Quando si parla di resistenza, il senso politico si associa alla persistenza che l’immagine cinematografica dovrebbe possedere per radicalizzare la realtà. Tale pratica corrisponde al lavoro solitario e ostinato di un giovane cineasta come Sylvain George che, da oltre dieci anni, ricerca una nuova forma cinematografica in grado di dare la giusta dignità ai migranti e agli emarginati della società. La sua intransigenza nei confronti di un sistema politico che non si fa carico della disperazione dell’altro si esplica in una visione rinnovata, frutto dell’abilità di cogliere l’attimo fuggevole e svelarne la portata simbolica. Dal magma di immagini filmate, i moli di Calais, i polpastrelli bruciati e i volti incappucciati e segnati dallo sferzare del vento, Sylvain George ha realizzato un trittico incandescente: L’impossible (2009), Qu’ils reposent en révolte (2010), vincitore del BAFICI, e, adesso, Les éclats, presentato al Torino Film Festival e a Filmmaker Festival di Milano.

In Les éclats, il tuo ultimo film, l’urgenza di chi si sta costruendo una nuova vita e una nuova identità, di chi è alla ricerca di un posto in cui poter vivere, si scontra con le strutture paludate della nostra società (il tribunale da cui gli immigrati sono giudicati, nel finale, le carte di espulsione, all’inizio). Come ti sei accostato a queste due realtà così diverse?

Sono realtà intrinsecamente legate fra loro. Il film è ambientato a Calais, una città nel nord della Francia dove persone migranti che provengono da diverse regioni del mondo (principalmente Eritrea, Sudan, Iraq e Afghanistan) tentano di raggiungere l’Inghilterra. Questa città è diventata molto famosa in Francia a partire dal 2002, quando l’attuale presidente della Repubblica, e allora Ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy aveva fatto chiudere il campo di Sangatte, gestito dalla Croce Rossa. È una città in cui la politica si espone e i corpi sono esposti politicamente. Retate, cacce all’uomo, arresti, violenze della polizia, internamento nei campi di detenzione, sentenze in tribunale… sono la quotidianità delle persone migranti. Nel film ho cercato di rendere conto di queste realtà e di mostrare che cosa sono le politiche migratorie in Europa, i dispositivi incaricati della loro applicazione e le loro conseguenze sulle persone interessate.

L’immigrazione è al centro di tutti i tuoi lavori. Cosa ti ha spinto a concentrarti sui clandestini? Cosa pensi possano incarnare?

Penso che la figura dello straniero e la sorte che gli è riservata, e più in particolare quella dei rifugiati, ci fornisca un’idea molto eloquente sullo stato delle nostre democrazie. Ci si è potuti rendere conto di questo negli anni ’30, e si può farlo ancora oggi in un’Europa che moltiplica gli spazi di esclusione degli stranieri in seno a se stessa, alla sua periferia, al di là dei mari. Un’Europa che dispiega dei dispositivi sempre più bellicosi nei confronti di persone migranti considerate come nemici e potenziali terroristi, che è fondamentale combattere a qualsiasi costo. Umberto Bossi nel 2003 diceva di «far tuonare il cannone» contro le imbarcazioni che si arenavano sulle spiagge di Lampedusa… Nell’eco di queste minacce, la morte dei perdenti in questa guerra larvata diventa banale, se non normale. Non si contano più le migliaia di morti e dispersi in mare, nel deserto…
Quello che traspare in queste politiche e in questi dispositivi sono delle ripartizioni del sensibile, delle logiche d’inclusione e d’esclusione, di appartenenza e separazione al servizio dell’ultraliberismo da una parte e del neo-colonialismo dall’altra. E, sempre, in queste politiche e dispositivi si rivela anche la creazione di interstizi di eccezione, di zone grigie nelle quali a farsi beffe della legge sono gli stessi soggetti incaricati della sua applicazione, come la polizia. La legge è quindi sospesa. Gli individui sono spogliati dei loro diritti, ridotti a quello stato che il filosofo tedesco Walter Benjamin chiama «la nuda vita».
Attraverso i miei film, cerco da un lato di attestare e di rendere conto della creazione di questi interstizi, estremamente leggibili, evidenti all’interno delle politiche migratorie ma altrettanto presenti nel complesso delle politiche pubbliche; e che colpiscono innanzitutto le persone più svantaggiate delle nostre società: gli immigrati, gli studenti, gli scioperanti etc. E, d’altro lato, provo ad operare un rivolgimento dialettico. Ossia creare, tramite il film, un interstizio, uno spazio-tempo singolare, nel quale gli individui si presentano nella loro singolarità e irriducibilità, redimono il presente e il passato. Le rappresentazioni politiche e mediatiche dominanti vengono demolite nel loro stesso prodursi.

Seguire i tuoi lavori vuol dire anche partecipare degli spostamenti di un gruppo di clandestini. Quale rapporto instauri con loro prima di scegliere di filmarli?

Come dicevo Calais è una città enormemente celebre in Francia. Di conseguenza vi è una presenza dei media costante. Si va dallo studente di giornalismo alla grande produzione cinematografica, passando per la televisione etc. Generalmente le rappresentazioni delle persone migranti o sono mediate dal potere dominante, e dunque stigmatizzanti, oppure adottano un approccio compassionevole, umanitario, sociale e vittimizzante dei migranti e della questione migratoria. Per me si tratta anche in questo caso di un’altra forma di stigmatizzazione dato che, lasciata da parte la politica, le persone migranti vi appaiono come vittime della sorte, del destino, del fato etc. La violenza di questi approcci e di queste rappresentazioni è raddoppiata dalle condizioni di produzione delle immagini. La maggior parte dei media considerano il film o il reportage come un fine in se stesso e, stando così le cose, ogni mezzo è valido per ottenere un’immagine, una testimonianza: fare imboscate come i poliziotti, pagare per un’intervista, creare cameratismi posticci, etc. Pornografia! Per quanto mi riguarda, il cinema è un medium che ho scelto col fine di stabilire e costruire la mia relazione col mondo e con me stesso. Uno strumento dialettico puro. Un mezzo puro. Un mezzo che mi permette di provare a costruire delle relazioni, di intrecciare un dialogo con delle persone e quindi con me stesso. Questa concezione presuppone allora la costruzione di un piano d’uguaglianza con i soggetti filmati e si fonda su una certa etica. Non tutti i mezzi sono validi per arrivare a realizzare un’immagine, per arrivare ai propri fini. Al contrario, è importante privilegiare i mezzi a detrimento dei fini, considerare il cinema come un «mezzo senza fine», che permette un’apprensione, senza giudizi precostituiti e attese deformanti, delle realtà nascoste, dimenticate, represse, stigmatizzate, rimosse. In concreto questo si realizza con/significa un lavoro di presentazione di ciò che si è, di cosa si intende fare, presso le persone che s’intendono incontrare e filmare. Significa non filmare la gente a loro insaputa, non utilizzare stratagemmi disonesti per ottenere un’immagine, una sequenza, etc. Per arrivare a ciò è necessario trovare il modo di passare molto tempo con le persone in modo da stabilire e costruire una situazione se non di confidenza, perlomeno di dignità e rispetto. Questo richiede che non si debba tentare sistematicamente di filmare, di produrre un’immagine. Bisogna saper resistere alla tentazione di realizzare un’immagine, sentire quando è il momento in cui la videocamera può registrare qualcosa e quando non lo è. La videocamera è uno strumento ambivalente. Può incoraggiare una presa di parola come arrivare a urtare un momento che non potrebbe reggere la registrazione e la presa di distanza che essa implica.
Un film si costruisce con delle immagini fisiche, materiali e con delle immagini immateriali, assenti, mancanti: immagini che si trovano nel fuori campo delle riprese, immagini non montate, non girate, immagini mnemoniche/che restano nella memoria, immagini del passato…
Questo gioco dialettico tra le immagini mancanti e le immagini presenti apre le sfere del politico, dell’etico, e del poetico.

In Les éclats hai scelto il blues per accompagnare le tue immagini. Come mai?

Per la prima volta nei miei film ho provato a sperimentare l’utilizzo della musica sulle immagini. L’ho fatto raramente, in precedenza, perché volevo lavorare innanzitutto sulla plasticità e la musicalità delle immagini in quanto tali. In Qu’ils reposent en révolte, c’era la versione di Motherless Child fatta da Archie Shepp, musicista free-jazz, ma era nei titoli di coda. In questo film ho sentito il desiderio di mettere in dialogo e in corrispondenza la musica con le immagini, senza che i due medium arrivassero a “illustrarsi” l’un l’altro.
Il blues si è imposto da solo per i motivi che tratta e che entrano in risonanza con la situazione dei migranti a Calais come altrove, così come per la condizione dei “negri” di oggi, vittime del capitalismo predatorio: sans-papiers, giovani delle banlieues, etc. (durante le ultime sommosse in Inghilterra, i rivoltosi gridavano: «Noi siamo negri»). Non si tratta di blues tradizionale, ma di un blues molto violento, heavy, ma che può essere anche incredibilmente delicato, improvvisato da un musicista che è un nero nel corpo di un bianco, Diabolo. Un magnifico musicista.

Più in generale che valore dai alla partitura sonora dei tuoi film, nella loro coesistenza tra immagini senza suono, immagini sonore e partitura musicale?

Tento di creare delle strutture di tensione e di risoluzione tra tutte le componenti del film: presenza e assenza del suono, variazioni sonore, primi piani, piani larghi, gioco sulle velocità di scorrimento… L’obiettivo è tradurre in senso cinematografico, e nel modo più esatto possibile, eventi, soggetti, realtà filmati. Far risaltare, mettere in evidenza il tenore di verità contenuto in ogni immagine..

Il gesto reiterato di uomini che si bruciano i polpastrelli per cancellare la loro identità è un’immagine centrale nel tuo cinema. Come mai hai focalizzato l’attenzione su questo particolare?

Questa azione molto forte è compiuta di continuo dai migranti a Calais. Ricordiamoci che le leggi di Dublino II vietano a una persona, le cui impronte digitali siano state registrate in un Paese X della Zona Schengen, la possibilità di richiedere asilo in un altro Paese. Queste impronte sono immediatamente inserite in uno schedario, Eurodac, che i Paesi dell’Unione possono consultare. Per alcuni migranti l’Europa diventa dunque un gigantesco campo. Per sfuggire al sistema Eurodac, i migranti le cui impronte sono stare prese ad esempio in Grecia o in Italia, si bruciano le impronte digitali con dei ferri arroventati o con dell’acido per auto o in altri modi. È un’operazione estremamente violenta a vedersi e che ha un significato terribile: dire che L’Europa marchia a fuoco i migranti non è più una metafora. Ma, nello stesso tempo, il fatto di bruciarsi le dita è un dispositivo escogitato dai migranti per scampare al sistema difensivo dell’Europa in guerra contro di loro. Si tratta di un vero e proprio contro-dispositivo che permette a molti migranti di arrivare in Inghilterra senza poi essere rispediti in Italia o in Grecia. Mi è capitato di filmare questa operazione, assolutamente fondamentale per chi si trova a Calais (e ripetuta quotidianamente), in due o tre occasioni, non certo a fini spettacolari, ma per mettere in evidenza questo aspetto cruciale.

Il frammento è motore del tuo cinema, ma anche di un certo modo di guardare alla Storia. Che cosa lega questi due ambiti?

Per il momento cerco di costruire dei film che rompano con uno schema narrativo lineare, che presuppone una concezione organica della storia, legata da principi di causa-effetto e orientata verso un fine. In termini estetici, non voglio costruire dei film che rispondano a una poetica come quella proposta da Aristotele, per fare un esempio.
I miei film sono composti di frammenti che si scontrano e si intrecciano nel tempo e nello spazio. Non c’è una storia con inizio/mezzo/fine, con scene d’introduzione, peripezie, risoluzioni finali, etc. Non vi si trovano dei personaggi coi quali gli spettatori potrebbero identificarsi.
Questo ha un senso dal punto di vista politico, perché la maggior parte dei film sull’immigrazione, eccessivamente compassionevoli, funzionano proprio secondo questa modalità. A me pare molto importante, per contrastare le rappresentazioni dominanti, lavorare su modalità di presentazione come quella indicato prima, ma anche in termini estetici.
Cerco quindi di operare su delle monadi, con dei frammenti che entrano in discussione, in dialogo, in corrispondenza gli uni con gli altri. Elementi del passato, tracce e racconti si urtano con gli elementi del presente in una costellazione che li fa risaltare sotto una nuova luce e li restituisce in quello che sono, che erano, che avrebbero potuto essere.
Questo prende chiaramente in contropiede l’ideologia del progresso. Se a livello delle scienze umane il mito del progresso è stato fatto a pezzi, le nostre società ne sono ancora impregnate e il potere politico costruisce le proprie strategie facendovi ricorso: questa tendenza alla forclusione delle epoche, le une rispetto alle altre, nell’idea che quello che succederà domani sarà molto meglio di ieri e di oggi. Gli eventi drammatici con cui si confrontano le persone migranti oggi non sarebbero conseguenti in nessuna misura con quelli di ieri, e diventano quindi totalmente accettabili.

In che modo la formazione filosofica ha influenzato il tuo lavoro? Come ti sei avvicinato al cinema?

Ho deciso di fare cinema al termine della mia adolescenza. Ma mi ci è voluto molto tempo, una ventina d’anni, per arrivare a fare dei film, per ragioni molteplici. In questo intervallo di tempo ho avuto diverse esperienze, tra cui anche gli studi: la filosofia, le scienze politiche, le opere di Spinoza, Lucrezio, Franz Rosenzweig… Sono stato molto influenzato dall’opera di Walter Benjamin. Quando ho scoperto il suo lavoro, ho avuto l’impressione di trovarmi in un territorio conosciuto, familiare, e di poter approfondire delle questioni che mi attraversavano da lungo tempo. Le sue riflessioni sulla storia, la politica, i soggetti di cui si è occupato, ma anche la forma assunta dalla sua opera, non sistematica, non accademica, fa parte della mia costruzione intellettuale, filosofica e artistica. I film che cerco di realizzare si nutrono di questi lavori come della poesia di Rimbaud, Celan, Lautréamont, del free-jazz, del punk…

I tuoi film sono progettati e realizzati in autonomia, quali sono i rischi e i pregi? Pensi che questa possa essere una nuova via per il cinema d’autore?

Sì, come ho cercato di spiegare prima, un’immagine, benché esista per se stessa, assume senso solo a partire dal momento in cui si collega ad un’altra immagine. Un’immagine che la richiama. Dal passato, dal presente, da stratificazioni di tempo variabili e multiple. Un’immagine non è mai sola.
L’idea è quindi lavorare sul suo tenore di verità. Far risaltare, attraverso il bianco e nero o il colore, le variazioni della velocità di scorrimento, i suoni, le inquadrature, etc., gli elementi che la compongono e le significazioni che la alimentano, la conducono, la costituiscono… Si attiva dunque un gioco dialettico tra ciò che è prossimo e ciò che è lontano, tra epoche e situazioni presenti e quelle passate…

La cura formale di ogni inquadratura distanzia le tue immagini dalla patina dell’attualità per consacrare particolari momenti all’atemporalità di uomini alla ricerca. Come lavori sul difficile crinale tra composizione formale e urgenza di fermare l’attimo?

L’autonomia è parziale, perché se sono il produttore di me stesso, questo non m’impedisce di provare a trovare sovvenzioni per cercare di continuare a fare dei film. Non sono un ereditiere e non ho i mezzi per essere autosufficiente nel mio lavoro.
Questa autonomia parziale ha i suoi vantaggi/meriti nella misura in cui si è indipendenti e liberi di gestire il lavoro alla propria maniera, di sviluppare i propri progetti e realizzare i film che si desiderano. Chiaramente l’indipendenza ha un prezzo. E il prezzo di questa “autonomia parziale” risiede sia nella quantità di lavoro da portare a termine sia in un sistema economico che è fragile.

Alcuni tuoi lavori rimandano ai “ciné-tracts”, ma rispetto alla spontaneità e alla libertà delle camere negli anni Settanta sono cambiate molte cose (con l’avvento massiccio delle videocamere per strada, la tv, il cinismo crescente rispetto al valore dell’immagine filmata), come ti accosti a questa particolare forma di cinema?

Mi sono alimentato di diverse forme cinematografiche (cinema sperimentale, d’avanguardia, documentari urbani, etc.), tra le quali anche il cinema detto militante, che a volte trovo molto interessante e a volte per niente. Tra queste ultime, ritengo che la forma del “ciné-tract”, il pamphlet visuale, sia in certi casi estremamente pertinente e mi è capitato di realizzarne alcuni.
Riguardo all’avvento delle riprese dai telefoni cellulari nello spazio pubblico, penso che alcune cose siano davvero magnifiche. Sono molto sensibile a certe immagini traballanti, fragili, postate su internet nell’urgenza di testimonianza. Evidentemente, come per tutti i media, questo pone molte questioni relative all’origine delle immagini, se ci sia o meno una manipolazione, ma a volte si trovano cose davvero belle.

Con Qu’ils reposent en revolte hai ricevuto riconoscimenti in numerosi festival, grazie a un’opera che porta a compimento il tuo percorso sulle migrazioni europee e una loro possibile rappresentazione. Dopo un traguardo così importante in che direzione si sta muovendo la tua ricerca?

Come cineasta penso di essere agli inizi. Non so ancora fare niente e ho ancora tutto da scoprire, da esplorare. Amo trovarmi in questo stato di scoperta, lo stupore, l’inquietudine, la gioia. Il lavoro cinematografico è una vera fonte di felicità. L’incontro con questo medium mi ha permesso di incontrare persone molto diverse tra loro, di creare movimento, di mantenermi sui bordi, sui margini…

In L’impossible immigrazione e giovani studenti rivoltosi si incontrano in una ballata in cinque atti. È un incontro che può andare oltre i confini dell’ideale?

Le politiche migratorie sono prima di tutto politiche pubbliche, che operano mettendo in gioco ripartizioni del sensibile, e la vita comune. La tendenza del potere politico vuole separare e isolare gli immigrati contro i “nazionali”, nella stessa maniera in cui crea, perpetua e mette in contrasto tra loro le classi sociali, e persino le generazioni all’interno di una medesima classe sociale.
Per di più, chiunque nella propria vita quotidiana è attraversato dalla questione dell’immigrazione, a qualche livello. Non siamo dunque in uno spazio ideale, ma in mezzo alle realtà più crude, le più triviali, le più belle. Credo che a questo punto si debba stare all’erta, altrimenti si rischia di farsi divorare da Crono. Il mito e l’ideale sono strategie politiche sublimi per asservire i cuori e i corpi.

Torino, novembre 2011 (con la collaborazione di Tommaso Isabella e Silvia Lombardi)