Una o due settimane prima l’inizio del Festival di Venezia,  il settimanale “D” di Repubblica dedicava la sua copertina, per l’occasione rigorosamente in bianco e nero, a Terraferma di Emanuele Crialese, selezionato in Concorso.
Una coppia di fotografi, Baroncelli e Geromini, sono stati mandati a Marzamemi per immortalare il cast del film come contorno fotografico di un meta-reportage tanto involontario quanto spassoso di Marco Ciriello. Fin qui nessun problema, più o meno. Se non fosse che qualcosa di fortemente dissonante ha colpito il nostro senso estetico prima ed etico poi. In copertina, a lettere cubitali, campeggiava il titolo “Cinema verità”, dietro il quale facevano capolino come tanti manichini spudorati il regista con gli attori del film. L’orrendo bianco e nero avrebbe dovuto riscattare sciattamente il senso di verità e realtà impietosamente tradito dalla messa in posa goffa e scultorea degli attori, imbalsamati in vestiti un po’ troppo alla moda per essere quelli di personaggi isolani alle prese con la povertà e l’immigrazione. Per fortuna, una didascalia ci ha tolto dall’impaccio, avvisandoci che il signor Crialese indossava un giaccone di lana Fay (gentilmente concesso dall’omonima casa, non dal suo guardaroba), mentre Mimmo Cuticchio (il mitico puparo siciliano e grandissimo cuntastorie) vestiva un cappotto OVS Industry… e così fino all’ultima mannequin di lusso.

Una copertina così falsata e il suo titolo così pomposo che scomoda, citandolo, il cinéma vérité, sono segnali inequivocabili di una gigantesca mistificazione. Come si fa a parlare di cinema della verità, di storie d’immigrazione e di pescatori alla Malavoglia, così conciati per le feste? Ma quale credibilità possono avere? Quale serietà? Come si fa ad accettare una proposta del genere?
Quando abbiamo letto il servizio, consigliatoci da un amico produttore sommamente indignato, non avevamo ancora visto il film. Dopo la visione dell’opera tutto ci è sembrato quadrare. Quella mistificazione che grondava sangue dalla copertina, veniva amplificata senza remore nel film.

Terraferma è per la prima parte, piuttosto lunga, una sorta di remake miliardario di Sul mare di D’Alatri (storia d’amore impossibile tra un isolano e una bella nordica) e dei Malavoglia di Pasquale Scimeca (rivisitazione contemporanea in salsa rap della tragedia verghiana), mentre nella seconda parte (quando arriva la tragedia degli immigrati) è una via di mezzo tra Respiro e Nuovomondo, ovvero tra l’esotismo ancestrale isolano del primo e l’ombra dell’epopea degli immigrati del secondo, aggiornata agli sbarchi d’oggi.
Ma se fosse solo questo pazienza, sarebbe solo un film brutto e noioso che scomoda un po’ di verismo e un po’ di commedia, un colpo al cerchio e l’altra alla botte. Purtroppo c’è di più, perché Crialese, che è un profondo esteta (e il servizio su “D” di Repubblica lo denuncia chiaramente), ricorre agli immigrati come a un puro pretesto narrativo. A Crialese piace la bella fotografia, l’inquadratura suggestiva, l’immagine cool, l’invenzione di regia in barba al senso profondo della storia e delle storie che è andato a incontrare.

Come fanno a convivere in uno stesso film la sequenza al ralenti del recupero dei corpi dei clandestini in mare con quella (poi in locandina) in cui un gruppo di festanti turisti si butta dalla barca per un tuffo? Che nessuno pensi al gioco dei contrasti, perché nessuna opposizione è data. Forse ci aveva visto bene il redattore del reportage (il cui articolo era sotto la rubrica “Moda”, per non confondersi) del settimanale femminile di Repubblica quando vedendo in anteprima il film a pezzi e bocconi scrive: “Terraferma è girato a Linosa intorno a una famiglia di pescatori a un bivio, chiamata a decidere il futuro: mare o terra, pesca o turismo. Poi, al Lido la ridurranno alla categoria migranti, ma è altro, come lo erano i precedenti film di Crialese”. Ma se è altro, perché scomodare i migranti con le loro storie e tragedie? Perché andare a scegliere come co-protagonista una vera migrante? Per dare un senso di realtà in un film che mette in atto programmaticamente la presa di distanza dalla realtà con tutto l’apparato di grandangolari, ralentì, mega panoramiche? Qualcuno poi avrà notato che tra tutte le superstiti degli sbarchi, Crialese ha trovato e “selezionato” la più bella di tutte, quasi una modella inconsapevole, chiusa nei suoi occhi verde smeraldo. E perché? Per impietosire lo sguardo dello spettatore italiano? L’avrebbe presa, Crialese, una donna di colore provata dalla vita e dai tratti somatici non concilianti?

Ora, se il film fosse passato indenne a Venezia non ci saremmo scomodati più di tanto, giacché non lo giudichiamo neanche abietto, come avrebbe fatto il buon Daney, ma solo un po’ volgare e inutilmente estetizzante, ma non è stato così, e la giuria gli ha consegnato il Gran Premio. È inutile sondare i motivi. Possiamo solo ipotizzare che questo film, come è stato per Respiro e per Io sono l’amore, appartiene a quella esperienza esotica che molto piace agli stranieri, falsante e insultante come è il luogo comune degli italiani pizza, mafia e mandolino.