e la figlia di un industriale filo-nazista si consuma tra le mura di un’antica dimora. La ragazza non crederà mai alla genuinità del sentimento, sarà la sua mancanza di speranza a condurre entrambi i protagonisti a una misera fine: il gesto libero di Marketa, capace di rinunciare alla vocazione religiosa per amore del suo stupratore, si scontra con la chiusura della mentalità borghese di Adelheid, generatrice soltanto di una gelida spirale di morte.

Un chiaro monito per un’Europa sempre più chiusa nelle proprie case, dove l’amore non è più la strada verso un bene supremo, talmente indicibile da sembrare una maledizione, ma soltanto il quieto ancorarsi a una precaria posizione di sicurezza. Nello sguardo prodigioso di Vláčil risiede la grandezza del cinema potente e irrequieto, che sa ancora oggi mettere in discussione le nostre credenze etiche più radicate (la condanna della violenza e del nazismo) per spingerci oltre il razionale, nei nostri profondi luoghi oscuri.

THE FRANTIŠEK VLÁČIL COLLECTION (Second Run)
Marketa Lazarová, regia di František Vláčil, Rep. Ceca 1967, 159′
The Valley of the Bees, regia di František Vláčil, Rep. Ceca 1967, 97′
Adelheid, regia di František Vláčil, Rep. Ceca 1969, 98′