Quando A Married Couple venne distribuito, nel 1969, scatenò una serie di polemiche nella piccola cittadina in cui sono nato. Ne parlavano in tv, nei talk-show e sui giornali: “Come è possibile” si diceva “lasciare che la macchina da presa spii la vita di una coppia sposata dentro la propria casa, e persino in camera da letto?!”. Il voyeur dentro di me colse subito la portata dello scandalo promessa dal film, ma sarebbero passati anni prima che potessi vederlo. Quando finalmente lo vidi, mi cambiò la vita: per la prima volta mi resi conto che un regista può essere importante quanto un film e che King non era (solo) un provocatore ma un eccellente filmmaker.
Con il passare del tempo e i tanti film fatti, Allan King si è abituato alle controversie. Parte dell’importanza di fare cinema per lui aveva a che fare con la consapevolezza che il mondo l’avrebbe criticato perché il suo film sulla disoccupazione infastidiva la compiacenza del pubblico piccolo borghese, o per aver messo altri profondamente a disagio di fronte alle immagini di persone che lottano per esalare l’ultimo respiro. Benché non sempre facili da vedere, i suoi film sono impossibili da ignorare. Furono le macchine da presa di King a riprendere le difficoltà dei derelitti di Vancouver, il dolore di una donna in lacrime a causa della disoccupazione, a mostrare per la prima volta le facce dei bambini di Warrendale, a non vergognarsi di fronte allo sconforto di un matrimonio in crisi e a dare dignità all’invecchiamento e grazia infinita all’atto di morire.

Viene sempre da pensare che la tua carriera sia cominciata negli anni ’60, ma in realtà ha preso il via molto tempo prima.

Il mio primo film è del 1956. Ma il cinema è stata una scuola cominciata in tenera età, quando vedevamo i film di Buster Keaton e Harold Lloyd appena usciti da scuola, all’ora di pranzo. In seguito io e il mio amico Sam Fox dirigemmo la film society di Vancouver. Metà esecutivo era comunista, l’altra metà liberale: per i primi noleggiavamo tutti i classici del muto dell’Unione Sovietica, mentre per far contenti i liberali mostravamo i classici del cinema tedesco. Ma avevo già avuto un’educazione sul campo prima ancora di terminare l’università, un’educazione che le scuole di cinema non mi avrebbero mai potuto dare. Non esistevano scuole di cinema, ad ogni modo.

I Maysles facevano film nello stesso periodo. Li conoscevi? Avevi avuto modo di incontrarli?

David è morto da qualche tempo, Albert è ancora in pista, anche se non credo abbia fatto film, di recente. Ma è molto attivo, partecipa a festival, seminari e cose del genere. È stato proprio Albert a darmi la mia prima macchina a mano portatile e a rendere tutto ciò possibile perché aveva adattato una Auricon, una macchina enorme con rulli da 1200 piedi, in maniera da poterci inserire un caricatore Mitchell. Molta altra gente sostiene di aver inventato il cinema-vérité, compreso l’uomo che ha detto “il cinema è la verità 24 fotogrammi al secondo”. È una bugia, perché in Francia il cinema va a 25 al secondo. Scherzo, è solo una battuta che faccio sempre.

Mi ritengo un fan del documentario ma c’è stata un’epoca in cui il genere non aveva molti seguaci…

Non è così. Per la prima di Warrendale al New York Cinema di Toronto ci fu tantissima gente. Ricordo file lunghissime che facevano il giro dell’isolato. E il film rimase in cartellone per tredici settimane. Fu un evento straordinario, soprattutto considerando che era stato pensato per la televisione. Non avrei mai potuto farlo senza la CBC. Peccato che poi il vicepresidente del canale l’abbia boicottato…

Niente di meglio che un successo sul grande schermo, allora, per rifarsi…

Sì, è stato senza dubbio un grande punto di svolta per la mia carriera. Si trattava del primo film di rilievo che facevo. Avevo cominciato a Vancouver con un film sui derelitti intitolato Skidrow. Poi sono andato in Europa e mi ci sono stabilito come regista indipendente facendo avanti e indietro tra Toronto e Londra, realizzando filmati per un programma ideato da Ross McLean che si chiamava “Close-Up” e che ebbe un grande successo da una parte all’altra del Paese. Fu il primo programma di quel tipo in Canada.

Parli di grandi audience per i documentari ma non credi di aver avuto un ruolo fondamentale nel trovare un pubblico per questo tipo di cinema?

Non ero l’unico, eravamo in tanti a farlo. Ma sicuramente ho contribuito a una serie di svolte. Warrendale è stata senza dubbio una di queste. Ebbe un successo di pubblico enorme. Prima avevo realizzato un film intitolato A Matter of Pride, sulla disoccupazione a Hamilton. I protagonisti erano una coppia, marito e moglie, e lei pianse mentre la riprendevo. La loro vita stava andando a rotoli. I centralini della CBC squillarono incessantemente dopo la trasmissione. Lo vide tantissima gente e scatenò un enorme dibattito, tanto che venimmo convocati alla Camera dei Comuni. Nessuno si sarebbe mai aspettato che provocasse un clamore tale né che potesse avere un così ampio seguito di spettatori. Una delle prime cose che ho imparato la devo a Barney Balaban, all’epoca vicepresidente della distribuzione della Paramount. Mi disse: “Se vuoi scommettere sugli esiti di un film al box office lancia in aria una moneta. Difficilmente potrai essere più sicuro di azzeccare”.

Penso al fatto della donna che piange mentre viene ripresa: sembra suggerire l’idea che il documentario possieda un impatto emotivo superiore a quello di una normale forma drammatica.

Non direi. La gente piangeva in sala anche quando il ragazzino perde il padre in Who Has Seen the Wind

Ma in quel caso i centralini non impazzirono.

Andò benissimo lo stesso. Fu un grande successo al box-office, uno dei tre film che incassarono di più quell’anno. Di norma sono i film di finzione ad avere maggior successo. Il documentario può andare più o meno bene, dipende dai casi. L’audience è un fattore incontrollabile, va e viene. Dopo Warrendale girai Come On Children, che andò malissimo. Un vero disastro: non più di 500, 550 persone alla Cinemateque e appena 50 al New York. Non piacque a nessuno. Fu solo nel 2002, quando lo mostrai nuovamente a un pubblico composto di ragazzi accompagnati dai genitori, che ebbi una reazione positiva. I giovani lo trovarono fantastico. Mi dissero che raccontava l’adolescenza esattamente come la vedevano loro. Agli adulti non piacque, perché i protagonisti non facevano ciò che veniva detto loro. Pensavano di sapere cosa fosse meglio per i propri figli e non accettavano che ragionassero con la propria testa.

Era migliorato con gli anni?

Direi di sì. Almeno a giudicare dal responso del pubblico. Sta andando bene anche in dvd. Ma non puoi mai essere veramente certo, al riguardo, puoi solo darti da fare per diffondere i film. Abbiamo pubblicato una collezione di 16 dvd con tutti i miei film più importanti, ma abbiamo dovuto farlo da soli (1).

In film come Come on Children e Who’s in Charge? metti un gruppo di persone in situazioni ad alto potenziale di stress per vedere come reagiscono?

Non ho mai messo nessuno in nessuna situazione, in quei due film come in tutti gli altri. Vorrei che questo fosse chiaro perché è di fondamentale importanza. L’idea di Come on Children nacque perché mi venne offerto di girare un film sui giovani e il loro rapporto con le droghe. Mi interessava il modo in cui si sentivano le nuove generazioni, quindi facemmo tantissima ricerca, parlando con quattro o cinquecento ragazzi della cintura suburbana di Toronto. Scoprimmo che desideravano tutti più o meno le stesse cose: volevano andare via dalla città, odiavano l’irreggimentazione scolastica, pensavano che nella società non ci fosse posto per loro e continuavano a ripetere quanto sarebbe stato bello andare a vivere in campagna. Così abbiamo invitato una decina di loro a fare quello che dicevano di voler fare e ad esplorarne le conseguenze. Accadde che tre o quattro scoprirono davvero qualcosa, come John Hamilton, il ragazzo che smise di farsi di speed – cosa che all’epoca si riteneva impossibile. Per quanto riguarda Who’s in Charge?, abbiamo invitato una trentina di persone di provenienza diversa per affrontare la questione dell’impiego e della disoccupazione. Abbiamo creato una struttura ben precisa, a livello di tempo, luogo e spazio, e siamo stati molto attenti a non invadere il loro, di spazio. Sapevano di essere ripresi e che lo scopo era far raccontare loro le proprie esperienze davanti alla macchina da presa. Erano consapevoli di ciò e quello che facevano o dicevano aveva una motivazione precisa. Ciò che forse non sapevano era che il processo di esplorazione e approfondimento sarebbe stato difficile. È un processo difficile da affrontare ma nell’intraprenderlo si guadagnano la propria indipendenza e autorità.

Gran parte delle critiche rivolte a Who’s in Charge? furono di natura ideologica. Non si metteva in discussione tanto l’ideologia del film quanto la maniera in cui essa veniva rigettata.

Credo che l’ideologia, come la religione, sia piena di limiti. La nozione platonica secondo la quale un’idea astratta è allo stesso tempo reale è una scemenza. Le astrazioni sono strumenti utili al pensiero e finiscono per far parte del linguaggio di cui ci serviamo per comprendere il mondo. Le ideologie, però, possono costituire anche una rinuncia al lavoro necessario ad affrontare la realtà e comprenderla. Ed esplorare la realtà è una delle cose che mi interessa di più in assoluto. Si scopre che è piena di contraddizioni e che è fondata da valori di natura umana che, come tali, sono caratterizzati da tensioni tra nozioni differenti di ciò che è buono o non lo è. La vita è anche risolvere queste tensioni e questi conflitti in modo da vivere più a lungo, fare meno male alla gente, provare più piacere e potersi realizzare come esseri umani.

In A Married Couple, oltre alla tua abilità nel guadagnarti la fiducia della coppia, mi ha profondamente stupito quanto il marito, Billy, si trovasse a proprio agio di fronte alla macchina da presa. Sembrava non vedesse l’ora di mostrarsi nudo.

Nei miei film sono tutti consapevoli della presenza della macchina da presa e si comportano di conseguenza. Lo fanno per un motivo ben preciso: ho sempre voluto fare film su persone disposte a condividere la propria esperienza con me e la mia macchina da presa. Ho bisogno che siano d’accordo che quello che sto facendo è importante e può esserlo anche per altri. In Warrendale, per esempio, era necessario avere l’approvazione del direttore dell’istituto, John Brown. Lui mi disse: “Va bene, ma devi avere anche quella dello staff e dei bambini. Senza di essa non puoi fare il film”. Lo staff era molto indeciso. Nessuno vuole che si veda quello che fai perché è inevitabile, umano, commettere errori, non è una cosa che si può evitare. Ma con i ragazzi è stato più semplice. Mi hanno chiesto “come mai quando ci fanno le foto per metterle sui giornali poi oscurano le nostre facce? Cosa c’è di così brutto che non può essere mostrato?”. E io ho risposto: “è proprio per questo che voglio fare il film”. Con Bill e Antoniette volevo fare un film sul matrimonio conflittuale, tema al quale in quegli anni si era molto sensibili. Vivevo con loro due, all’epoca – Billy ha realizzato il manifesto di Warrendale – e mi ero accorto che il loro matrimonio stava attraversando un momento difficile, così li ho invitati a prendere parte al progetto, a condividere la propria esperienza con la macchina da presa. In questo senso credo che sia sbagliato dire che recitano: stanno condividendo, caso mai. Billy è consapevole del fatto di essere ripreso e non può fare a meno di fare battute. Ci sono momenti di allegria e altri estremamente seri. C’è un’intera gamma di situazioni, ma la gente ripresa nei miei film è sempre consapevole del fatto di essere ripresa.

Quindi vi conoscevate bene?

Sì, ed ero consapevole del fatto che ciò avrebbe potuto costituire un problema. Per questo non ero mai sul set, dentro la loro casa, mentre si girava. Avevo paura che Billy e Antoniette si ponessero il problema di cosa avrei voluto che facessero o dicessero. La stessa cosa vale per Warrendale: se fossi stato nella stanza con i ragazzi avrebbero cercato di interagire con me. Ho anche compreso che quando giri il tipo di film che facevamo noi se dico all’operatore cosa riprendere poi non è in grado di seguire l’azione. Ascolta me anziché concentrarsi su quello che succede, in modo da capire come spostarsi e in che direzione muoversi. Bisogna responsabilizzare i collaboratori: l’operatore deve percepire la propria autorità nella scelta dell’inquadratura, il fonico nella realizzazione del sonoro. La mia autorità risiede nell’ideazione di fondo. Parlo in continuazione con l’operatore, ma telefonicamente.

Negli anni ’70, quando hai cominciato a fare film drammatici, il tuo approccio è notevolmente cambiato. Ad esempio, ti sei affidato spesso ad adattamenti altrui. Come mai?

I motivi erano almeno due. Prima di tutto, i documentari mi hanno lasciato senza un soldo. Era impossibile trovare finanziamenti. Tutto il denaro messo a disposizione per il cinema in Canada andava alla Canadian Film Development Corporation o ai drammi televisivi della CBC, così ho cominciato a lavorare per loro. Tutte le serie principali, come “To See Ourselves” e “Performance”, consistevano di adattamenti. Patricia Watson, che all’epoca era mia moglie, amava scrivere adattamenti, così lei li scriveva e io li giravo.

A Married Couple era costato circa duecentomila dollari per settanta ore di girato in 16mm. Che cosa è cambiato con le attrezzature digitali per girare The Dragon’s Egg?

The Dragon’s Egg è costato cinquecentomila dollari per un centinaio di ore e sei settimane di riprese. Questo perché tutti gli altri costi sono lievitati. I soldi che risparmi con le macchine digitali li spendi per tutto l’equipaggiamento che ti serve per digitalizzare e fare i transfer. Il vero grande pregio del digitale sta nella sua maneggevolezza. A cose fatte, il risultato non è molto diverso dal 16mm ma è molto più facile e veloce da usare. In proporzione, però, i costi non sono ancora così favorevoli. Si è fatto un gran parlare della convenienza del digitale, ma molte considerazioni al riguardo sono ingannevoli.

Che rapporto hai avuto con W. O. Mitchell, l’autore del romanzo da cui hai tratto Who Has Seen the Wind?

Non venne mai sul set. Il film ebbe parecchi problemi… Uno dei miei collaboratori era uno dei primi indipendenti del panorama canadese e faceva da garante per il completamento del film. Si offrì di darmi una mano con la ricerca dei fondi. Era una cosa che intendevo fare da me perché chi mette i soldi controlla il film e ho sempre cercato di gestire i finanziamenti in prima persona. Ma poco prima dell’inizio delle riprese mi disse che non gli piaceva la sceneggiatura e che non intendeva sostenere il film. Rimanemmo fermi finché la situazione non venne risolta in qualche modo. Ma convinse Bill che il testo non andava bene, che era pessimo, quando in realtà era molto vicino al romanzo – anzi, credo che non sarebbe potuto esserlo di più. È una storia lunga e complicata… Bill era molto arrabbiato.

Ha cambiato idea quando ha visto il film?

Non gli è mai piaciuto. Credo che lo chiamasse Who Has Seen the Waltons, che era il titolo di una celebre serie televisiva dell’epoca. Il film parlava della latenza e Bill non aveva mai superato la propria. Il padre era morto quando aveva appena 12 anni e non aveva mai avuto una relazione esperienziale con lui. Non so se ti intendi di psicoanalisi ma la latenza ha luogo in un momento imprecisato tra i 6 anni e l’adolescenza. Un periodo in cui si tende a vedere tutto come bianco o nero, buono o cattivo.

Mi sembra che questo periodo di latenza ti interessi molto, a giudicare da Warrendale e, poi, Come on Children.

Mi sono occupato di tutti gli argomenti che ho ritenuto importanti. Prima c’è stato l’alcolismo e la gente che finiva a vivere per strada, e quando sono diventato più vecchio e ho capito che prima o poi sarei morto mi sono detto che forse avrei fatto bene a scoprire di cosa si trattasse, così ho fatto un film su quell’argomento. Dipendeva molto dall’età e dalle questioni emotive che mi stavano a cuore in quel momento. Ho sempre e solo fatto film che ritenevo importanti in primo luogo per me stesso.

Con Dying at Grace eri consapevole del fatto che qualcuno ti avrebbe potuto accusare di sfruttare il dolore delle persone che avevi filmato? Come ti rapportavi a questo tipo di critiche?

Speri sempre che il film piaccia ma bisogna pensare che il pubblico che lo guarda ci mette dentro se stesso. Il proiettore funziona in una doppia  direzione: proiettando immagini sullo schermo, e proiettando la gente sullo schermo; ma proietta anche il film dentro di loro e le persone proiettano se stesse in ciò che vedono, ciascuna a suo modo. Non sta a me dire alla gente quello che deve pensare. Al principio pensavo di poter cambiare il mondo, ma poi ho capito che non ci sarei riuscito, e forse non era nemmeno quello che volevo davvero.

Da A Married Couple ho imparato qualcosa riguardo i rapporti tra marito e moglie, da Memory for Max i tranelli dell’invecchiamento e da Dying at Grace molto sulla paura e la dignità del morire. Che cosa hai imparato tu dai tuoi film?

La verità è che ho avuto il privilegio di venire pagato per fare film riguardanti le domande più importanti sulla vita, i rapporti personali e sociali a cui da sempre ero interessato. Ma non avevo mai compreso fino in fondo cosa avessi fatto fino alla retrospettiva del 2002 al Toronto International Film Festival: solo in quell’occasione ho realizzato il percorso che avevo compiuto in ambito umano e professionale.

Quindi ritrovi un percorso preciso all’interno del tuo lavoro…

Sì, anche se ho scoperto molto tardi quello che stavo facendo. Non avevo mai avuto in mente di girare film pensando che un giorno ne avrebbero fatto un catalogo o una retrospettiva. Per di più, mi sono sempre trovato a girare episodi di questo o quello, pubblicità e robaccia del genere. Anche se non dovrei definirla “robaccia”: ero ben pagato ed era lavoro facile. A volte devi imparare a stare zitto, e lasciare che la troupe faccia il film.

(1) I principali film di Allan King sono disponibili presso il sito www.allankingfilms.com. Nel 2010 Criterion ha pubblicato un cofanetto contenente Warrendale, A Married Couple, Come On Children, Memory for Max, Claire, Ida and Company e Dying at Grace.

(pubblicato originariamente su Toromagazine.com nel dicembre 2008; traduzione di Alessandro Stellino)