Quello che amo [in Skolimowski] è il fatto che
fa continuamente la spola tra il particolare e il generale.
Descrive nello stesso tempo l’individuo e quello
che gli sta intorno, e lo fa meglio di chiunque altro.
Da Rysopis e Walkower ho molto da imparare […].
A New York la gente gli disse che i suoi film appaiono
molto francesi. Egli rispose:
“I’m sorry, I’m Polish and I never set foot in France”.

Jean-Luc Godard (1)

Che fare visto che non so fare film […] polacchi
e disperati come Skolimowski? Si, che fare?

Jean-Luc Godard (2)

Uso della metafora, ricorso sistematico al piano sequenza, recitazione in grado di permettere al contempo alterità ed identificazione, (auto)biografismo generazionale: ecco alcune delle caratteristiche più evidenti e significative dell’opera (polacca) di Jerzy Skolimowski, spesso relegato al rango di parentesi all’interno della storia del cinema, classificato come meteora nel firmamento del cosiddetto “Nuovo Cinema” degli anni Sessanta, destinato, fatalmente, all’oblio.

Jerzy Skolimowski esordisce al lungometraggio nel 1964, quando è ancora studente alla Scuola Superiore di Cinematografia di Łodz, l’istituto che dal 1947 e nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta forma le nuove leve del cinema polacco.
Nonostante le ristrettezze economiche del dopoguerra, i registi della cosiddetta prima generazione (composta da personalità già attive prima della guerra e che a quest’ultima vi avevano anche partecipato direttamente sul campo), Aleksander Ford (Fiamme su Varsavia [Ulica Graniczna], 1948) e Wanda Jakubowska (L’ultima tappa [Ostatni etap], 1948) su tutti, garantiscono al cinema nazionale continuità e mantenimento di “porzioni di mercato”, a fronte della massiccia distribuzione di film esteri.
L’esperienza del conflitto è per la Polonia più catastrofica che per gli altri Paesi europei: una doppia invasione – tedesca e russa – con decine di milioni di morti e reduci, mutilati. È evidente che i temi trattati maggiormente dal cinema postbellico siano proprio inerenti la tragedia che a partire dal settembre 1939 colpì tutta la nazione. Ma a fare da protagonisti sono anche i temi relativi alla società dell’epoca, alle questioni riguardanti la costruzione della nuova Repubblica Popolare.
I film dell’epoca hanno spesso al centro, declinato a seconda delle esigenze del soggetto trattato, il tema del patriottismo, autentico leit-motiv dominante dell’intera storia della cultura polacca, dalla letteratura alla musica, dal teatro al cinema. In un Paese segnato da continue invasioni e da un difficile cammino di unificazione nazionale, la retorica è il tratto dominante della produzione cinematografica, anche di quella della cosiddetta “seconda generazione”: si pensi all’esordio al lungometraggio di Andrzej Wajda, Generazione (Pokoleine, 1954), che ha per tema l’occupazione tedesca e la repressione (ordita dagli occupanti in collaborazione con gruppi nazionalisti polacchi) contro l’opposizione comunista.
L’immaginario nazionale – lo ripetiamo, anche quello cinematografico – considera la morte, il sacrificio della felicità personale, dei beni e dei cari, come atto dovuto, anche di fronte a situazioni già in partenza votate al fallimento: non a caso si parla spesso di “eroismo inutile” del popolo polacco, e intorno a tale tematica si è formata un’intera letteratura, si pensi al caso esemplare di Wiltold Gombrowicz.

In questo contesto cresce una nuova generazione di cineasti: Roman Polanski e Jerzy Skolimowski ne sono i due esponenti più rappresentativi. Entrambi sono nati a ridosso dell’inizio della guerra e non sono stati partecipi della costruzione della società socialista in cui vivono. Sono “irresponsabili per nascita”, per così dire, e vivono in una realtà che si sta lentamente stabilizzando, in cui ogni impulso al cambiamento è sopito da una sorta di anestetizzante sociale rappresentato dal benessere crescente.
Polanski si diploma nel 1962 e chiede a Skolimowski (iscrittosi alla Scuola di Cinema quasi per caso, su invito di Wajda, conosciuto nel 1960) di collaborare alla stesura della sceneggiatura del suo esordio al lungometraggio, Il coltello nell’acqua (Noz w wodzie). Il futuro regista di Cul de sac, ammira nel giovane collega il metodo di composizione dei dialoghi e le sue idee sul cinema. Le intuizioni più significative del film sono di Skolimowski, il quale sembra già aver chiaro in mente che cosa farà di lì a qualche anno.
In realtà, per questo enfant prodige il cinema non aveva, sino a pochi mesi prima, grande significato: “Per me, il cinema era Fanfan la Tulipe, il mio film preferito. Me ne fregavo del cinema, non ci andavo per ragioni intellettuali, ma per vedere le donne e i loro seni; era così, io scrivevo poesie e credevo che solo i poeti fossero veri artisti, non la gente di cinema” (3).
Skolimowski scrive composizioni di stampo esistenzialista (sistematicamente citate nei suoi film), sperimenta la figura retorica della metafora (che tanta fortuna avrà nel suo cinema), gareggia come boxeur (Andrzej Munk, il grande regista polacco scomparso prematuramente, l’unico che si possa definire “padre” cinematografico di Skolimowski, lo chiamò “il boxeur poeta”), segue i corsi di etnologia per poi laurearsi a Varsavia, in letteratura.
Da una personalità tanto “irregolare” non ci si può che attendere un cinema altrettanto fuori dalla norma, un cinema che lo renderà il rappresentante più significativo tra i registi polacchi degli anni Sessanta, vedendo avverata la profezia di Polanski: “Skolimowski sovrasterà la sua generazione con la testa e le spalle”.

L’alter ego dell’autore nei primi due lungometraggi del regista, Segni particolari: nessuno (Rysopis) e Walkower, 1965, è Andrzej Leszczyc, un antieroe solitario, insofferente ad ogni autorità, interpretato dallo stesso Skolimowski.
Rysopis è una confessione del protagonista, che vive un’esistenza normale, comune in tutta la sua banalità: l’amore si rivela un attimo fuggevole (l’incontro con Barbara all’Università) e la Storia un inganno (si veda l’episodio del reduce di guerra). Andrzej si muove sempre in bilico, in spazi ristretti (come quello del suo appartamento): un’esistenza sospesa, proprio come sospesa resta la dialettica dell’intero film, tra il punto di vista del personaggio e quello della società che lo circonda.
In sole ventiquattro ore Andrzej fa il bilancio della propria vita, dato che l’indomani è costretto a partire per prestare il servizio militare obbligatorio dopo aver disertato la prima chiamata. La macchina da presa lo segue senza posa nelle sue peregrinazioni in città: correre per prendere all’ultimo istante utile un tram in corsa, iscriversi ad un corso di spagnolo, incontrare una ragazza, forse innamorarsene, laurearsi in ittiologia pur non tollerando i pesci, sono scelte tra le tante, tutte posizioni assunte senza precise motivazioni e, forse proprio per questo, tutte necessarie. Quando in caserma gli domandano perché non si è presentato per prestare i tre mesi di servizio militare, risponde: “Dovevo fare ordine nella mia vita. Pensavo che non si potesse fare a meno di un’ora, figuriamoci di tre mesi”. Il sentimento che anima Andrzej è definito in modo esplicito quando un giornalista radiofonico gli chiede di rispondere alla domanda “Vorrebbe fare il cosmonauta?”. Il giovane risponde: “Sì, vorrei che capitasse qualcosa di irrevocabile, da non potersi più tirare indietro, e non che si possa poi prendere decisioni dopo il lancio… direzione, quota, velocità, destinazione. Ecco… Però non dev’essere per forza la luna. Se fossi – poniamo – un camionista, in viaggio verso lontane destinazioni, Jelenia Gora, Rzeszow, Kolobrzerg… Devo continuare? […] Ecco. Dieci e più ore di strada, mi fermo quando mi pare, ma c’è un compito. Bisogna arrivare in tempo, poi una giornata libera in una nuova città. Si passeggia. Dietro ad ogni angolo di strada c’è qualche cosa… non si conosce la città. La si scopre […]. È importante poter dare qualcosa di se stessi”. Alla replica del giornalista, “Benissimo! L’ha detto proprio bene! Ma perché non fa il camionista?”, Andrzej risponde malinconicamente: “Non so. Forse perché non so guidare”.
 
Walkower ripresenta, ampliandoli, i temi dell’esordio, ponendosi in perfetta continuità formale con il precedente, tanto da iniziare come termina il primo “capitolo”, ovvero con un mezzo su rotaia in movimento: in Rysopis un tram, qui un treno. Sono trascorsi sei anni: Andrzej ha svolto il servizio militare, ha interrotto gli studi, non ha né un lavoro né una donna. Vaga per la Polonia come uno sradicato, estraneo alla società e a se stesso. A tal proposito tornano alla mente i versi di Skolimowski che più volte nel film puntellano la sua esperienza: “L’uomo che dice: non so / perché sono qui / Finché dopo molti anni o dopo qualcosa / come la giovinezza o l’amore / con la mano alla gola vuole aggiustare tutto / e si aggiusta la cravatta”. La condizione di Andrzej è tutta condensata in questi sei versi e nella gara di boxe che conclude la pellicola: dopo aver ritirato il premio (un orologio e una radio, simboli ricorrenti in tutti i primi tre film del regista), l’avversario sconfitto ritorna nella sala completamente deserta dove è avvenuto l’incontro: chiede la sua parte, sostenendo di essere stato corrotto al fine di perdere. Andrzej si rifiuta di accettare e, in una reale sfida finale, ne esce nettamente sconfitto.
“Sono un ottimista che sa molto bene che dovrà perdere, dunque un pessimista. Evidentemente si tratta di perdere il più tardi possibile” (4), dichiara Skolimowski, la cui filosofia (e quella del suo protagonista: impossibile è infatti separare il regista dal suo alter ego filmico, nonostante Skolimowski si sia sempre sforzato di sostenere la loro alterità) è così sintetizzabile: “Se tutti fuggono il più coraggioso è quello che fugge per ultimo. O quello che ritorna” (5). In Walkower il boxeur poeta torna e perde. Ma che cosa? In fondo, ben poco: “Ho trent’anni e questa radio, il cappotto e la valigia, sono tutto quello che ho […]”, dichiarerà a fine film senza nemmeno eccessiva tristezza.

Lo stile skolimowskiano di questi due film è dominato dal ricorso al piano sequenza (“39 inquadrature in Rysopis, 29 in Walkower, ecco come, a prezzo di  tutte le prodezze tecniche, l’autore conta di cogliere con tutta la fluidità possibile l’itinerario del suo personaggio” [6]), dalla profondità di campo (“È difficile indicare [soprattutto in Walkower] anche una sola inquadratura in cui, alle spalle del protagonista, non accada qualcosa perlomeno di insolito, oltre l’ordine naturale delle cose. Andrzej è passivo e mediocre, mentre la realtà che lo circonda pare aggredirlo, colpirlo con i contrasti, con l’inopinata composizione degli oggetti, con le strutture metalliche che precipitano oltre la finestra dello studio del direttore, fragorosa annunciazione della fine del mondo, le ballerine che studiano i passi sul terrazzo del caffè; il crocifisso sradicato da terra al bivio della strada; il bizzarro vecchietto che porge al cane la torta di compleanno con le candeline” [7]), dal décadrage, dal gioco dialettico tra campo e fuori campo, dalla sistematica de-drammatizzazione (non estranea al ricorso all’ironia, memore della lezione di Munk).
A differenza di molto cinema coevo, il regista ricorre spesso a simboli, come la valigia (che sarà protagonista anche del successivo Bariera, 1966), simbolo delle eredità del passato, lo specchio (spesso rotto), gli orologi a rimandare ad un inquietante tempo morto.
Consapevole dell’importanza del suo secondo film per l’intera cinematografia dell’Est Europa (“Walkower è per i Paesi dell’Est quello che À bout de souffle è stato per il cinema occidentale”) e delle peculiarità delle soluzioni da lui adottate (“L’inizio di L’infernale Quinlan è un piano sequenza di sette minuti: fantastico. Ma io avevo l’impressione che fosse controllato troppo minuziosamente dal punto di vista tecnico. Volevo fare qualcosa di più naturale, tenere dieci minuti, ma senza avere coscienza che i muri davanti alla macchina si divaricano”), Skolimowski dimostra anche una notevole capacità di riflessione estetica sul cinema: “Giovani noi? Noi che abbiamo frequentato la Scuola di Cinema! – dichiarerà – Ma questo cinema è già vecchio, colto, troppo colto. Il cinema deve essere fatto dai ragazzini, dai bambini, prima che sappiano o credano di sapere cosa è il cinema […]”. Una netta presa di posizione (dal sapore fortemente godardiano) per quello che, non a caso, sarà definito il “Godard polacco”.

Pierrot le fou […] mi ha fatto un’enorme impressione. Questo film […] mi ha veramente consentito di allargare i miei punti di vista sul cinema. L’avevo visto senza sottotitoli e non riuscivo assolutamente a seguire la storia […]. Non ho capito […] nulla […]. Credo di aver capito molte cose senza aver compreso una sola parola e ciò mi ha talmente impressionato che ho tentato di fare Bariera un po’ nella stessa ottica” (8): così Skolimowski alla presentazione del suo terzo lungometraggio, “Un itinerario non di conoscenza, ma di visione: lo spettatore che vede i pensieri del protagonista. Un percorso come dilatazione spaziale e temporale assolutamente non lineare, falsata, non soggetta alle regole della decifrazione immediata del reale […]” (9).
Bariera è l’esperienza più simbolista della carriera del regista, profondamente distante sia dai suoi due film precedenti, sia dai i due più recenti, gli asciutti ed essenziali Quattro notti con Anna (Cztery noce z Anna, 2008) ed Essential Killing (2010).
Il protagonista non è più interpretato da Skolimowski, qui solo dietro alla macchina da presa, ma è sempre l’Andrzej delle due esperienze precedenti, alle prese, ancora una volta, con una vita fallimentare la cui sintesi è contenuta nella valigia che ha sempre con sé: “È già passata quasi metà della mia vita e tutto ciò che mi appartiene è qui dentro”, dice ad un tratto. Insofferente nei confronti dell’autorità (esemplare, in questo senso, l’inizio della pellicola, ma anche la citazione rovesciata della sequenza della carica degli Ululani contro i tank tedeschi in Lotna (1959) di Wajda: armato di sciabola, curioso dono paterno, il protagonista attacca un auto, simbolo del presunto benessere di quegli anni), sprezzante nei confronti del consumismo borghese dei tanti colleghi medici che hanno fatto carriera (“Vi incontrerete tra dieci anni per vedere chi di voi ha comprato di più e questo sarà il vostro curriculum vitae”), irriducibilmente allergico al rapporto di coppia, il protagonista si muove nello spazio abbacinante di una Polonia senza una precisa identità, in attesa di compiere quel salto (l’enorme scivolo che compare nel film, realmente esistente alla periferia di Varsavia, ne è simbolo evidente) che gli permetta di smarcarsi dal quotidiano, dal sempre identico. Il lieto fine (il rinnovato incontro con la giovane ragazza incontrata nel corso della vicenda, interpretata dalla seconda moglie di Skolimowski, Joanna Szczerbic) si dimostrerà effimero nel film successivo del regista, quel Mani in alto! (Ręce do góry, 1967), di fatto altro proseguimento delle vicende di Andrzej-Jerzy, che le autorità polacche bloccheranno, imponendo al regista la via dell’esilio all’estero.

Come ha scritto Ciment, Skolimowski è il “regista della riflessione e dell’azione […] moderno sotto ogni aspetto,  […] è anche quello dell’irrevocabile e della libertà” (10): libertà che ritroviamo, a distanza di più di quarant’anni, nei suoi film degli esordi e che possiamo rintracciare ancora oggi nelle sue sorprendenti opere più recenti.

NOTE

(1) Jean-Luc Godard, in “Parlons de ‘Pierrot’. Entretien avec Jean-Luc Godard”, Cahiers du Cinéma, 171, ottobre 1965.

(2) Jean-Luc Godard, citato in Alberto Farassino, Jean- Luc Godard, Firenze, La Nuova Italia, collana Il Castoro Cinema, 1974, p. 7.

(3) Jerzy Skolimowski, “Intervista”, Positif, 135, febbraio 1975. La traduzione, qui come altrove e salvo diversa indicazione, è nostra.

(4) Dichiarazione del regista tratta da Jean-André Fieschi, Luc Mullet, Claude Ollier, “Le vingt-et- unième”, Cahiers du Cinéma, 177, aprile 1966.

(5) Da “Intervista a Jerzy Skolimowski”, Jeune cinéma, 8, giugno-luglio 1965.

(6) Michel Ciment, “La tête et les jambes”, Positif, 77-78, luglio 1966, trad. it. “La testa e le gambe”, Ombre Rosse, 4, marzo 1968, ora anche in Jerzy Skolimowski, a cura di Małgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, Torino, Lindau, 1996, pp. 118-119.

(7) Konrad Eberhardt, “L’uomo con la valigia”, Kino, 3, marzo 1967, trad. it. in Ivi, p. 127.

(8) Jerzy Skolimowski citato Fabrizio Borin, Jerzy Skolimowski, Firenze, La Nuova Italia, collana Il Castoro Cinema, 1987, p. 7.

(9) Ivi, p. 25.

(10) Michel Ciment, “La testa e le gambe”, in Jerzy Skolimowski, a cura di Małgorzata Furdal e Roberto Turigliatto, cit., p. 120.

RYSOPSIS, regia di Jerzy Skolimowski, Polonia 1965, 90′ (Malavida)
WALKOWER, regia di Jerzy Skolimowski, Polonia 1965, 77′ (Malavida)
BARIERA, regia di Jerzy Skolimowski, Polonia 1965, 77′ (Malavida)