Charles si accascia sotto un albero, alle sue spalle un orizzonte che ostacola ogni fiducia nell’avvenire. Il nulla regna in un mondo che reclamizza il binomio gioventù e speranza. Le immagini folgoranti di Robert Bresson illuminano lo schermo del cinema, mentre nella sala un ragazzo allunga la mano per stringere quella della ragazza al suo fianco. Un istante di cinema e vita, in cui consapevolezza e desiderio si fondono in un unico stato.
È il 1977, e tutto risuona come una profezia.

La storia del cinema non è fatta di aneddoti, ma raccontare il primo incontro tra Nicolas Klotz e Elisabeth Perceval – coppia di autori fuori dal coro in un cinema parigino modaiolo e fintamente elitario – significa riportare la tensione sottesa al loro ultimo film, Low Life, presentato al 64esimo Festival del Film di Locarno. Pensato dai cineasti come un ideale seguito di Il diavolo, probabilmente, il film ci accompagna in una visione sospesa ma puntuale del mondo giovanile contemporaneo, reinventando un nuovo linguaggio in grado di far sopravvivere la forza arcaica della giovinezza, sciogliendola dalle briglie della mercificazione odierna.

Charles resuscita grazie al suo amore romantico e non corrisposto, Carmen diventa donna scegliendo di sposare una causa politica per amore, Julie traduce in parola una memoria familiare rimossa che la imprigiona in uno stato di mera rappresentazione: sono solo ragazzi che vivono nella notte lionese, scegliendo – come i vampiri – di evitare le luci del giorno dove le regole di una struttura politica imprigionano anche i loro corpi snelli e le loro esistenze in divenire. I sentimenti sembrano essere il campo in cui clandestini e giovani possono ritrovarsi in uno stato di condivisione sconosciuto a coloro che si limitano a ripetere le parole di una lingua inventata da altri, impersonale quanto lo sguardo di una telecamera di sorveglianza è capace di svuotare di ogni complessità il reale.

Low Life è un passo ulteriore nella cinematografia della coppia di registi che, nell’arco di vent’anni, si sono sforzati di gettare luce sugli ultimi della società, operando contro la rimozione che caratterizza così profondamente i soggetti e i linguaggi che dovrebbero essere propri dell’arte. Poterli incontrare, nella tranquillità concessa dall’atmosfera locarnese, è stata l’occasione per approfondire il senso della pratica cinematografica nella contemporaneità, la forza degli archetipi e i passi verso la rivoluzione.

Sappiamo che Il diavolo, probabilmente è molto importante per voi. È un film sulla disillusione: pensate che sia ancora attuale o avete cercato di farne un aggiornamento con Low Life.

Elisabeth Perceval: In Il diavolo, probabilmente la disillusione e la disperazione portano il personaggio al suicidio: è il ritratto di una gioventù abbandonata. Oggi è diverso, i giovani sono nati nella catastrofe, sanno come stanno le cose e vagano tra le rovine. Nel marciare tra queste rovine riconoscono qualcosa che appartiene alla Storia perché la giovinezza, come dice Nicolas, viene da lontano, è antica, porta con sé gesti e parole. Ritengo che se ai tempi de Il diavolo, probabilmente questa disperazione era nell’aria, oggi non è più così. I giovani non sono disperati, non si pongono più il problema di essere o meno disillusi perché hanno avuto da sempre a che fare con la disillusione, sono molto più in contatto tra loro e stanno cercando di trovare risorse impercettibili, utili a combattere la disillusione, come abbiamo raccontato in Low Life. L’amicizia, ad esempio, i modi di pensare e di sostenersi l’un l’altro. La politica non gli interessa più perché è la politica stessa a non interessarsi più a loro, li ha abbandonati. Sono coraggiosi, perché devono prendersi cura di se stessi da soli e, in ogni caso, in questo momento il vero problema è una questione di politica ma di civilizzazione, perché vivono in un mondo privo di confini: non è l’Europa, non è uno Stato ma qualcosa di globalizzato, che esiste grazie a Internet, alle loro relazioni virtuali, ai loro viaggi. È un mondo in cui i politici cercano di conservare una certa situazione ad essere scomparso. Quando decidiamo di fare un film difficilmente parliamo di qualcosa che non ci appartiene, che non viviamo in prima persona – io e Nicolas siamo due persone impegnate politicamente e crediamo nel progresso della Storia. Per un certo periodo della nostra vita abbiamo visto il mondo avanzare verso ideali di giustizia sociale, pace e uguaglianza, e siamo cresciuti dentro questa bolla, chiudendoci dentro ideali democratici e umanistici, e la cosa ci gratificava e ci intossicava allo stesso tempo – ma abbiamo due figli e abbiamo visto molti loro amici crescere a casa nostra, e mi sembra che oggi tutti questi ragazzi abbiano altre preoccupazioni, diverse da quelle che avevamo noi. Direi che cercano quasi di difendersi da esse. Ma riescono a immaginare il vero volto del mondo con più forza di quanto crediamo: tutto ciò che è scomparso, tutti i fondamenti in cui noi abbiamo profondamente creduto, loro li conoscono.

Nicolas Klotz: Lavorare a partire da un film come Il diavolo, probabilmente ci imponeva anche una certa idea di cinema che è progressivamente scomparsa, se non fosse per alcuni casi isolati, come Godard, Garrel, Costa, Apitchapong… Era un modo di interrogarsi sulla questione del cinema come artigianato, in maniera radicale, domandandosi cos’è un film e perché farlo, cosa e chi si decide di filmare. Il poter affermare che queste domande sono ancora attuali, non qualcosa che ci siamo lasciati alle spalle. Per questo abbiamo deciso di girare con una fotocamera digitale, la Canon 1D. Era una scelta forte a priori, aggiornare il film di Bresson non scegliendo la pellicola a 35mm ma utilizzando una macchina digitale.

Sappiamo che prima di girare Low Life avete fatto un lungo laboratorio con gli attori e che avete filmato il progetto…

NK: Prima di girare Low Life, la tecnologia digitale ci ha permesso di realizzare un film di un’ora e venti con gli attori del film, una sorta di laboratorio di preparazione, Zombies. Il DV ci ha concesso tempi differenti e ci siamo potuti domandare cos’è un’inquadratura, cos’è il campo-controcampo, tutte domande molto semplici ma essenziali per interrogarsi sul significato del cinema. Credo che nell’estrema semplicità prendano forma le questioni più complesse.

EP: In Zombies le voci sono interiori. In Low Life c’è una componente molto importante, direi essenziale, legata al cinema fantastico: se vogliamo immaginare un futuro per il mondo che è finito dobbiamo ricorrere agli elementi e alle strutture della magia nera, della maledizione…

NK: …e dell’incantesimo.

EP: Esatto. Tutto il lato fantastico di Low Life è legato a questo documento che porta la morte alle persone, segnandone il destino. I giovani, fantasticando, comprendono questa sorte perché vivono in un mondo totalmente maledetto e il lato diabolico del film viene trasmesso in maniera sensoriale – perché volevamo che Low Life fosse un’esperienza sensoriale che coinvolgesse i corpi, i volti, i pensieri. Come possiamo parlare oggi di rivolta utilizzando un linguaggio che è stato completamente distrutto dalla tecnica? Si dice che il massacro della Seconda guerra mondiale non sia solo quello del popolo ebraico ma di un intero linguaggio. Questi personaggi non si potevano più esprimere attraverso la lingua tecnica, quindi, ma solo ritrovando un linguaggio antico, nuove traiettorie e percorsi che li riportassero al presente con una nuova saggezza.

C’è qualcosa di molto bressoniano nel vostro cinema: ogni personaggio rappresenta un’idea. Si tratta di una scelta difficile, a rischio di didascalismo. Come avete fatto a realizzare questa costellazione di personaggi e di idee?

NK: È qualcosa di fortemente connesso alla fase di scrittura e a come lavora Elisabeth. Il fatto che le idee diventino personaggi sta alla base del film, è vero. In un film non c’è un confine netto tra la parte della scrittura e quella della messa in scena ma perché questo sia così è necessario trovare gli attori giusti, capaci di pronunciare le parole scritte da Elisabeth, e allo stesso tempo io devo aver voglia di filmarli. Talvolta sono i gesti che permettono di esprimere le idee rinunciando alla parola. Davanti a me c’è una presenza fisica che devo filmare, quasi in maniera documentaria, e io lavoro così, fotografandoli molto, osservando i loro gesti e comportamenti e quando giro il film ricerco quei gesti reali che ho visto durante la preparazione. In qualche modo è come se cercassi il documentario, la realtà dei loro gesti, e Elisabeth, lavorando sul testo e le battute che devono recitare, lavorasse sulla finzione. Davanti a noi vivono in contemporanea la persona e il personaggio e, al montaggio, ciò crea dei problemi perché devo scegliere quando lasciare Camille e far entrare Carmen, il suo personaggio, quando lasciare Luc e cercare Charles, perché uno non può esistere senza l’altro. Il personaggio si incarna nella persona e talvolta il personaggio sparisce a furia di ripetere le scene, perché gli attori hanno lavorato talmente tanto sul testo con Elisabeth che ne hanno assimilato la realtà.

EP: Quando lavoro con gli attori sono attenta a capire quanto credono a quello che stanno ripetendo e mi fermo quando mi rendo conto che non è così. Nel momento in cui non credono a quello che dicono e forse non lo comprendono, allora ci potrà soltanto essere la recitazione, per quanto buona, e non l’interiorità. Allora la presenza documentaria della persona sparisce, trasformandosi nella rappresentazione di qualcosa. Tutto il lavoro che facciamo con gli attori serve unicamente a far apparire la persona. Mi è capitato più volte di incontrare attori che offrivano un’ottima recitazione ma priva di interiorizzazione e siccome viviamo quotidianamente nel regime della rappresentazione li lascio andare dicendo che si tratta di qualcosa che vedo già a sufficienza in televisione. Ho scritto cose in cui credo profondamente e voglio che l’attore creda in quelle parole: preferisco un attore fragile e limitato ma che possieda un’interiorità capace di comunicare allo spettatore, perché se manca questa comunicazione profonda non c’è nemmeno il film.
Abbiamo vissuto insieme agli attori di Low Life per due anni prima di girare il film, si sono conosciuti, incontrati e toccati, e poi hanno concesso se stessi al film. La parola fa lo stesso percorso: loro mi hanno chiesto “come facciamo a dire queste cose?” e io ho risposto che si trattava di una preghiera, che quando si crede ci si abbandona. Non c’è un Dio a cui rivolgere le proprie preghiere, oggi, ma rimane un pubblico a cui indirizzare la propria fede.

Il film è ricco di citazioni e riferimenti letterari. In Low Life, come anche nel vostro film precedente, La question humaine, risuonano temi che ricordano I demoni di Dostoevskij. Avete mai pensato di adattarlo?

NK: Non ho mai letto I demoni

EP: Mi sono ispirata soprattutto a L’idiota, ma più in generale mi guida la maniera in cui Dostoevskij crea i suoi personaggi. Nonostante quello che ha detto Nicolas su quest’argomento penso sempre che i miei personaggi mi sfuggano, che non posso controllarli completamente. Quando leggo Dostoevskij ho sempre la sensazione che i personaggi intraprendano percorsi che lui non aveva previsto. E questo significa credere ai personaggi come si crede alla parola. È necessario rinunciare a padroneggiarli: quando iniziamo a delineare una psicologia troppo chiusa del personaggio e pensiamo di conoscere ogni loro pensiero allora lo priviamo di una vita propria. Non mi interessa sostituirmi al personaggio, quando scrivo. Io e Nicolas preferiamo che siano loro a insegnarci qualcosa.  Credo che la follia che domina l’opera di Dostoevskji e rende estremamente lucidi i suoi personaggi sia uno degli elementi che mi interessa di più del suo lavoro. Mi piace considerarlo un amico, alla stessa stregua di Balzac. C’è sempre molto di Balzac nelle mie sceneggiature. Quando scegliamo gli attori più adatti per i personaggi regalo loro molti dei testi classici che mi hanno ispirato nella scrittura, quelli di Dostoevskij, Balzac, Hölderlin… Mi piace leggere insieme a loro alcuni passaggi dei libri e sentire quelle parole riportate all’oggi dalla loro voce. Allora mi rendo conto che non c’è più bisogno che queste parole ci siano, nella sceneggiatura, perché gli attori le hanno fatte proprie e si sono nutriti di esse.

In conferenza stampa ha detto che il suo lavoro di messa in scena è simile a quello di un pittore: ha a che fare con la maniera in cui tratta la superficie delle immagini?

NK: Sono profondamente consapevole del fatto che il cinema è un’arte a due dimensioni e ritengo che un’inquadratura non debba riflettere ciò che vediamo normalmente. Il cinema avrà sempre una dimensione in meno e questo lo rende più vicino alla pittura che non alla realtà. Lo schermo è materia ed è una cosa che ho sentito ancora di più utilizzando la macchina digitale. Per la prima volta il colore è nell’aria, un sentimento che si scrive sulla superficie, su un volto o su un corpo. E il gesto di un cineasta, con questa strumentazione leggera, può essere molto simile a quello di un pittore.

EP: Il cinema ci spinge costantemente verso questa dimensione che non c’è, grazie al movimento e al montaggio. La terza dimensione può essere presente solo nella sua assenza e lo spettatore lo percepisce continuamente. La magia del cinema è la tensione costante verso questa dimensione assente e continuamente ricostruita.

NK: Questo ha a che fare anche con il rapporto con gli attori. Per Low Life ho fatto diversi ritratti ai ragazzi, realizzandoli in maniera molto professionale con le polaroid, con la camera a chambre, e con una Holga dai tempi di esposizione prolungati, lavorando con loro in situazioni diverse, dal ritratto istantaneo fino a quelli che richiedevano un tempo di esposizione lungo, in cui erano costretti a rimanere immobili. Mi piace farlo per osservarli attentamente, perché nell’attesa il loro sguardo cambia. Questo lavoro quotidiano con gli attori mi permette di compiere un parallelismo con l’opera di un pittore, perché il modello sa in che posa deve mettersi e il pittore sa in che modo cambieranno le espressioni del modello, e solo così è in grado di trovare il giusto colore. Quando arriva il momento di girare, quindi, sono pronto a cogliere quegli istanti di verità e intimità, e ci interessa fino a un certo punto se hanno detto tutte le battute che dovevano dire… Sono momenti di svelamento dell’essere nel tempo ed è in questo modo che appaiono i colori in un film.

EP: Nicolas è davvero un pittore. Non ha detto che le prime foto che fa sono sempre in bianco e nero e il colore arriva solo in un secondo momento, di solito al primo giorno di riprese. Nelle sceneggiature che scrivo do molto colore ai personaggi e cerco di attenuarlo nel lavoro insieme agli attori; Nicolas fa il contrario, fotografa in bianco e nero su sfondi bianchi o neri, senza accessori e con gli attori non truccati e tutto ciò dura circa un anno. Regolarmente, a un certo punto, il volto degli attori porta le tracce di questo lavoro. E il primo giorno di riprese mette i colori… Anche se non fa che ripetermi “il prossimo film sarà tutto in bianco e nero…”. Poco prima delle riprese guarda i libri sui pittori osserva i loro quadri e decide di che tipo devono essere il rosso o il blu, e a quel punto decide di girare a colori.

Nel film si utilizza anche il linguaggio delle videocamere di sorveglianza. Molti videoartisti contemporanei si occupano di smontare questo tipo di linguaggio. Non pensate che il cinema debba cercare un linguaggio diverso e quali ritenete siano le vie d’uscita da questa schiavitù dell’immagine?

NK: Nel commissariato, alla fine del film, si vede uno schermo composto dalle immagini di otto videocamere di sorveglianza. Volevamo descrivere la polizia come impresa privata, liberale e capitalista, dall’aspetto molto chic, rappresentata da una donna bella ed elegante. Pensiamo che quella donna incarni il desiderio di molte ragazze d’oggi: attraente, ricca e socialmente stabile; ben poche desidererebbero essere come Carmen, innamorata di uno straniero e in balia del destino, ma il mondo è sospeso tra queste due visioni: l’avvenire incerto di Carmen e lo stato di polizia. La polizia oggi è diventata talmente chic che il sindaco di Nizza, la città francese con più videocamere di sorveglianza, in una foto scattata da un famoso fotografo, sta di fronte proprio a quello schermo che abbiamo ripreso nel film. Come se il sindaco avesse pagato un artista contemporaneo per creare tale coreografia.

EP: La cosa più terribile è che se si guardano questi schermi alle sue spalle, ritraggono una città deserta. Lui è fiero di una città senza vita, senza esseri umani. Non sappiamo se queste videocamere sono state poste in luoghi dove non c’era niente da sorvegliare o sono state loro a far scappare la gente. L’impressione è che sorveglino il nulla, comunque.

NK: C’è uno spazio molto ambiguo in cui si situa l’arte contemporanea. Quando Godard, da Histoire(s) du cinema fino a Notre musique, parla della morte del cinema affronta la questione andando fino in fondo. Film socialisme, per me, rappresenta una nuova nascita nella storia del cinema e, dopo averlo visto a Cannes, sono uscito proprio con questa sensazione e l’ho trattenuta in me mentre giravo Low Life, scegliendo di girare in digitale e non in pellicola. Abbiamo vissuto la morte del cinema rivendicando il cinema di Tourneur, Fritz Lang, John Ford, Godard, Bresson, Garrel, ciascuno a un livello diverso, ma oggi penso che il cinema abbia una forza superiore a quella delle arti plastiche e figurative. Se, però, non accetterà prima di essere morto e non comprenderà che cosa è morto con esso continuerà soltanto a reiterare i propri feticci. Finché non accetterà la propria morte resterà legato unicamente alla nostalgia di quello che è stato. Solo superando questa nostalgia sopravviverà alla morte del cinema. A differenza di un provocatore vero come Godard, molti artisti visivi si limitano alla semplice provocazione. Questo succede perché non c’è più una dialettica tra artista e oggetto, e ciò significa di per sé creare oggetti d’arte morti. La domanda riguardo la morte del cinema passa attraverso la relazione che ha oggi il cinema con la propria industria. Per alcuni realizzare film secondo le regole dell’industria è impossibile – come Pedro Costa, che fa film magnifici con una troupe ridotta al minimo, e solo così riesce a mantenere la propria integrità. Noi non vorremmo mai che la morte del cinema portasse ai film visti nelle sale dei musei ma sarebbe bello riuscire a ritornare in un altro modo nelle sale e che le sale possano diventare mutanti, scoprendo come utilizzare internet e la rete. Gli artisti non conoscono la realtà dell’industria cinematografica: hanno a disposizione molti soldi per fare cose davvero piccole. Al contrario, chi lavora ai margini dell’industria del cinema ha pochi mezzi a disposizione ma riesce ancora a fare grandi cose.

EP: Come dice Shakespeare, “il denaro è il Dio reso visibile”.

NK: Non è Bresson?

EP: No, l’ha presa da Shakespeare. Se sei un’artista prendere una frase da qualcuno vissuto nel passato significa ridonagli vita, come ha fatto Bresson con L’argent.

NK: In qualche modo anche noi abbiamo risposto alla Frontiera dell’alba di Garrel quando uno dei personaggi dice “Noi siamo il popolo che dorme, e il popolo che fa la storia è molto più numeroso di noi”. La scena di Low Life con i ragazzi che dormono tutti insieme è una risposta a quel film. E la risposta è: “noi siamo il popolo che sogna e oggi bisogna avere il coraggio di credere a questi sogni”.

In un’intervista pubblicata durante la lavorazione del film avete dichiarato che si trattava di “un’opera su una gioventù che ha avuto in eredità un mondo sotto incantesimo”. Chi ha lanciato questo incantesimo? Nel film non vediamo gli adulti. Dove sono e quali sono le loro responsabilità?

NK: L’incantesimo ha a che fare con la civilizzazione e viene da molto lontano, direi dall’inizio dell’epoca industriale. La Rivoluzione francese ha posto domande che sono vere ancora oggi e la tecnologia ha raggiunto un livello talmente alto di controllo dei corpi che siamo saturati e ciascuno deve pensare a come scongiurare questo incantesimo. Non riguarda gli adulti, i genitori ma è un fatto che riguarda la civilizzazione stessa…

EP: È il sistema capitalistico, la velocità del lavoro, il consumismo. Tutto è volto al consumismo, dominato dal mercato, è una cultura che ci ha spinto a creare dei falsi bisogni mentre le vere necessità sono dimenticate, allontanate. Non siamo più in un mondo che si sviluppa in modo orizzontale ma nel in quello virtuale dell’economia.

NK: La colonizzazione è una potenza che arriva in un posto e proclama: tutto il vostro immaginario non esiste più, ora esiste solo il nostro. Ed è questo l’incantesimo: cancellare un immaginario, dei corpi, dei volti, dei rituali, la vita stessa. È più facile vederlo nel caso estremo della colonizzazione ma con il capitalismo è successa la stessa cosa. C’è una visione del mondo dominante che ha distrutto tutte le altre… Tale sistema di cose va a scapito della vita interiore. Nessuno è più interessato al fatto che tu sia innamorato, i sentimenti sono diventati intercambiabili, e sorprende la noncuranza con cui veniamo a sapere che i ghiacciai si stanno sciogliendo, le foreste stanno sparendo e alcune specie animali si stanno estinguendo. L’essere sotto incantesimo ci spinge a pensare che le colpe siano sempre di qualcuno, dei russi, dei cinesi, dei poveri, e non che siano riferibili al sistema in cui viviamo. È un sistema diabolico, molto più difficile resistergli che accettarlo. Possiamo farci delle domande sul perché il cinema d’autore sia sparito e quale sia il senso di questa scomparsa… chi vuole che il cinema d’autore sparisca? E perché oggi non può più esistere la filosofia, come dichiara Jean-Luc Nancy?

EP: Abbiamo incontrato Nancy mentre lavoravamo al film. Avevo letto Verità e democrazia e Nancy ci ha accolto da lui per tre giorni: ho potuto fargli le mie domande e Nicolas ci ha filmato nel corso dell’incontro e alla fine abbiamo parlato di tantissime cose, non solo in relazione alle mie piccole domande… L’incontro mi ha aiutato a scrivere il film, mi ha dato una grande fiducia. Nancy è una persona che dà risposte stupefacenti anche a domande semplici, talvolta stupide. Penso che questo abbia a che fare con la fiducia, con l’essere pronti a scoprire e comprendere l’altro che è di fronte a noi.

Punto nevralgico di Low Life è la rivolta. L’unico modo che hanno i giovani per sopravvivere è amare, ma l’unica conseguenza efficace del film è ottenuta grazie dalla lettera vudù, che semina la morte. Perché?

EP (ride): Se non ci fosse il sentimento amoroso non ci sarebbe più nulla, neppure la magia nera. Non riesco a rispondere a questa domanda perché il nostro gesto di fare cinema viene dall’amore… forse è questa la risposta?

NK: Sì, in effetti nel film si dice che l’amore è la sola forma della sopravvivenza ma per battersi bisogna usare la magia nera. Elisabeth crede fortemente che non si possa essere impegnati politicamente se non si ha un legame amoroso. Il sentimento amoroso è essenziale per la politica e se viene a mancare non ci sarà più nemmeno la politica. Penso che Charles (personaggio che transita da Il diavolo, probabilmente a Low Life, ndr) si ridesti dalla sua tomba per amore, è chiamato più volte “combattente d’amore”. Lo dice lui stesso: “sono morto, sono rinato e ora sono qui” per Carmen, per una persona, non ha alcun desiderio di cambiare il mondo. Lui è mosso da quest’amore, perché per sopravvivere bisogna amare una persona. La magia nera è invece un mezzo di affrancamento politico: la vendetta degli immigrati è la loro magia. Mi piace l’idea di un film fantastico in cui il mondo della politica è scomparso, in cui i politici hanno lasciato gli immigrati a occuparsi di se stessi, e anche i giovani possono occuparsi di loro stessi. La vendetta dei giovani è l’amore, quella degli immigrati è la guerra civile, una guerra vudù nella quale si riappriopriano dei documenti che sanciscono il loro stato di negazione servendosi del proprio immaginario. Il vudù è sempre stato il modo in cui la popolazione esorcizzava la presenza del colonizzatore, come succede in Ho camminato con uno zombie di Tourneur. Ancora una volta si torna a parlare di questioni antiche: come la giovinezza possiede la forza dell’amore e dell’impegno, l’immigrato ha quella di produrre effetti unici nel mondo visibile. La cosa particolare è che la magia nera è anche la polizia: sono loro che creano il documento che porta la maledizione, l’unica cosa che fanno gli immigrati è renderglielo, come in La notte del demonio di Tourneur, in cui è colui a cui si rende il documento a ricevere la maledizione. Nel nostro film è ciò che accade alla polizia che ha emesso il documento: quando il foglio torna nelle loro mani “riconsegna” la morte. È un altro modo di affrontare la politica, non in termini strettamente marxisti, perché ormai la lingua della politica ha fatto il suo tempo e non riesce più a farsi ascoltare. C’è un libro di Derrida, Spettri di Marx, che ci ha fatto molto riflettere, il filosofo riprende una frase di Marx “…uno spettro si aggira per Europa, lo spettro del comunismo”. Noi diciamo “lo spettro del fascismo” ed è difficile inventarsi dei modi di combatterlo, noi – che siamo impegnati in questa lotta – pensiamo che possa esserlo l’amore, ma trovare delle risposte politiche è ancora difficile…

Sia ne La question humaine che in Low Life si ritorna alla Shoah e alla Francia collaborazionista. L’Europa sotto assedio che descrivete nel film per voi è una figlia dimentica, incapace di elaborare quel periodo storico?

EP: Durante la Seconda guerra mondiale l’Europa si è unita, ha collaborato a una strage contro gli ebrei. Stiamo vivendo un momento simile anche adesso: l’Europa si sta trasformando in una grande fortezza che lascia al suo esterno non solo gli immigrati, ma tutti i poveri. E tanti altri Paesi stanno facendo così: pensano di poter dividere l’umanità e nasconderne la parte meno efficiente. Una collaborazione ha luogo tutt’oggi, anche se non più così sfacciata perché ha preso le sembianze di piani di spostamento, di leggi regolatrici, ma in fondo ci porta lo stesso ad armarci contro le orde di poveri, presentati come fossero non-umani. Tutte le leggi che erano state fatte in seguito alla strage ebraica per tutelare i rifugiati politici e gli ultimi sono state poco a poco smantellate, e ora esistono soltanto nelle bolle democratiche e pacifiste delle nostre teste.
Tra le due epoche sentiamo una risonanza, anche se veniamo accusati per questo e in troppi preferiscono non aprire gli occhi sulla situazione, con la scusa che dobbiamo proteggerci come se ad essere pericolosi fossero i clandestini e non invece i grandi complessi bancari. L’Europa è sorda.

NK: Hanna Arendt si interrogava sul possibilità che dopo Auschwitz potesse succedere tutto di nuovo. È un interrogativo troppo profondo per lasciarlo cadere. È possibile che quanto è accaduto a Auschwitz si ripresenti sotto un’altra forma nell’avvenire? La generazione a cui appartiene Lanzmann, quella di coloro che sono stati capaci di denunciare, dà un grande spazio all’America, come  Paese liberatore. Hanno detto ciò che potevano dire ma ora c’è bisogno di gente più giovane che si interroghi su questi temi, come sta facendo Agamben, perché se ne sente una grande necessità, in un’Europa dalla destra globalizzata. Ho vissuto uno strano passaggio: pensavo che la civiltà si stesse allontanando da Auschwitz e invece a un certo punto ci siamo ritrovati in un mondo che sta andando verso Auschwitz. Quando è successo? E oggi siamo in uno stato di guerra civile tra chi la pensa così e chi non si accorge di quello che sta succedendo.

Più volte ritorna questa idea della resistenza civile. Secondo voi in quali forme si incarna oggi nella società? E quale è l’atto di resistenza che un filmmaker oggi dovrebbe compiere?

NK (ride): Mi è più facile rispondere alla seconda domanda…

EP: La prima forma di resistenza che viene mostrata in Low Life riguarda il vivere insieme, collettivamente, così ciò che succede a uno – fosse anche dall’altra parte del mondo – riguarda tutti noi. È finita l’era molto individualista dove la libertà riguarda il singolo: io sono un individuo con tutte le mie particolarità ma vivo collettivamente con gli altri, con gli animali, con le montagne, con le foreste e i ghiacciai. Senza per forza arrivare alla Bibbia, ma in modo molto semplice e concreto. Credo fortemente che la resistenza inizi dal pensiero, dalla percezione dell’altro. La resistenza dovrebbe essere la vita che circola tra noi, i nostri scambi: un libro, un pensiero, un sentimento… Perché tutto il sistema economico funziona all’inverso.

NK: Le forme di resistenza si cristallizzano all’improvviso, in maniera imprevista. Molti giovani, oggi, compiono atti di resistenza, e sono sempre di più. Ma è anche vero che l’onda della rivolta si incrina quando ci si avvicina ai quarant’anni, e non sempre ci si sono aperte forme di vita diverse.
Credo che sia molto importante descrivere l’epoca nella quale si vive, nelle ingiustizie sociali e nelle sfumature linguistiche che le sono proprie (ricordiamoci che si può avvertire il nazismo anche solo per come ha modificato la lingua tedesca). Il cinema, se interpretato in questa accezione, è un gesto rivoluzionario, teso a riportare le trasformazioni della storia.

EP: Comunque credo che oggi sia ancora essenziale un intervento concreto nella società: associazioni come ESF, “Educazione Senza Frontiere”, si batte per trovare famiglie di accoglienza e dare un futuro a ragazzi meno fortunati dei nostri figli. Crediamo ci sia ancora un popolo, pronto ad accogliere e a dare speranza, che non funziona con modalità troppo dissimili dalla Resistenza. C’è ancora chi, per credo politico o per urgenza personale, sceglie di difendere i poveri, i disoccupati, gli stranieri, chi ama incontrare i ragazzi per parlare di una democrazia che sembra malata… Nel concreto la rivoluzione si sta facendo, ma viene tutta dall’aver coltivato un pensiero diverso, capace di valorizzare l’incontro con l’altro.

Il vostro film ci parla evidentemente del presente, ma sembra venire dal futuro. Sappiamo che state scrivendo un film fantastico sulla rivoluzione francese, potete parlarcene?

NK: Sto preparando un film fantastico, Ceremony, che sarà una produzione franco-catalana girata in digitale in bianco e nero. Il progetto è bipartito: una parte sulla Rivoluzione francese e la seconda ambientata oggi. Ma la distanza tra le due epoche non è poi molta… Sarà un film ironico, basato su un romanzo di Faulkner, Foglie rosse. È un film a basso budget ed è il primo che scrivo senza Elisabeth…

EP: Poi stiamo lavorando a un grande film con attori sulle idee rivoluzionarie portate a Haiti dai neri… Chissà! Ormai ci siamo abituati a lavorare con piccoli budget, per Low Life avevamo un milione e quattrocentomila euro: non siamo molto integrati nel sistema cinema francese… Ma forse anche questo è un modo di fare resistenza.

Locarno, Agosto 2011