Dark Horse è con tutta probabilità il film più colorato e “libero” (nella costruzione drammaturgica) mai diretto da Todd Solondz. E anche il più pessimista.
Almeno in apparenza, infatti, il regista sembra attenuare l’atrabile che impregnava il fondo delle sue opere precedenti. Scomparsi i padri di famiglia pedofili, i bambini petulanti e razzisti, i fanatici antiabortisti e tutte le figure tanto care (?!) all’universo narrativo del Nostro, rimane ben presente l’ineluttabile disperazione esistenziale dei suoi personaggi, da sempre impegnati alla ricerca (impossibile) della felicità.  E’ il caso di Abe (Jordan Gelber), ebreo ultratrentenne del New Jersey, collezionista di giocattoli e memorabilia di 007, che vive ancora con i genitori (suo padre è un maestosamente keatoniano Cristopher Walken) e lavora, di malavoglia, presso l’azienda di famiglia. Ha un fratello più giovane, Richard, che fa il medico in California e che rappresenta, ai suoi occhi (e soprattutto a quelli dei suoi genitori) tutto quello che lui non è: bello, giudizioso, realizzato nel lavoro. Quando però conosce Miranda (una bellissima e tristissima Selma Blair), la sua routine subisce un repentino cambio di marcia: il sonno gli si popola di strane premonizioni, la quotidianità rivela pieghe sconosciute e inaspettate, il mondo che credeva di conoscere così bene gli si sgretola davanti agli occhi. E mentre la suoneria del cellulare gli ricorda beffardamente la necessità di “trasformare la propria vita”, Abe va incontro al suo destino.

Rispetto alle calcolatissime architetture narrative cui Solondz ci aveva abituati, il film sembra sviluppare un lato onirico che, pur presente negli altri film (chi non ricorda le buffe reveries dello stesso Todd nel primissimo Fear, Anxiety and Depression, o i ben più inquietanti sogni di Dylan Baker in Happiness?), in questo caso deborda progressivamente fino a rendere la vicenda reale e quella sognata indistinguibili fra loro. Ma ha senso chiedersi dove stia la differenza, se la realtà ha la stessa (in)consistenza di una sit-com o di uno spot? Tanto più che la fuga nel sogno non guarisce le frustrazioni né dà  voce ai desideri inappagati: la mamma (Mia Farrow), con dolce crudeltà, ricorda al povero Abe di non essere riuscito a soddisfare alcuna delle scommesse che la famiglia aveva fiduciosamente riposto in lui; Marie (Donna Murphy), l’appassita segretaria dell’ufficio paterno, prima lo sconsiglia caldamente di intraprendere una relazione con Miranda, e poi si rivela una sorta di milionaria mangiatrice di uomini; Mahmoud (Aasif Mandvi), ex fidanzato di Miranda, afferma che in fondo, nella vita, i conti non tornano mai e che nulla ha senso. Per questo Walter Mitty del XXI secolo non esistono consolazioni di nessun tipo (“L’umanità è una cloaca”, sentenzia Abe con rabbia), nemmeno quella dell’amore, visto che Miranda sembra interessarsi a lui solo perché ritiene di non poter meritare di meglio.

Ecco quindi emergere il retrogusto allarmante dietro la vernice di stravagante brillantezza: non c’è riscatto per i perdenti, per i “dark horses” cui allude il titolo, cioè i brocchi sui quali vale la pena di puntare per puro amore del rischio. L’esito disastroso della vicenda terrena di Abe fa eco alle parole del cugino Mark (Matthew Faber) di Palindromes, secondo cui le molteplici esperienze della vita (che il film del 2004 visualizzava attraverso l’utilizzo di dieci attrici/attori differenti per interpretare un’unica protagonista) non possono modificare nella sostanza la natura profonda di un individuo. E tuttavia, come in quel caso, il film si chiude con una nota di paradossale speranza, con la possibilità di una vita felice, per quanto solo immaginata, nella fantasticheria un po’ kitsch di una segretaria ormai sfiorita.

Se a livello tematico Dark Horse rimane quindi un po’ sospeso fra la coerenza (a rischio di manierismo) con le opere migliori del passato e la necessità di battere nuove strade, a livello figurativo rivela una volta di più la grandezza del regista Solondz. Dopo il riuscitissimo esperimento con l’alta definizione affidata, nel precedente Life During Wartime, al grande Ed Lachman, l’Autore prosegue su questa linea accentuando l’aspetto fumettistico dei personaggi (gli abiti variopinti) e delle ambientazioni (la cameretta del protagonista, sorta di museo consacrato all’immaturità perenne). Una stilizzazione che ha il suo corrispettivo nelle inquadrature immobili, spesso ripetute uguali nel corso del film, come in un qualsiasi cartoon di Tex Avery o come le  vignette di tante strip a fumetti. Tuttavia, lo stile apparentemente minimalista di Solondz è a suo agio anche nei movimenti di macchina, perfettamente dosati e mai gratuiti: si va dalla panoramica laterale dell’inizio (la gag dei due single al matrimonio) a quella comicamente desolante sulle famiglie di Abe e Miranda in salotto; dalla macchina a mano che precede l’incidente automobilistico ai lenti carrelli all’indietro del finale, che inchiodano dolcemente i personaggi alla loro solitudine.

Ma dietro l’eleganza dello stile (aspetto peraltro sempre ignorato dalla critica più omologata, troppo impegnata a scandalizzarsi per i temi scottanti che Solondz non ha mai avuto paura di sollevare), dietro all’esasperazione comica di figure e situazioni, stanno comunque autentici esseri umani, mossi da sentimenti comuni a tutti noi: amore, odio, tristezza, rabbia. Personaggi che Todd Solondz sa guardare con la consueta mistura di tenerezza e cattiveria, ben lontana dal cinico disprezzo che gli è sempre stato (a torto) rimproverato. Uno sguardo che fa di lui uno dei maggiori registi statunitensi.