La grande scommessa del digitale sta per giungere a compimento: il formato 35 mm, inventato nel 1892, vive le sue ultime ore nelle sale. In Europa si avvicina sempre di più il tipping point, il momento in cui più del 50% delle sale europee saranno digitalizzate, ma nella corsa alla nuova tecnologia, rischiano di rimanere indietro le strutture più piccole. Sarebbero infatti circa 7000 i cinema monosala in Europa, pari al 20% degli schermi totali ma solo al 7% di quelli già riconvertiti a fine 2011. Considerando il passaggio all’interno di una visione macro la situazione si presenta ancora critica in Italia, dove solo l’anno scorso si è superata la soglia dei 1000 schermi digitali (sui circa  4000 presenti sul territorio), con una crescita rispetto al 2010 pari al 18,4%, mentre i francesi si attestano a quota 2700 schermi con un incremento del 43% dal 2010 su un totale di oltre 5000.

Ed è proprio a tale sfida che rispondono le linee guida 2012 per la digitalizzazione delle sale cinematografiche italiane, approvate il 21 febbraio dalle associazioni dell’esercizio (Anec, Anem, Fice, Acec) e dalla sezione distributori dell’Anica. Punto centrale dell’intesa sono le nuove condizioni per la VPF, acronimo di Virtual Print Fee, vale a dire il meccanismo tramite cui la distribuzione dà il proprio contributo affinché gli esercenti possano recuperare l’oneroso investimento necessario per la conversione al digitale.

Già dall’inizio del nuovo millennio il passaggio dall’analogico al digitale ha lentamente cambiato tutta la filiera cinematografica. L’introduzione di videocamere digitali hanno permesso di girare film low budget e stravolto le logiche produttive, portando il cinema nella situazione in cui si trovava la musica nel 1700, quando per la prima volta furono pubblicati gli spartiti e permisero la diffusione e democratizzazione della così detta arte amatoriale. Proprio la de-materializzazione dei formati ha portato a nuove opportunità per la distribuzione, incoraggiata dall’abbattimento dei costi di stoccaggio e dalle nuove piattaforme cross-mediali che offrono le moderne tecnologie. L’ultima a resistere alla trasformazione è stata la sala cinematografica, anche se la cara vecchia bobina sembra avere ormai i mesi contati. Una conversione al digitale per le sale francesi iniziata nel 2007, si concretizzerà infatti a dicembre 2012. Le conseguenze sono molteplici perché tangono differenti aspetti sia a livello economico che ontologico ed estetico. Il numero 672 dei «Cahiers du cinéma» ha dedicato uno speciale sulle nuove opportunità e problematiche riguardo all’introduzione del digitale, ponendo l’accento sul momento ibrido che la storia del cinema sta attraversando.

Se prima i proiezionisti maneggiavano le pesanti copie in celluloide (circa 30 chili), d’ora in avanti avranno a che fare con un DCP, un disco duro di qualche centinaio di grammi accompagnato da una chiave di criptaggio KDM (Key Delivery Message), contenente diverse informazioni tra cui la sala autorizzata a utilizzarlo, la durata di utilizzo, ecc.. Questa innovazione tecnologica solleva differenti questioni ed opportunità; alcune sale guadagneranno in flessibilità e differenziazione di programmazione, anche se con la stessa facilità si potrà terminare la tenitura di un film non promettente dai primi incassi. La durata di vita delle copie digitali è ben inferiore alla pellicola, e questo comporterà un continuo trasferimento di dati e back up per non perdere il materiale. Un’altra questione legata all’introduzione delle proiezioni digitali riguarda il processo di ammodernamento da parte degli esercenti. I costi per il lavoro di digitalizzazione di una sala si aggirano oggi intorno agli 80.000 euro, e non tutti gli esercenti sono in grado di far fronte a tale spesa. Per questo motivo in America hanno introdotto il sistema del VPF (il contributo da parte del distributore alle spese di digitalizzazione della sala normalmente si aggira intorno ai 450-600 euro per copia). Il CNC francese in risposta ha costituito un fondo nel settembre 2010 che obbliga i distributori a versare una sorta di VPF agli esercenti durante le prime due settimane di tenitura del film, senza che questo vada ad influire sulle percentuali dei contratti.

Un’altra questione aperta riguarda l’equipaggiamento delle sale, le cui tecnologie sono in costante evoluzione, come dimostra la prossima frontiera della proiezione in digitale: il 4k. La maggior parte delle sale è ormai equipaggiata per proiezioni in 2k e non possono permettersi ulteriori spese per riammodernare i proiettori senza un intervento diretto del CNC. A livello di costi invece le case di distribuzione si troveranno in una condizione favorevole, potendo risparmiare in maniera consistente. Mentre lo sviluppo di una copia in 35 mm si aggirava intorno ai 900 euro, quello di un DCP è di 120 euro più 12 euro per la chiave KDM. La spesa maggiore riguarda la creazione della prima copia (master), il cui costo del DCP è di circa 15.000 euro contro i 3000 euro della pellicola. Questo permette di sfruttare economie di scala per i grandi distributori ma può diventare un ostacolo per quelli più piccoli, per i quali il costo della copia master diventa una barriera di accesso non indifferente.

Inquietudini e sospetti si accalcano dietro le strategie dettate dai pixel. Gli esercenti potrebbero decidere di accelerare la rotazione dei film programmati per massimizzare il versamento obbligatorio del VPF da parte dei distributori durante le prime due settimane di sfruttamento. I distributori dal canto loro potrebbero invece subordinare il versamento del VPF ad una certa programmazione rischiando di evitare la distribuzioni di alcuni piccoli film. Anche le piccole sale di paese con una programmazione inferiore alle cinque proiezioni settimanali rischiano di rimanere escluse dal mercato, poiché l’aiuto economico da parte del CNC è subordinato ad un numero minimo di proiezioni. Di sicuro il nuovo modello economico sta già mietendo le sue prime vittime.

Il volume della produzione di pellicola è passato in soli cinque anni dai 13 miliardi a 5 miliardi di piedi. Le vendite di Kodak sono passate dai 1753 miliardi di dollari nel 2008 a 753 miliardi di dollari nel 2010, secondo uno studio di IHS Screen Digest, ciò ha come conseguenza un’inflazione importante sul costo della pellicola al piede, che è passata da 10 a 50 dollari in soli due anni, con conseguenti licenziamenti di massa nei laboratori.

I mestieri legati alla logistica e allo stoccaggio delle copie stanno scomparendo, così come quelli di molti proiezionisti e ben presto del personale di sala a causa dell’introduzione dei ticket elettronici. Una figura imprenditoriale di nuova concezione, che si pone tra gli esercenti e i distributori, è rappresentata da soggetti che negoziano con i distributori per conto degli esercenti le tariffe VPF. Si definiscono terzi investitori che condividono il rischio finanziario con la sala firmando con l’esercente un contratto d’esclusività sull’equipaggiamento dei materiali, il loro rinnovo e gestiscono tutti gli aspetti contabili delle negoziazioni VPF con il distributore.

Dietro il tramonto della pellicola vi è la scomparsa di un vocabolario di termini creato dai Lumiére, da Bazin e Rossellini. Il meccanismo di filmare e di proiettare non corrisponde più nel raccogliere sulla pellicola una traccia chimica che un fascio di luce poteva restituire sullo schermo; l’era del digitale raccoglie una moltitudine di dati ed informazioni che registra ed immagazzina, facendo della proiezione in sala non più un’epifania luminosa ma il prodotto di un calcolo e di un’interpretazione di dati ad opera di una macchina. La proiezione in digitale ha portato il concetto di riproducibilità al suo limite, infatti le copie DCP sono perfettamente riproducibili, rendendo la proiezione del film esattamente identica in ogni sala, appiattendo i ricordi della visione in se stessa. Questo momento di transizione trova una sua forma anche in quelli che sono stati definiti ibridi ovvero le proiezioni in digitale di film girati in 35 mm; entrambe con i loro punti di forza e di debolezza. Lo stesso Terrence Malick al momento della scelta del formato per la proiezioni di The Tree of Life durante il festival di Cannes ha esitato a lungo, optando alla fine per la copia in digitale. Se il 35mm rimane insuperabile per la resa della grana e la pienezza dell’immagine, la proiezione in digitale dal canto suo guadagna in luminosità, definizione dell’immagine e chiarezza dei sottotitoli. Se si potesse fare una metafora sul mondo dell’arte si potrebbe comparare tale passaggio dalla pittura a olio a quella acrilica.

Ultima questione, ma non meno importante, riguarda il ruolo e l’operato delle cineteche. Restauratori e conservatori dimostrano una certa scetticità nei confronti dei DCP, giudicati ancora poco affidabili per contenere la memoria conservata per decenni su bobine. Il grado d’instabilità attuale per lo stoccaggio dei dati numerici è stato sintetizzato in quello che gli specialisti definiscono come sindrome numerica, facendo eco alla sindrome dell’aceto; principale processo di decomposizione chimica che porta allo scolorimento della pellicole in acetato tipica degli anni ‘60 e ‘70. Bisogna però prendere in considerazione i vantaggi e le opportunità che il digitale offrirà ai fini della consultazione del materiale d’archivio, dove istituzioni come L’INA, le Forum des Images o l’UCLA Film Archive stanno facendo passi avanti mettendo a disposizione strutture per la consultazione in alta definizione di materiali la cui fragilità lo avrebbe prima impedito.
Quale ruolo riserverà il futuro al 35mm? Quando ormai anche i film girati in pellicola vengono riversati in digitale perdendo quelle caratteristiche peculiari dell’analogico? Se il cinema si comporterà come la musica con la riscoperta dei 45 giri lo potrà dire il tempo, vero è che l’occhio e la percezione dello spettatore ormai onnivoro e poco educato a distinguere le differenze rischierà di portare molte delle speculazioni estetiche rinchiuse in una teca di museo con la didascalia: 35mm, materiale primordiale in cellulosa con cui venivano girati i film.