La visione perfetta non ha durata e non è duratura.
Questo assioma sta al cuore della nozione di storia cinematografica.
Paolo Cherchi Usai

Il film può fare a meno del cinema una volta per tutte.
Sandra Gibson e Luis Recoder

Un proiettore 16mm privo di bobina di riavvolgimento che riversa sul pavimento pellicola dismessa, in un mucchio che cresce costantemente nel corso dell’installazione. Light Spill evoca un cinema abbandonato, un proiezionista che ha disertato la propria postazione, una tecnologia analogica lasciata a provvedere per se stessa, mutatis mutandis. Sandra Gibson e Luis Recoder mettono in scena il film come oggetto orfano attraverso il procedimento temporale dell’installazione di immagini in movimento. Collaboratori sin dal 2000, Gibson e Recoder coniugano la ricca tradizione del cinema sperimentale (in particolare i versanti materialista e strutturalista) e la sensibilità multimodale del cinema espanso emersa negli anni ’60, quando l’immagine in movimento si è insinuata nel labile spazio di interazione tra performance, suono e spettatore. La loro opera esplora soprattutto l’interstizio tra la pratica del film d’avanguardia e l’incorporazione dell’immagine in movimento e dei media basati sulla temporalità all’interno di spazi museali e galleristici.

La contemporaneità e l’attualità di Light Spill ha a che fare con il valore aggiunto del fondamento meccanico e materiale del medium, reso ancora più pregnante sulla scorta della presunta evanescenza del cinema. Nel corso degli ultimi quindici anni, se non da prima, la“morte del cinema” è stata annunciata, discussa e dibattuta all’interno dell’industria, della cultura cinematografica e della sua pratica critica/teorica. Tanto a livello pragmatico quanto retorico, questa piega dipende da mutamenti economici attinenti la proiezione e la distribuzione dei film, dal destino oneroso della preservazione delle pellicole, e forse, in maniera ancora più evidente, dall’eclissi del medium analogico a favore dei formati digitali. L’indexicalità della pellicola, ci è stato detto, spalanca la strada al nuovo status dell’immagine in movimento come informazione e dato. Di contro, Gibson e Recoder postulano la compianta decadenza del cinema come coincidente con la risoluta, caparbia riluttanza opposta dalla materialità dell’oggetto filmico. La loro opera ci ricorda che il film, persino mentre si avvicina sempre più agli aspetti capricciosi delle gallerie d’arte e del loro mercato, porta con sé una gravità museale e, allo stesso tempo, un peso radicalmente contemporaneo in questo“divenire cinema dell’arte”.

Distinguendo tra cinema (come pratica istituzionale, cornice ideologica e idea immateriale) e film (l’oggetto materiale che fornisce un substrato al cinema e gli dà vita), Gibson e Recoder affrontano la storicità dell’immagine in movimento per mezzo di un riassemblaggio dei suoi componenti fisici. Con la lucidità chirurgica di una vivisezione, gli organi del film – schermo, proiettore, pellicola – vengono ulteriormente scomposti nei loro meccanismi e processi di base. Vengono così messe in atto una serie di sostituzioni e dislocazioni. La bobina di riavvolgimento è sostituita dal pavimento, dove la pellicola acquista forma scultorea avvolgendosi e avviluppandosi in maniera casuale. Il luogo istituzionale e l’oscurità necessaria della sala cinematografica sono sostituiti dalla luce dello spazio espositivo, una luce che si sovrappone a un’immagine emanata da una lente fuori fuoco per mezzo della quale la proiezione di film “espropriati” e frammenti di immagini produce un’inquadratura pittorica, vaga e aleatoria. Al posto delle poltrone della sala c’è uno spazio spoglio che lo spettatore è libero di percorrere per fermarsi a esaminare qualunque dettaglio nella drammaturgia meccanica dell’atto di proiezione. Lo schermo, che storicamente è oggetto di un’indubitabile attenzione immersiva da parte dello spettatore, è contemporaneamente rimpicciolito ed espanso, sostituito dalla parete della galleria.

Così, i contenuti rappresentazionali dell’immagine proiettata e, di conseguenza, la storia di un incontro e di un modo di relazionarsi a tale immagine, vengono subordinati al nuovo assetto dei processi e delle strategie tecniche che lo chiamano in causa. Lo schermo smaterializzato ci riporta indietro, anacronisticamente, contro la teleologia e verso un’altra marea crescente. L’apparato modificato che costituisce la performance-installazione di Gibson e Recoder svela il retroscena della proiezione,  rendendolo improvvisamente organico, corporeo – altro substrato materiale messo a nudo. La pellicola sciolta, riversata, strappata all’abbraccio tecnologico che la ospitava, le forniva convenzioni di esibizione e di ricezione, e un tempo le dava una forma coerente e una destinazione precisa. La mobilità dello spettacolo è ricollocata, in un movimento avvolgente e contrario, teso allo smaltimento dell’opera filmica. Il film: ora un cumulo di viscere luminescenti che si agitano come serpenti, materiale di scarto rigettato dall’archivio invisibile del corpus cinematografico. Allo stesso tempo, un rifiuto fremente che rifiuta di rimanere morto.

La luce, elemento essenziale per la produzione e proiezione dell’immagine in movimento, viene moltiplicata e rifratta, illuminando il film come si trattasse dei resti vitali di un’ideale cinematografico in procinto di svanire. La luce non può contenere il film, ma si riversa attraverso esso e oltre. Se lo srotolarsi del film implica una perdita – l’incubo, lo sforzo sisifeo del preservatore di film contro la devastazione che il tempo opera a danno di un corpo incommensurabile di film sconosciuti –, lo spandersi della luce sembra invocare un’arena espansa di diffusione e mescolanza, un’elasticità riguardo ciò che questa cosa che chiamiamo film potrebbe diventare dopo la fine del cinema. La luce, in questo senso, può dare al film un nuovo profilo, un’altra forma, una carne alternativa. Oltre il cinema: uno spazio altro si spalanca, dove vedere, percepire, accostarsi al film come oggetto ineffabile, organico e inorganico, obsoleto e ostinato.

(pubblicato per la prima volta nel catalogo della UW-Milwaukee Art History Gallery nel gennaio 2011, poi in LOLA, tradotto da Alessandro Stellino, con la collaborazione di Tommaso Isabella)