Il programma di Orizzonti di sabato pomeriggio ha presentato un interessante abbinamento corto/lungometraggio: Meteor di Matthias Müller e Cristoph Girardet e Shock Head Soul dell’inglese Simon Pummel offrono due modalità molto diverse di approcciare una questione oggi più che mai cruciale come quella (per dirla con Franco Vaccari) dell’inconscio tecnologico, di come l’innesto uomo-macchina e il suo cortocircuito nell’immaginario produca visioni paradisiache e/o infernali.

Il cortometraggio dei due autori tedeschi, che da tempo, al di là dei progetti individuali, collaborano concentrandosi specialmente nella pratica del found footage, è una delicata e perturbante riflessione sul linguaggio e l’educazione, che lascia fluttuare fantasie e inquietudini dell’infanzia nello spazio siderale. Frammenti di chincaglieria science-fiction, che Müller e Girardet prelevano da film vintage russi un po’ come Joseph Cornell attingeva alle illustrazioni scientifiche vittoriane, invadono le camerette dei bambini, mentre l’audio fa da contrappunto intrecciando un collage di citazioni dalle fiabe dei Grimm (Hansel e Gretel in primis) con una meccanica ripetizione (tutt’altro che casuale) di vocaboli, che stringe in un nodo, troppo saldo per non essere ingannevole, parole e immagini, con l’ingenuo autoritarismo di un abbecedario.

Il tempo in cui si attiva lo scorrere onirico degli spezzoni di Meteor sembra lo stesso dell’incipit della Rechèrche proustiana, quando bisogna abbandonare mamma e papà e salire nella propria stanza per andare a letto: il turbamento di questo doloroso, incomprensibile distacco, come una lanterna magica surriscaldata, proietta sulle pareti buie paure e fantasticherie; da una finestra aperta sul cielo stellato soffiano suggestioni indecifrabili che spingono i corpicini rannicchiati sotto le coperte fra i corpi celesti, sperduti a chiedersi quale sia la loro vera origine. In questo altrove gelido e scintillante l’heimlich della casa è scomparso, qualcosa di crudele ci ha trascinato lontano dai genitori, salvo scoprire, come Hansel e Gretel, che la crudeltà abitava la casa stessa, e pensare che forse non erano nemmeno loro i nostri veri genitori, forse una stella, forse gli alieni, ci hanno depositato su questa terra come un meteorite.

Le costellazioni illuminano e rispecchiano le briciole di pane lasciate sul sentiero, ma anche queste non possono più ricondurci a casa, sono ormai perdute, disseminate, come parole che provano a fissare immagini tremolanti per poi scomporsi, accartocciarsi, sfarfallare via. Il linguaggio è una strada su cui veniamo condotti per smarrirci, dove a un certo punto le parole non trovano più le cose, e non resta che un gioco eterno di frammentazioni, dispersioni, ricomposizioni, un gioco che sembra tanto simile alla pratica stessa del found footage, dove lo smottamento dei significati, il décollage tra immagine e senso danno vita a nuove forme, e coi brandelli di una casa dismessa si costruiscono intere galassie da esplorare. Non resta che inventarsi nuovi nomi per nuove costellazioni.

Arriviamo al complesso film di Pummel, capitolo principale di un progetto multimediale in progress intitolato allo “Sputnik Effect”, espressione che indica come le ossessioni paranoiche riguardo all’autorità divina/paterna e al controllo della mente da parte di un potere oscuro e inattingibile, si siano intrecciate, tra la seconda metà del XIX° e il XX° secolo, con l’aspetto perturbante che assumono ai nostri occhi le innovazioni tecnologiche, un capitolo denso di aneddoti e ossessioni, che vanno dalla fotografia spiritica ai raggi X fino alle imprese spaziali (proprio il lancio dello Sputnik generò in un numero significativo di pazienti psichiatrici un’univoca ondata di paranoia riguardo al controllo dei loro pensieri dallo spazio remoto), senza ovviamente dimenticare il cinematografo stesso. Pumell affronta la questione toccando, è proprio il caso di dirlo, un nervo eminente e sensibile, il celebre caso Schreber, che, ancora prima di diventare un famoso capitolo della letteratura freudiana, si è condensato nella memoria scritta dello stesso Daniel Paul Schreber, un’opera che della vera letteratura ha tutta la smisurata statura, le Confessioni di un malato di nervi.

Mistico o schizofrenico, Schreber è stato un caso di passione corporea e intellettuale che come pochi hanno aperto squarci inquietanti sul cantiere della modernità, un sismografo incarnato del suo tempo come fu Nietzsche, evocato nel film dalla presenza ricorrente e ossessiva della “Hansen Writing Ball”, bizzarro modello di macchina da scrivere sferica reso famoso dal filosofo con le sue riflessioni su scrittura e tecnologia. E di come il corpo venga posseduto e scritto dalle protesi tecnologiche lo dimostra il mistico delirio di Schreber che connette i traumi di un’educazione repressiva (il padre di Schreber fu un celebrato pedagogo, autore di metodi educativi terroristici, oltre che inventore di raffinati congegni di costrizione per l’infanzia) con le oscillazioni dell’identità sessuale, in una visione cosmica in cui il corpo in tumulto di questo brillante magistrato tedesco si trovava connesso, tramite nervi/raggi/fili di tessuto impalpabile, alla crudele autorità del Dio/padre. Sacrificarsi, sottoponendosi a questi abusi e diventando donna, era per Schreber una questione da cui dipendevano le sorti stesse dell’universo. Come un bricoleur estasiato, lo scrittore Schreber dispone i materiali culturali della sua epoca (dalla neurologia al telegrafo fino appunto alla macchina da scrivere) in un assemblaggio grandioso e inquietante, che ci interroga sullo stesso concetto che abbiamo della verità. Perché quello che egli cercava nelle sue contorte memorie è un metodo capace di inquadrare, di elaborare in una specie di coerenza le informazioni contraddittorie e inaccettabili che la sua psiche riceveva – e che questi messaggi fossero trasmessi dalle dimore celesti o dalle profondità del suo inconscio diventa allora secondario. Schreber reclama il diritto alla sua verità fisica ed estetica.

Il film affronta dunque una questione che è un vulcano di spunti e riflessioni possibili, articolando il più possibile i suoi registri per tentare di soddisfarne la complessità. C’è innanzitutto il dramma di fiction vero e proprio, che ingloba frammenti di un corto precedente sulla mostruosa educazione subita da Schreber (Temptation of Sainthood, 1993), e affronta la vicenda alternando spunti visivi interessanti (come la sequenza della stanza d’isolamento) a momenti teatrali un po’ imbarazzanti (vedi l’incipit di coppia). Ma il filo conduttore degli episodi narrativi è un curioso documentario d’inchiesta, in cui psichiatri e psicanalisti, nonché il Film Studies Professor Ian Christie, sono convocati, in abiti d’epoca, nel tribunale visionario che è la stanza centrale della messa in scena, a testimoniare sul caso Schreber. Una soluzione che all’apparenza posticcia e un po’ ridicola unisce la buona intenzione di mettere in discussione la distanza, e dunque l’autorità, che caratterizza questo genere di interventi. Ulteriore innesto rappresentativo sono le animazioni digitali che visualizzano le allucinazioni di Schreber, in particolare la già citata macchina da scrivere sferica, con effetti non sempre riusciti. Insomma, Shock Head Soul è un progetto ambizioso, che rischia spesso di crollare sotto il peso della sua materia e mancare di efficacia quando, per rendere la stratificazione della scrittura di Schreber, moltiplica la propria con effetti barocchi che rischiano di sminuire la portata critica delle tematiche trattate. Ovviamente resta da chiedersi quanto il giudizio derivante da una proiezione in sala possa rendere conto di un progetto che si estende dagli spazi espositivi al web. Ma è una questione che dobbiamo lasciare aperta.