Prendete due coppie, due uomini e due donne. Chiudeteli in un appartamento e aspettate: qualcosa succederà. Sotto il microscopio dell’entomologo Polanski, i quattro individui si lasceranno lentamente scivolare di dosso i panni della Civiltà (Occidentale?) per rivelare il demone, o meglio il dio, della carneficina, cui ogni essere umano è segretamente devoto. Lo spunto è dei più banali: due coppie di genitori, i Longstreet e i Cowan, decidono di risolvere “fra adulti” la lite che ha coinvolto i rispettivi pargoli. Ma forse è solo un pretesto. Forse c’è il bisogno profondo di sfogare i propri impulsi (auto)distruttivi, le proprie idiosincrasie (il conato di vomito della Winslet/donna in carriera sui libri d’arte della Foster/scrittrice liberal non è solo cattiva digestione), le proprie frustrazioni coniugali. Come in una sorta di balletto, le coppie partono compatte (i genitori del bimbo offeso contro quelli dell’offensore), si scompongono (mariti contro mogli) e si ricompongono (ma per quanto?) nel finale. “È stata la peggiore giornata della mia vita”, sospirano a turno almeno tre dei personaggi. Spazzate via le distinzioni di classe e di sesso. Nessuna differenza fra vittime e carnefici. Nessuna autentica catarsi, nemmeno quella comico-grandguignolesca che chiudeva nel 1966 Cul de Sac. Solo un esausto, sconsolato silenzio, rotto solamente dalle vibrazioni  di un telefono cellulare.

Sia detto a scanso di equivoci: Carnage non è una “prova d’autore”, ma solo la brillante messa in immagini di una piece di grande successo (Le dieu du carnage di Yasmina Reza, che ha collaborato alla sceneggiatura), nella quale sicuramente Polanski ha trovato atmosfere a lui congeniali, dopo un decennio un po’ appannato (con la parziale esclusione dell’hitchcockiano Ghost Writer, tanto il didattico Pianista quanto l’illustrativo Oliver Twist non erano certo all’altezza). E se il testo non è freschissimo (più d’uno ha rintracciato echi del teatro di Albee) la regia di Polanski è decisamente in forma, efficace nell’evitare le secche del teatro filmato. Incorniciata da due piani sequenza in esterni e a camera fissa (i giochi non proprio innocenti di un gruppo di bambini), l’azione drammatica si svolge nell’universo claustrofobico di un appartamento (buñueliano?) dal quale nessuno sembra voler/poter uscire. Polanski mette continuamente in dialogo primo piano e sfondo, lasciando che lo spazio drammaturgico si sviluppi in profondità; utilizza la scenografia (si veda in particolare l’abbondanza di specchi) non come mero supporto al gioco attoriale, ma come intelligente escamotage per evitare il banale campo/controcampo e condensare all’interno del quadro il maggior numero di azioni; impiega intelligentemente il fuoricampo, anche a livello sonoro: ogni volta che sul pianerottolo i protagonisti cominciano ad alzare la voce, fa loro eco un persistente latrare di cani. Del resto, che l’uomo non sia altro che un animale in balia delle proprie pulsioni, Polanski lo va ripetendo sin dai primi cortometraggi (si veda, in particolare, il beckettiano Ssaki – I Mammiferi – del 1962).

Il vero piatto forte del film, manco a dirlo, sono gli attori. Polanski sceglie e dirige benissimo il suo “bestiario”: la nostra preferenza va alla nevrotica Penelope di Jodie Foster, erede delle grandi isteriche polanskiane (da Françoise Dorleac a Sigourney Weaver), intellettuale progressista che ignora come, kafkianamente, non vi sia differenza fra una battaglia combattuta nel salotto di casa a una combattuta nel “selvaggio” Darfur. Dietro di lei, forse un po’ meno a suo agio nel controllare il passaggio dalla normalità “borghese” all’isteria, è Winslet (peraltro punita dal doppiaggio italiano), donna manager che solo nell’alcool recupera una visione serena ed equilibrata del mondo. Più omogeneo il reparto maschile: John C. Reilly, nei panni del signor Longstreet, probabile seviziatore di criceti; e Christoph Waltz, avvocato di avvelenatrici multinazionali farmaceutiche, schiavo del cellulare (“C’è tutta la mia vita lì dentro!”), cui il regista sembra delegare, almeno in parte, la propria visione cinica e disincantata di un’umanità in perenne guerra con se stessa.

Carnage, regia di Roman Polanski, Francia/Germania/Polonia/Spagna 2011, 79′