IL FILM (ITALIANO): UNA NOTA A MARIGINE

Si fa il tifo per il cinema italiano come si fa il tifo per la nazionale. E, come nel calcio, le squadre che giocano in Serie A sono solo quelle che hanno più soldi. Poco importa se il gioco non ce l’ha nessuno: l’importante è Vincere e anche se finisce patta le cheerleaders sono pagate per coreografare trionfi inesistenti.

In un Paese che difende i registi sbagliati e in cui gli unici registi difesi dalla critica omologata si sentono in dovere di attaccarla – si veda l’intervista a Paolo Sorrentino su D di Repubblica di sabato 3 settembre: “La critica alle volte è deludente, anche quando parla bene di me. Frasi fatte, superficialità gratuite, tandem forzati come quello che ha accostato per anni Il divo e Gomorra di Garrone. […] Alcuni critici si fanno prendere la mano dalla loro idea di film. Pensano a quello che li avrebbe resi felici, invece di valutare l’opera per quel che è” (“I critici sono alpini di pianura”) – tutti si sentono in dovere di sostenere una forma nostrana di blockbuster d’autore che, essendo italiano, non è altro che un film medio (spesso mediocre), furbetto, ricco per gli standard italiani, patinato anche quando non lo sembra, borghese anche quando critica la borghesia, meglio se con Filippo Timi. Ma tutto questo è già stato detto, e meglio, da Vincenzo Buccheri (“L’età neobaricca”). Da allora (2006) niente è cambiato: se prima gli scudetti andavano a Muccino e Ozpetek, oggi vanno a Sorrentino e Guadagnino (“Per un nuovo cinema italino”?). 
Nessuno se la sente di dirlo apertamente ma dove ancora circolano le Idee si sussurra: “Roma rovina anche i migliori” (si veda il “caso” Ruggine di Gaglianone).

Così le cheerleaders, in mancanza d’altro (aspettiamo di vedere come accoglieranno This Must Be the Place – fallimento di proporzioni cosmiche, stroncato internazionalmente dopo la proiezione a Cannes), sculettano e fanno spaccate per gli otto minuti di standing ovation tributati a Terraferma di Crialese (sul Corriere diventano dieci).
Solo Mereghetti (Corriere) e Crespi (L’Unità) lo stroncano con stile: per il primo c’è “qualche luogo comune di troppo” (ma si capisce che gli avrebbe volentieri dato mezza stella in meno), il secondo definisce l’approccio del regista “fastidioso” (eufemismo per insopportabile). Per Fabio Ferzetti (Il Messaggero), invece, si tratta di “uno dei segni più alti di tanto cinema italiano di oggi”.

Il film è inguardabile ma nessuno lo dice.

Pedro Armocida, su Il Giornale, sfiora il bersaglio, criticando il film per i motivi sbagliati: si elogia l’approccio estetizzante e spreca mezza recensione per mettere in discussione il riferimento alla legge che prevede una pena giudiziaria per chiunque compia opera di salvataggio di extra-comunitari in mare aperto: “Tra immagini bellissime (in questo Crialese è un maestro) e alcune intuizioni notevoli (la barca piena di gitanti che, come i migranti, si tuffano in mare, ma per fare il bagno), il film […] dimostra però un forzato manicheismo e un evidente impianto a tesi, anche se negato dal regista, tra i soliti italiani buoni (i pescatori) e quelli cattivi (i poliziotti e affini). È così l’aspetto politico oscura quello artistico” (velata e inconsapevole forma di autocritica rivolta alla pratica critica, totalmente assente o asservita ad altri fini?).

Dice bene “uno dei nostri inviati” sul Corriere quando, raccontando la conferenza stampa sostiene che “il film, in un incontro punteggiato da applausi con la lacrima pronta della cattiva coscienza, è una nota a margine”.