Risulta difficile, purtroppo, dare giudizi critici su un film come Melancholia senza considerare, almeno in parte, la cattiva stampa di cui l’opera risente. Tanto perché l’ingombrante personalità registica incarnata da Von Trier riversa buona parte del proprio universo schizofrenico all’interno della pellicola, quanto perché non è per nulla semplice, e tanta critica ci è caduta, accostarsi a un lavoro così complesso evitando di tenere conto delle eclatanti dichiarazioni rilasciate del regista in occasione dell’ultimo festival di Cannes. A ragion veduta parrebbe indovinato sorvolare, entrando nel merito del film, almeno su quest’ultimo punto (sebbene frutto di un incidente quantomeno deprecabile) eppure è capitato che in tanti, già a Cannes, si siano scagliati contro von Trier prendendo a prestito le armi dell’indignazione (secondo loro non solo legittima ma pure dovuta) e dimenticando ben presto, però, di discernere i giudizi negativi nei confronti del soggetto da quelli nei confronti del film. Operazione questa che, tornando al primo punto della questione, ha fatto sì che si producessero (e si producano ancora), valutazioni riguardo il film che oltre a essere grottesche e avulse dal contesto della pellicola, hanno anche spinto diversi critici a contestare al regista non solo scarsità di idee e ripetitività ma pure un’immissione nel tessuto filmico di ossessioni private, fantasmi e tormenti psichici – generati, come è noto, dalla recente depressione che l’ha colpito – a tratti eccessiva e incontrollata. Fortunatamente, a smontare tale impianto pregiudiziale è sufficiente una visione del film spoglia da atteggiamenti preconcetti e che tenga conto, al contrario, della storia personale del regista come metro di comprensione e non di allontanamento.

Melancholia è un film sulla fine che parte dalla fine. Come in Antichrist, infatti, von Trier inserisce un prologo particolarmente evocativo, nel quale mette in scena, anticipandoli, i tragici eventi che ritorneranno nel finale del film. Un’ouverture fatta di immagini digitali liquide e limpidissime, imprigionate dallo slow motion in un tempo eterno e sospeso, tanto dilatato da renderle intatte, ordinate e intoccabili. Eppure sono immagini lucenti e cristalline solo sulla superficie. Perché, come tanto nel cinema vontrieriano, nascondono qualcos’altro. E non potrebbe essere altrimenti nell’opera di un regista che non teme di mistificare, sporcare e denudare la propria enunciazione filmica in maniera continua, per uno che non si dà alle regole e non rispetta la sacralità della rappresentazione (sempre che esista) e anzi, se ne fa beffe. Ecco quindi, frullati insieme il cupo simbolismo dell’arte preraffaellita di John Everett Millais e le inquietudini scespiriane ad essa legate, le atmosfere horror riecheggiate dal preludio del Tristano e Isotta wagneriano e il formalismo fiammingo di Bruegel e ancora, i presagi di morte della sensibile e lussureggiante natura catturata sullo schermo e le figure soprannaturali di un giardino dell’Eden in disfacimento.

Con quest’inizio Von Trier tocca lo spettatore sul vivo, lo tiene sveglio e ne sollecita gli istinti sensoriali. Poi cambia registro. D’improvviso torna indietro, al suo Dogma, e rispuntano le atmosfere del Festen di Vinterberg. Di qui le accuse di imitazione, ripetizione e plagio che sono piovute copiose. Come se von Tier non lo sapesse, come se non se l’aspettasse e come se non l’avesse fatto apposta. Come se un regista che non rispetta le forme narrative del cinema, che non conosce limiti, censure o confini semantici, non possa pensare, ricorrendo alla rappresentazione, di certo risaputa, di un matrimonio scellerato, non solo di ribadire che oggi come tredici anni fa i riti familiari sono ancora simulacri delle certezze borghesi che vanno necessariamente distrutti, ma anche che la mescolanza, la contaminazione e il gusto della parodia rimangono, modalità di linguaggio più che mai efficaci. Poi c’è Justine, la sposa, protagonista di questo primo atto. Una sorta di ninfa viziata e indisponente che disgrega dall’interno il mito sociale del matrimonio e che per via del proprio carattere distruttivo diviene lo strumento folle e incontrollato – come tante eroine vontrieriane – che il regista usa per scardinare il racconto, per rompere le convenzioni a cui ha dato atto e liberare progressivamente gli istinti tragici e apocalittici che si compiranno nella seconda parte. Seconda parte nella quale l’allucinazione diventa realtà, appunto, e nella quale si compie la simbiosi fra la protagonista e il pianeta che sta per distruggere la vita sulla terra: Melancholia. Come a ribadire, da parte di von Trier, la forza messianica dell’elemento femminile che quanto in Antichrist e una volta in più, è strega, è follia indomabile e elemento ultraterreno. È energia che si carica di una pulsione di morte travolgente e talmente irresistibile da divenire liberatoria, addirittura razionale. Mentre le altre anime, a cominciare dalla sorella Claire e sino ad arrivare al maschio borghese e confortato dalla ragione rappresentato dal cognato John, soccombono inesorabilmente.

È a questo punto che il cerchio si chiude. Che i simboli a cui von Trier aveva dato spazio nel prologo iniziale, estrinsecano il proprio significato. Pur eccedendo tanto nella costruzione visiva quanto nel crescendo emozionale, il regista riesce infatti a ricondurre con straordinario equilibrio ogni elemento al proprio posto. E come in un’opera tarkovskiana – impossibile non pensare al regista russo osservando l’universo di segni nel quale l’apocalisse si compie, a cominciare dai cavalli e arrivando sino al trionfo di una natura umbratile e inaccessibile – la morte invade lo schermo ben prima che Melancholia abbia inghiottito la terra. In un ribollire rigoglioso di immagini che diviene il riflesso, ancora avvertibile, dello schermo nero con cui il film si chiude, vero confine visivo, quest’ultimo, di ciò che (non) rimane.

Melancholia, regia di Lars von Trier, Danimarca/Germania/Francia/Svezia 2011, 136′