Se ci fosse ancora qualche riserva riguardo il fatto che i ’20 siano stati uno dei decenni più fecondi della storia del cinema, i tre film di Josef von Sternberg raccolti in cofanetto dalla Criterion contribuirebbero senz’altro a far accantonare ogni dubbio. Le notti di Chicago, Crepuscolo di gloria e I dannati dell’oceano sono vette di un’arte colta all’apice del suo splendore e la stupefacente testimonianza del talento di un regista esordiente ma già in possesso di uno stile pienamente formato.

Quando il viennese Sternberg arriva alla regia nel 1925 ha alle spalle una lunga trafila come assistente di produzione e una conoscenza avanzata del sistema cinematografico in tutte le sue mansioni. Scrive di proprio pugno la storia di una coppia di vagabondi che, salvato un orfanello dalle grinfie di un poco di buono, conduce una vita di stenti lungo il molo di un porto in attesa di un domani migliore. L’eleganza delle inquadrature tradisce un evidente passione per l’arte figurativa e la volontà di tradurre i pensieri in immagini è evidente: si tratta di un poema cinematico dal ritmo lento e contemplativo, quasi fosse il frutto del lavoro di un fotografo alle prese con il montaggio narrativo. The Salvation Hunters non è un successo al botteghino ma attira l’attenzione di stampa e addetti ai lavori: Chaplin elogia il film pubblicamente e offre al regista la possibilità di girare il successivo per la United Artists. Nonostante le premesse, Woman of the Sea, realizzato l’anno dopo, non convince Chaplin che, senza una parola di spiegazione, nega al film la distribuzione e lo consegna all’oblio.

Sternberg non si rassegna e, dopo, essere stato assunto dalla Paramount per rimontare il dramma Children of Divorce con Clara Bow e Gary Cooper, si trova per le mani il soggetto di un film gangster firmato da Ben Hecht sul quale nessuno scommette granché. Elabora la sceneggiatura con Charles Furthman, ampliando il versante sentimentale che unisce il terzetto di protagonisti, il malavitoso Bull Weed (George Bancroft), il fidato scudiero, nonché avvocato alcolizzato, Rolls Royce Wensel (Clive Brook) e “Feathers” McCoy (Evelyn Brent), la pupa del boss, ma scontenta Hecht, che chiede di far sparire il proprio nome dai titoli (salvo poi ricredersi in occasione della nomination all’Oscar, poi vinto). È evidente che, al di là dell’intreccio, a Sternberg interessa dare un forte impianto visivo alla vicenda: Le notti di Chicago non solo fornisce i natali al genere gangsteristico (basti la scena finale con Bancroft asserragliato in casa sotto il fuoco della polizia per capire quanto ne sia debitore Scarface, scritto sempre da Hecht cinque anni più tardi) ma, grazie anche alla fotografia di Bert Glennon dall’indubbio taglio espressionista, crea le basi per tutto il cinema noir a venire. Se la forza delle immagini è fuori discussione, impressionante è l’economia della narrazione: magistrale la scena della rapina in gioielleria, risolta in tredici secondi per mezzo di cinque inquadrature. Bancroft gigioneggia spavaldo ma è capace di un voltafaccia inatteso nel finale; Brook, impassibile, racconta la sua vita in uno sguardo; la Brent è già paradigmatica delle successive eroine sternberghiane, voluttuose e seducenti ma anche sensibili e altruiste.

Le atmosfere degradate dei bassifondi tornano in I dannati dell’oceano, che recupera gli scenari portuali di Salvation Hunters. La tecnica del regista si è ulteriormente raffinata: lo dimostrano i movimenti di macchina e i carrelli con i quali si muove all’interno dell’affollato e chiassoso locale in cui si recano il fuochista Bill Roberts (ancora Bancroft) e la sconsolata Mae (Betty Compson), reduce da un tentato suicidio. Sternberg – per Louise Brooks il più grande direttore d’attrici dell’epoca – trasforma una comprimaria come la Compson in un’eroina tragica, dal sorriso triste e il perenne sguardo malinconico, commovente quando non riesce a infilare il filo nella cruna dell’ago per la vista offuscata dalle lacrime. Se l’entrata in scena di Feathers in Le notti di Chicago era annunciata dal volteggiare di una piuma lungo una rampa di scale, qui – con l’ennesima soluzione di audace efficacia – la prima apparizione di Mae è un riflesso sull’acqua, il tuffo fuori campo segnato solo dall’incresparsi delle onde. Gli scenari nebbiosi intorno al molo sembrano anticipare il realismo poetico di Carné, così come l’attenzione alle incombenti strutture circostanti, riprese in maniera da generare conflitto all’interno dell’inquadratura e gravare sul destino degli uomini. Il sonoro è alle porte, anzi già convive con il muto da qualche anno, e se nel triennio decisivo (’27-’29) ci sono film a cui sembra mancare solo la parola ce ne sono altri che sembrano definitivamente averne fatto a meno: in un’acuta analisi del film Rudolf Arnheim descrisse con ammirazione la scena in cui un colpo di pistola fuori campo viene segnalato dal levarsi in volo di uno stormo di uccelli, per poi staccare direttamente sul corpo dell’ucciso.

Ma il capolavoro è quello girato nell’intervallo tra i due film, all’indomani del successo di Le notti di Chicago. La storia di un anziano granduca zarista finito a fare la comparsa a Hollywood potrebbe sfidare ogni criterio di verosimiglianza (benché ispirata a una vicenda reale) ma Sternberg gira con una convinzione da autore affermato e Emil Jannings (uno dei più grandi attori di sempre) è strepitoso nel condurre il film lungo dieci anni di Storia da un continente all’altro. Impossibile non pensare a L’ultima risata di Murnau quando Sergius Alexander, reclutato per interpretare sul set lo stesso ruolo ricoperto in vita, indossa la divisa militare che tempo addietro gli era stata strappata di dosso dai rivoluzionari e ora è solo un dozzinale abito di scena con la stella appuntata al posto sbagliato (“vuoi che non sappia dove vanno?” – lo rimprovera l’assistente del regista – “ho girato almeno altri venti film ambientati in Russia!”). In Crepuscolo di gloria è evidente più che mai il fondamentale contributo dello scenografo Hans Dreier, una colonna della Paramount: il lungo flashback ambientato durante l’inverno sovietico è straordinario, con immagini di una tale incisività da stagliarsi come pura evidenza cinematografica, sintomatiche al massimo livello della capacità del regista di fondere azione e astrazione, stilizzazione e densità. Le scene di massa – i contadini russi affamati e riottosi e gli agguerriti figuranti accalcati davanti ai cancelli dello Studio – sono speculari nella loro cattiveria e il finale sul set, con il vecchio militare che, in preda alle allucinazioni, sprona le truppe a lanciarsi all’assalto di un nemico invisibile è una delle più toccanti dichiarazioni d’amore nei confronti del cinema e del suo potere di realizzare i sogni pur lasciandoli tali.

In virtù di questi tre film, Sternberg si staglia ancora di più come un grande regista che, pur lavorando dentro dell’industria Hollywoodiana, ha saputo sviluppare uno stile proprio e inconfondibile. All’interno di cornici prettamente di genere, ha imposto una valenza melodrammatica centrifuga rispetto all’azione e all’analisi sociale (in futuro sempre meno presente, infatti): dietro il fumo delle pistole, la foschia portuale e i costumi d’epoca, la lotta per l’affermazione di se stessi, o anche solo quella per sopravvivere o ritrovare una dignità, passa attraverso l’intensità della passione, il desiderio ultimo di riconoscersi nell’altro. Nel suo cinema sono più che mai gli sguardi a dettare i movimenti, a generare eventi e dare peso al silenzio. In definitiva, a imporre la visione di un autore per cui l’amore e il cinema sono le uniche risorse per sottrarsi alla decadenza, o assecondarla.

3 SILENT CLASSICS BY JOSEF VON STERNBERG (Criterion Collection)
Le notti di Chicago (Underworld) di Josef von Sternberg, USA 1927, 81’
Crepuscolo di gloria (The Last Command) di Josef von Sternberg, USA 1928, 88’
I dannati dell’oceano (The Docks of New York) di Josef von Sternberg, USA 1928, 75’