Li chiama talvolta film, talvolta glances, i cortometraggi che Ugo Nespolo ha realizzato a partire dal 1966, autoproducendo una ricchissima mole di materiale che è difficile catalogare: avanguardia, autoritratto, documento di un’epoca e di un mondo, riflessione sulla propria arte e sul cinema. Da La galante avventura del cavaliere dal lieto volto a Campari150, quarant’anni di cinema di Ugo Nespolo sono ora riassunti in quindici film scelti personalmente dall’autore: questa l’ultima novità in dvd pubblicata da Raro Video all’interno della collana Interferenze, lo spazio che raccoglie il meglio della sperimentazione audiovisiva mondiale, dall’animazione al cinema d’artista, dalla videoarte nostrana agli esperimenti tra film e letteratura. Un prezioso cofanetto dal titolo Film and Visions che attraverso i più importanti lavori dell’artista piemontese fornisce un’approfondita testimonianza del fenomeno della neoavanguardia degli anni Sessanta, raccontando il personalissimo percorso di un artista che ha saputo fare di questa continua contaminazione fra cinema e arte una sua costante.
Incontriamo Nespolo nel suo grande studio di Torino, uno spazio a metà tra un museo e un ambiente di lavoro, mostrato a sprazzi anche nei contenuti speciali del dvd, che propongono la presentazione dell’autore all’inizio di ogni film proposto.

Sarai contento della pubblicazione di questo cofanetto, in una sezione di Raro Video che comprende antologie di artisti importanti come Warhol, Rybczyński, Švankmajer, Viola…

Naturalmente sono molto contento perché sono circondato da nomi illustri, ma anche e soprattutto perché mi sembra un’operazione utile nei confronti di chi desidera approfondire la conoscenza del cosiddetto cinema sperimentale italiano, che come tutti sanno è quasi completamente andato perduto. In questi anni si è cercato, soprattutto grazie all’appoggio di Steve Della Casa, di organizzare alcuni incontri e di riunire tutti i filmmakers dell’epoca, ma sono in pochissimi oggi ad aver conservato il materiale girato in quegli anni. Nella maggior parte dei casi non è rimasto più niente, e c’è anche qualcuno che non si ricorda nemmeno più di averli girati, certi film! L’intenzione è stata quindi quella di incominciare a raccogliere questo materiale, che è in molti casi la testimonianza di un’epoca e di un’attitudine oggi lontane nel tempo ma non nello spirito, almeno per quanto mi riguarda.

I corti che hai scelto per questa raccolta sono inoltre praticamente inediti, perché se non sbaglio tu non li hai mai commercializzati… come mai?

Non ho mai voluto commercializzarli perché ho sempre pensato che il cinema sperimentale sia nato e morto proprio perché non aveva dentro di sé una volontà economica, né poteva averla. Il mio lavoro come artista mi ha sempre consentito di  vivere, mentre quello di “regista sperimentale” no… è come se avessi voluto quindi perpetuare questa specie di purezza intorno a un fenomeno che nasceva soprattutto come mezzo di ricerca . Credo che comunque tutti noi lo facessimo disinteressatamente. Cosa che non valeva ad esempio per Warhol e Morrissey, che insieme hanno girato dei film pensati anche per incassare.

Con quali criteri hai scelto questi quindici film?

Non li ho scelti da solo, ma insieme a Bruno Di Marino, che è anche il curatore della sezione “Interferenze” in cui la mia raccolta è contenuta. Abbiamo voluto creare un panorama del cinema sperimentale, selezionando sia film della “prima ora” sia film realizzati molto più avanti. Inoltre abbiamo tentato di mescolare anche un po’ i generi. Questo per sottolineare che l’artista non deve essere per forza uno che segue sempre la stessa linea, un Sisifo obbligato a portare sempre la stessa pietra, ma anche uno sperimentatore che sa intraprendere strade diverse, evitando di lasciarsi influenzare da quella che è la sua stessa esperienza.  In tal senso è significativo che abbia inserito in mezzo ai corti anche quello dedicato alla Campari. Io non mi sono mai vergognato di fare pubblicità. E molti altri grandi artisti – pensiamo solo a Fellini – hanno fatto lo stesso. Passare attraverso le cosiddette pratiche basse (che poi basse non sono) è un modo per fare circolare l’arte, anche se questo è un concetto che fa inorridire i puristi…

Tornando a parlare degli inizi, cosa significava nella seconda metà degli anni Sessanta per un artista che come te si stava affermando, iniziare a lavorare con il cinema? Era una carriera parallela o parte integrante del tuo percorso artistico?

Il cinema e l’arte per me sono sempre stati la stessa cosa, parte dello stesso percorso. Prima di cimentarmi con la macchina da presa avevo visto i film di Warhol e quelli degli artisti della New York Film-Makers’ Cooperative, che usavano la cinepresa come un pennello per creare delle opere d’arte. Non ho quindi mai pensato di separare le due discipline, che per me si compenetravano e si completavano: lo dimostra il fatto che i miei film sono spesso abbinati alle mie mostre, talvolta per iniziativa degli organizzatori, altre volte perché sono io a chiedere di includerli. Non mi stupisce che altri filmmakers non abbiano avuto fortuna: non avendo la possibilità di associare i loro film ad altre iniziative che li completassero hanno resistito finché ci sono stati quei due o tre festival che proiettavano i loro lavori.

Credi che l’Italia dovrebbe occupare un posto di rilievo nella storia del cinema d’avanguardia?

Si tratterebbe di rifare un bilancio nazionale. Mi pare però che nessuna nazione dovrebbe occupare un posto più importante delle altre nella storia di questo tipo di cinema. Anche se è vero che in America lavoravano artisti del calibro di Yoko Ono e Andy Warhol credo che il successo di questo fenomeno negli Stati Uniti rispetto ad altri paesi non sia dipeso tanto dalla prolificità degli artisti quanto da come esso si è diffuso. La Film-Makers’ Cooperative funzionava perché distribuiva le sue opere nei campus americani, e gli studenti c’erano, seguivano. Da noi non si è mai verificata una cosa del genere. Il cinema d’avanguardia va dunque secondo me analizzato nella sua dimensione mondiale, cercando di avere uno sguardo d’insieme. Allora sì che diventa interessante. I musei del cinema dovrebbero conservare e riproporre questi materiali, che sono un pezzo importante della storia del cinema.

Come si preparava un tuo film?

Non c’era una regola. È sempre dipeso dal singolo film. Con i primi ad esempio andavo in giro con la mia cinepresa e aspettavo di vedere cosa succedeva. Con la 16mm invece le cose da riprendere le pianificavo di più, anche se ad esempio in Buongiorno Michelangelo l’improvvisazione ha poi preso il sopravvento. Con Un Supermaschio è stato ancora diverso, perché ho sentito il bisogno di una sceneggiatura precisa e di conseguenza l’intero film ha avuto un impianto più professionale. Anche Con-certo rituale aveva una struttura più organizzata; devo ammettere comunque che ho sempre amato improvvisare, scegliere sul momento cosa fare con la macchina da presa proprio perché da libero mi divertivo di più e forse ero anche più creativo.

Tra tutti questi film, quello che ha la storia produttiva più interessante è forse Le porte girevoli, ce la racconti?

Le porte girevoli è curioso perché il testo me lo diede Man Ray. Io andavo sempre a trovarlo a Parigi insieme a Enrico Baj e spesso capitava di parlare di cinema. Un giorno mi diede un foglietto con il soggetto di questo film e mi chiese di girarlo. Misi mano anche alla sceneggiatura e in quell’occasione costruii, insieme a una piccola troupe, un vero e proprio set che si montava e smontava a seconda delle location. Ricordo che girammo con una Éclair 16, che era già una discreta macchina…

Da spettatore quali sono i film che ami di più e quelli che invece hanno ispirato il tuo lavoro?

Premetto che a me il cinema piace tutto, ma dovendo scegliere la mia preferenza va subito a John Cassavetes. Mi piace il suo cinema perché pur essendo narrativo riesce a conservare anche un certo margine di sperimentalismo, cosa che c’è anche ad esempio in Polansky, che pur facendo talvolta opere più patinate è un autore che mi affascina molto e che non ha quasi mai sbagliato un film. Un altro regista che non mi delude mai è De Palma, che ho conosciuto e che ho persino visto girare in occasione dei film Complesso di colpa (nel quale – in pochi lo sanno – faccio anche un’apparizione!), Vestito per uccidere e Blow Out. Quello è, devo dire, un cinema davvero professionale, in cui si è portati quasi naturalmente a esprimersi in maniera spettacolare.  E poi c’è la Nouvelle Vague, Truffaut con i suoi film a misura d’uomo e quella maniera così intima e confidenziale di raccontare. Lo adoro.
Per quanto riguarda invece i film e gli autori che mi hanno influenzato… posso dire che se a livello inconscio non l’hanno fatto quelli che ho appena citato, non ho avuto dei modelli. Ho sempre fatto quello che desideravo vivendo il momento della creazione cinematografica con molta creatività e libertà.

Tutti i film che hai girato sono molto brevi, ma sappiamo che da tempo hai nel cassetto l’idea di un lungometraggio…

Sì, ho da parecchio tempo questo progetto, ma mi rendo conto che ci vuole molta pazienza per realizzarlo seriamente. Saprei farlo, avrei forse anche le conoscenze giuste, ma mi manca la concentrazione. Creare le condizioni per fare un buon prodotto non è facile e soprattutto bisogna buttarsi a capofitto solo in quella cosa lì. Lasciare tutto il resto e credere per uno o due mesi solo ed esclusivamente in quello che stai facendo con la macchina da presa. Io a fare una cosa sola non ci sono mai riuscito in tutta la mia vita, quindi sarebbe molto dura trovare un compromesso. Comunque se mai mi venisse davvero voglia di dedicarmi a questo progetto, mi piacerebbe girare un thriller, un giallo dai risvolti divertenti che sapesse indagare con pungente ironia certe realtà paradossali della nostra società e del mercato dell’arte…

E di pochi giorni fa la notizia che sei stato nominato Presidente del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Come pensi di conciliare la tua anima di artista con quella più istituzionale del dirigente?

Il presidente del Museo del Cinema deve essere un artista, perché la fantasia serve anche in quell’ambito! Scherzi a parte, è un po’ da rivedere l’idea dell’artista come sognatore puro, che crea le sue opere nel chiuso della suo studio, distante dal mondo e dalla vita quotidiana. Per me il vero artista deve essere anche manager di se stesso. Te lo dimostrano Andy Warhol, Pablo Picasso, Jeff Koons. Oggi se vuoi fare un lavoro di questo tipo e non hai le doti manageriali non ce la puoi più fare… quindi non vedo affatto un conflitto fra la mia attività d’artista e quella di Presidente, anzi. Nella mia vita mi hanno proposto di fare diverse cose, e molte per varie ragioni – non ultimo il poco interesse – le ho scartate. Se oggi ho accettato questa carica è perché ci credo davvero e mi sembra un ruolo adatto me. E poi c’è da dire che  il lavoro più grosso lo fa il direttore!

Torino, ottobre 2011


FILMS & VISIONS, regia di Ugo Nespolo, Italia 1966-2010, 136′ (Rarovideo)