Questo testo è parte di una storia, quella del New American Cinema (NAC), o dell’Underground se volete; della neo-avanguardia, direbbero gli amanti delle classificazioni, coloro che vogliono e cercano tenacemente di chiudere ogni cosa (anche i film) in un “discorso”, facendoli rientrare in una parrocchia. E naturalmente sono loro stessi a dire messa. Capita all’università, sui quotidiani, tra bande che si spartiscono potere ovunque (succede anche nei Festival del cinema, nelle cineteche): è l’idea di essere i tenutari di un orticello e di dover far parte di una lobby, o di una “scuola” (se dovessi scegliere, sarebbe per me la “Loggia del leopardo”, quella del telefilm Happy Days: ho un debole per il loro copricapo…).

Nelle sue “Tredici confusioni”, Amos Vogel si batte con veemenza per affermare con forza: non mi avrete. Le lobby, le scuole, le bande funzionano quando la coesione è totale (idee, prospettive comuni) e il pensiero non funziona più, sostituito da un automatismo pavloviano. Oppure, più semplicemente, agli yesman fa piacere dare ragione al capo. Per ovvi motivi.

Il capo qui, colui che detta la “Legge”, è Jonas Mekas. Uncle Fishhook, The Great Lobster lo chiamava Jack Smith. E a ragione. Mekas – stando a quanto sosteneva Jack Smith – aveva approfittato dello scandalo Flaming Creatures per gestire personalmente la battaglia a favore del film e del New American Cinema. Era lui a presentare in giro per l’Europa Flaming Creatures, mentre Jack Smith se ne stava a New York. A Mekas la visibilità per qualcosa che non era suo. La situazione scosse talmente Smith che egli rifiutò in seguito di chiudere i suoi film, amputandone il montaggio definitivo (Normal Love, ad esempio, veniva proiettato personalmente dallo stesso Smith, modificando ogni volta la sequenza delle bobine).

Questo è il fondale su cui si muovono le tredici confusioni segnalate da Amos Vogel. Sono confusioni che creano una cortina di fumo e alterano la vista sul NAC (con le sue asserzioni, Vogel tenta di sgonfiarlo, di renderlo più credibile: una realtà piuttosto che un articolo promozionale). Vogel vuole fare chiarezza. Lo fa elencando alcune questioni che gravitano attorno al NAC, e che oggi appaiono più che attuali, sebbene il cinema, la sua distribuzione in sala, sia ormai schiacciata da una tale piattezza che chi agita oggi lo spettro del New American Cinema rischia di passare per quello che, vestito da orso, non era stato avvertito che la festa non era più in costume.

I paragrafi di questo testo sono indicazioni: un prontuario per critici, gestori di sala. Una risposta a Mekas, indirettamente.
Alcune delle confusioni:
– evitare l’uso del termine “capolavoro” e non confondere “libertà” con la mancanza di “forma” (parole sacrosante);
– saper distinguere i buoni film del NAC dai pessimi (non tutto brilla di luce, anche se viene proiettato con grande enfasi e libertà presso la Filmmakers Cinémathèque);
– evitare il settarismo (il NAC non ha mai apprezzato – come segnala Vogel – i film di Godard, Resnais, e di altri come Antonioni, Bertolucci, così come ha escluso il cinema che proveniva dalla West Coast… ecco un altro modo di fare “lobby”; come dice Vogel nel punto 1: il NAC non è sinonimo di Avanguardia filmica americana);
– evitare di passare per “pubblicitari”; sforzarsi piuttosto di “criticare il film”, sapendone cogliere gli aspetti più importanti;
– lasciare ai critici d’arte e agli storici il compito di occuparsi dei film, sottraendoli ai critici “letterari”.

Quest’ultima è una grande intuizione. Il film è un evento visivo, dopotutto. E l’inettitudine dei critici era già all’epoca proverbiale, tanto che lo stesso Jack Smith sosteneva: «I critici dei film sono scrittori, e dunque sono ostili e a disagio in presenza dei fenomeni visivi».

Notoriamente, del film ci si limita a riassumere la trama, se ne fa una narrazione farcita con uno spruzzo di contenuto. Certo è che per i film che passa il convento questo approccio è più che sufficiente. Nessun bisogno di aver letto un manuale sull’arte del ‘900. Nel novanta per cento dei casi si tratta infatti di film in cui l’immagine viene ingoiata dalla narrazione. E, pur essendo viva la scena di un cinema considerato “sperimentale”, essa fatica a emergere in superficie (in Italia si pensa che sia “sperimentale” l’ultimo film di Bellocchio, per dire…). Dunque, di cosa dovrebbero occuparsi oggi i critici d’arte e gli storici di casa nostra? Del Papa di Nanni Moretti?

In verità, l’indicazione di Vogel sembra aver colto nel segno; i critici d’arte e gli storici (soprattutto all’estero) si occupano oggi del patrimonio filmico di quella stagione. Se volete vedere i film di Stan Brakhage, Bruce Baillie, Hollis Frampton, Jack Smith, Jack Chambers, Paul Sharits, Bruce Conner, Stan Vanderbeek, e  di molti altri che anche oggi continuano questo percorso (Peter Tscherkassky, i nostri Gianikian e Ricci Lucchi, Martin Arnold, Ben Rivers, David Rimmer, Karl Kels, Peter Hutton, Nathaniel Dorsky, Phil Solomon, Jim Jennings, Morgan Fisher, Robert Beavers, Andrew Noren…), dovete recarvi nelle sale cinematografiche di un museo d’arte contemporanea (Pompidou, TATE, MoMA), non certo nelle cineteche di casa nostra. Queste sono impegnate a proporre l’ennesima retrospettiva su Ingmar Bergman, François Truffaut o su Pedro Almodovar. Bellissime, certo, ma forse il cinema meriterebbe di essere compreso in maniera un po’ più articolata, senza nostalgie da cineclub anni ’70: retrospettive monografiche, anzi, semplici omaggi (farle complete richiederebbe uno sforzo troppo alto) e l’autore! l’autore! (magari presente in carne e ossa, per racimolare qualche spettatore in più…). Insomma, una miseria. Una tristezza.

Distinguere diceva Vogel, vagliare. Mostrare i film, soprattutto. E’ ciò che faceva. E il lavoro che ha svolto nel suo Cinema 16 è così cruciale e liberatorio che non è un azzardo definire Vogel il più grande programmatore di film mai esistito, ancor più di Langlois. Prendete (o chiedete che venga ristampato) il suo Il cinema come arte sovversiva. E’ una lezione per qualunque programmatore di sala. Andrebbe studiato dall’inizio alla fine. Accostare i film. Montare, far scontrare stili, temi, proporre accostamenti inaspettati: mantenere vivo il cinema (la sua storia). Mantenerlo in movimento.

Muovere il pensiero. Pensare autonomamente. Evitare l’imbalsamazione, l’effetto nostalgia o l’effetto pubblicità, giusto per riempire la rassegna stampa e passare alla cassa con le amministrazioni locali. Insomma evitare tutto ciò che è in voga oggi e che abbruttisce il cinema. E’ ciò che ha sempre fatto Amos Vogel, con uno spirito da vero combattente.