Se è vero che un cineasta come Wes Craven sembra da tempo aver perso la reale ispirazione, è anche vero che un quarto Scream, che per di più lo veda tornare su copione di Kevin Williamson (lo script del terzo  capitolo portava la firma di Ehren Kruger), lo si accoglie inevitabilmente con una certa bonaria curiosità. La firma del regista  è di per se spiazzante: Craven, e questa considerazione la si fa ancor prima di entrare in sala, ha quindi intenzione di legare indissolubilmente il suo nome a questo franchise, che alla fine degli anni ’90 ebbe una consistente influenza nel cinema americano, tale da aleggiare ancor oggi in luoghi inaspettati (come John Carpenter e il suo ultimo The Ward). Tale considerazione si moltiplica e si spalma in senso trans generazionale: nessuna firma del new horror è stata più discussa della sua, un po’ per i suoi lavori alimentari (da quelli per la Tv, come Sonno di ghiaccio, ai suoi ultimi titoli per gli studios), un po’ per una innegabile tendenza allo sfruttamento di filoni e sottofiloni (questo, soprattutto nelle vesti di producer e sceneggiatore), un po’ perché i suoi lavori più suggestivi ed in anticipo sui tempi (è il caso di Shocker-Sotto Shock e Wes Craven’s New Nightmare) sono stati poco discussi e analizzati come frutto di una personalità autoriale esattamente per i due motivi appena citati.

Sarebbe comunque affrettato guardare con sufficienza ad un corpus filmico che ha dato molto al cinema, e non solo in termini di stile e di immaginario: basti pensare che ben tre suoi lavori sono stati oggetto di remake o reboot negli ultimissimi anni. Ed è, evidentemente, una cosa a cui pensa lo stesso Craven, al punto da concepire implicitamente Scream 4 come una sorta di “autoreboot” della creatura di cui è corresponsabile con Williamson. La cittadina di Woodsboro, i personaggi di Sidney, Gale e Linus, vengono in parte svuotati della loro essenza originaria, o, e qui si osa una forzatura, sottoposti a clonazione: li conoscevamo e li ritroviamo, ma accanto ad essi c’è qualcosa che li replica, li aggiorna, profanandone in un certo qual modo l’unicità, la personalità. Salvo poi mostrare che è la forza degli originali a salvare la baracca.

Siamo nell’era del Sesto Potere, e Internet fa invecchiare precocemente le storie e le persone:  oggi, sembra dirci l’autore, si vuole sapere soprattutto qualcosa che in parte già sentiamo di sapere. E qui viene fuori il lato davvero interessante di Scream 4: se nell’originale del ’96 si rifletteva sui meccanismi di un genere allora moribondo, e che proprio da lì ripartì, nel bene come nel male, con nuova spinta, stavolta il punto di partenza è proprio la contemporaneità degli anni Zero, che da un lato sembra schiava di nuovi standard poco esaltanti (le derive della serie Saw e del torture porn, il ricorso alla ripetizione, l’incapacità di trovare nuovi filoni, senza rifare/ricostruire/decostruire), dall’altro vede il mondo reale come difficilmente reinterpretabile. Al punto che nel quarto d’ora finale assistiamo ad una vera e propria messa in scena (da antologia, va detto) da parte dell’assassino del film horror della propria vita. Questa sequenza, che giunge dopo un crescendo in cui l’apparato thriller non avuto alcun guizzo particolare, diventa il cuore del film.

Chi ha visto il fallimentare My Soul to Take, opera immediatamente precedente dell’autore, può trovarne sviluppate le premesse in maniera meno grossolana e confusionaria:  “La tragedia di una generazione è la burla della generazione successiva” dice lo sceriffo quando per l’anniversario della tragedia di Woodsboro i liceali appendono maschere di Ghostface in giro per la città. Che la tragedia in questione sia la morte dell’horror lo capiamo proprio dal succitato finale: per Craven, che dimostra così nei confronti di questi tempi un forte disagio (pari, anche se diversissimo nella forma, da quello espresso ben 40 anni fa da L’ultima casa a sinistra), ognuno oggi  può (vuole) girarsi il suo piccolo horror privato, per poterselo riguardare e per poterlo condividere. Per poterci, insomma, continuare a vivere dentro. Il fatto, però, che personaggi e spettatori siano invecchiati insieme aggiunge interesse alla riflessione sul cinema di paura, senza produrre alcun effetto nostalgia, ma accentuando la repulsione per le forme moderne di spettacolo e spettacolarizzazione della quotidianità, sostituitasi in maniera ormai totale alla forma-cinema.

Si rimpiange che sia proprio la suspense a non brillare per originalità ed inventiva, ma probabilmente Craven, classe 1939, è da tempo interessato ad altro, come abbiamo capito dai suoi lavori più svogliati e dallo sfruttamento che opera da parecchio sul proprio nome/marchio. Difficile, dopo Scream 4, immaginare in che direzione andranno altri eventuali suoi lavori: per ora sappiamo che, da un punto di vista creativo,  siamo ormai in presenza di uno Scream-dipendente.

Scream 4, regia di Wes Craven, Usa 2011, 103’