Cosa ci impedisce oggi di tornare ragazzini al cinema? Ma non a quella voglia iconoclasta che fa incontrare avventura, distruzione dello status quo e divertimento senza pensieri, quel miscuglio a cui può ambire, con i copiosi mezzi messi oggi forzosamente a disposizione della macchina cinema, una nutrita compagnia di scaltri fabbricanti di sogni. Tornare ragazzini è qualcosa di diverso: guardare innanzitutto le cose con gli occhi dello stupore, in un sistema di segni in cui esista ancora la meraviglia tout-court, senza nessuna, necessaria, realizzazione o finalità. Si tratta, quindi, di vedere la realtà come un motore che, potenzialmente, può partorire in qualunque momento l’impossibile. Ma si tratta anche di sfiorare con lo sguardo un mondo che non si può né si potrà mai penetrare, sapendo che è giusto che sia così.

I ragazzini protagonisti di Super 8 sono così: arduo identificarsi in essi, perché è ormai troppo distante quel loro momento storico a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, in cui le cose sembravano avere ancora nomi e confini precisi. Più facile provare il loro stupore: la passione per un sogno, quello di fare un film tutti insieme in cui ognuno ha il proprio ruolo tecnico o artistico, si accompagna ad una vita quotidiana fredda e distante (il giovane protagonista Joe è orfano di madre) che rende comprensibile, e in qualche misura quasi auspicabile, una fuga dalla realtà. Che non è ricercata, né tantomeno eccessiva: è vero si che nella solita cittadina della provincia americana incappiamo in un mostro sanguinario venuto dallo spazio, ma la maniera in cui ciò succede è totalmente casuale; così come non ci sono eclatanti gesti di eroismo o improvvise dimostrazioni di forza: l’unica è, semmai, quella che contempla il lasciar andare via i ricordi più dolorosi per fare posto, magari, a nuovi sogni costruiti sulla realtà e non sulla celluloide. In questo, forse Super 8 celebra anche la morte del cinema come luogo nostalgico (e in un certo senso necessario) del passato: del resto, l’unico modo che abbiamo per vedere la madre del piccolo Joe è attraverso vecchi filmini proiettati in una soffitta dal figlio. Abrams in questo modo riesce a rendere non celebrativa quella apparente patina di nostalgia che avvolge un passato cinematografico lontanissimo che, come viene sottolineato, è chiaramente destinato a non tornare mai più, similmente a quello che faceva un altro pupillo di Spielberg, Joe Dante, nel suo capolavoro, Matinée (1993). La forma scelta da Dante era più gioiosa, spensierata, solare perché in linea con la poetica di un autore che ancora oggi, passati da un pezzo i sessant’anni, è capace di costruire storie permeate di un’innocenza infantile, anche se in quel film non c’era posto per un passaggio nemmeno tangenziale del “vero” soprannaturale, ma solo per un formidabile alter ego di William Castle capace di fabbricare sogni col suo entusiasmo del far cinema con ciò che aveva. Quello che accumuna i due film è lo stupore davanti a uno schermo impolverato, capace però di scatenare un entusiasmo fisico che contagia la vita di tutti i giorni, tale da mettere momentaneamente in secondo piano  la realtà, che sia la crisi missilistica di Cuba o l’elaborazione di un difficile lutto per cui la vita quotidiana non offre alcuna forma di consolazione reale a cui appigliarsi.

Insomma non illudiamoci che Super 8 dia origine ad un filone, che spinga anche lontanamente il cinema americano a tornare quello che era trent’anni fa: non succederà mai, perché anche quel cinema va lasciato andare, col suo bagaglio di illusioni ed ingenuità che non appartengono in nessun modo al terzo millennio. Abrams ci mostra però che, se nel frattempo non siamo diventati troppo cinici, è ancora possibile cavalcare l’emozione e l’innocenza dello sguardo su cui erano costruiti quei film, bilanciando il ritmo, il disincanto e i dollari di oggi con l’entusiasmo sfrenato per l’impossibile che ci apparteneva ieri.

Super 8, regia di J.J. Abrams, Usa 2011, 112′