Non si può che partire da lì: il grande buco bianco dal quale i pilastri
del nuovo palazzo del cinema si ergono verso il cielo, come rami
spezzati. L’amianto ha bloccato i lavori, un errore commesso da altri
(che per comodità avevano creato una discarica di fronte alla spiaggia) e
apparentemente irreparabile.
Può essere che questa visione, offerta
quotidianamente ai giornalisti dalle vetrate della sala stampa,
rappresenti il ground zero della 68esima Mostra Internazionale d’Arte
Cinematografica di Venezia, una metafora semplice ma efficace per un
lavoro culturale impossibile in questo Paese dalle strutture assenti e
dalle prospettive brutalmente bloccate.

Questa è la misura con
cui il direttore Marco Müller ha dovuto fare i conti nel suo doppio
mandato, una continuità impensata per cariche di questo tipo in Italia.
Certo, i compromessi ci sono stati, e forse sono ancora più evidenti nel
suo ottavo anno di direzione in vista di una ricandidatura (su tutti il
Gran Premio della giuria a Terraferma di
Crialese), ma si sono amalgamati in una programmazione sempre più
composita che, di anno in anno, ha ottenuto un sempre maggiore prestigio
internazionale.
Le vere sorprese arrivano da un Concorso
Internazionale che ha saputo bilanciare film di autori affermati
(Polanski, Cronenberg, Friedkin) e giovani promesse (il greco Lathimos,
gli inglesi Arnold e McQueen), non rischiando troppo sul nuovo ma
intessendo un panorama sfaccettato di sguardi internazionali d’autore.
Il problema riguarda la selezione di casa nostra, che evidenzia in
maniera lampante la povertà dell’industria cinematografica italiana,
incapace di produrre film d’autore che non debbano scendere a patti con
le regole televisive, più che un’incompetenza nella selezione o
un’ingerenza politica.

I film italiani a Venezia (a parte
rarissime eccezioni) sono tv sul grande schermo, in cui lo sguardo
d’autore si riduce tutt’al più a una patina estetizzante e al
neorealismo ridotto a cliché. Solo il piccolo film di Pacinotti riesce
in parte a salvarsi, ma anch’esso pecca di un eccessivo compiacimento in
certi stilemi paternalistici che poco si addicono a un artista
dell’abbozzo. Quando si incontra (o ci si scontra) con l’istituzione
cinematografica nazionale è difficile uscirne indenni, conservando il
lume che accende tanti progetti italiani, corrotti in anni di attese e
partenze stentate (Ruggine di
Gaglianone). Poi c’è chi forse quel barlume, da salvaguardare con i
denti e con le unghie, non ce l’ha mai avuto: sarebbe troppo facile
riferirsi ai grandi (o alle grandi?) artigiani del mestiere, arroccati
nella convinzione che soltanto i blogger non hanno gradito la loro
opera, ma anche i leoncini di Controcampo italiano fanno ormai parte di
una riserva targata Rai Cinema e difficilmente troveranno la loro strada
nella ristretta distribuzione nostrana o nella circuitazione
festivaliera internazionale. Quando si faranno veramente i conti con la
mancata costruzione di immaginario del cinema italiano? Quando si
leveranno di mezzo i film per la televisione mostrando chiaramente a
tutti che forse non c’è più quasi nulla che si può chiamare cinema
prodotto in Italia?

Si voleva parlare di Venezia 68, ma è stato
impossibile non sollevare una questione più ampia e strettamente
connaturata, perché
se la Mostra è una vetrina internazionale, il cinema italiano dovrebbe
essere la linfa vitale che innerva il programma, e non un ingombro da
cui i giornalisti stranieri (oseremmo dire i critici, visto che altrove
esistono ancora e non sono ottusamente attaccati sulle pagine del
quotidiano più importante del Paese) scappano a gambe levate e di cui
sghignazzano in fila per il film successivo.

Tutto questo è
Venezia, che dovrebbe avere la forza di fare scelte più nette (anche se
utopiche, stretta com’è nei meccanismi di cui è partecipe), volte a
sostenere la qualità e non a confinarla in proiezioni pomeridiane o
contemporanee al Concorso principale. Non si vuole aprire una polemica
riguardo i film che non si è potuto vedere (come succede e succederà
sempre), quanto invece fare un piccolo appunto alla sezione sicuramente
più stimolante che l’operato di Müller ha saputo creare: Orizzonti, con i
suoi corti e i suoi lunghi.

Se il cinema è ancora un’arte
(viva), Venezia l’ha accolta e promossa in un arco che va dal Faust di
Sokurov allo specchio nero di Mark Lewis, unendo il kolossal d’autore
nel Concorso principale a un film sperimentale di pochi minuti,
presentato in Orizzonti, operazione degna di un grande festival,
consapevole della mutevole ricchezza del cinema.

Ma anche
Orizzonti porta al suo interno tutte le contraddizioni della direzione
Müller, caratterizzata da una varietà che potrebbe ottenere risultati
più meritori se solo scegliesse di seguire una linea più marcata.
Orizzonti, nel suo accogliere documentari dallo sguardo ambiguo (Whores’ Glory) e film di ricerca (River Rites di Ben Russell), film in prima persona di altissimo livello (Photographic Memory di Ross McElwee) e opere da obbiettori di coscienza (Amore Carne di Delbono), finzioni conturbanti (The Invader) e filmetti buonisti (Le petit poucet),
pecca nel non trovare una chiara progettualità, affastellando nel
programma troppe pellicole, soffocate le une dalle altre, in repliche
uniche dagli orari improbabili (il primo lungometraggio dell’artista
visivo Ben Rivers Two Year at Sea, penalizzato in coda alla programmazione).

Più
spazio per meno opere vorrebbe dire indirizzare addetti ai lavori e
cinefili alle prime armi verso un cinema rivitalizzante, capace di
trasformarsi in una risorsa forte per una manifestazione in antitesi al
mercato di Toronto.

Leggete qui lo speciale dedicato a Venezia 68 da Filmidee.

(immagine di Jan Mozetič)