1.

Non è un caso che Drive di Nicolas Winding Refn sia uscito alla fine del 2011. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un’altra di quelle ricorrenti ondate di articoli riguardanti la nostalgia in campo artistico. Molto ha avuto a che fare con il tentativo di replicare il successo di Mad Men: The Playboy Club (inguardabile, e fortunatamente cancellato dopo quattro episodi) e Pan Am (il cui appeal risiedeva soprattutto nella presenza di Kelly Gardner e nelle sue trame spionistiche, e il suo evidente look alla Schlamme, che ha risvegliato in molti la nostalgia nei confronti di The West Wing). Entrambe le serie fanno leva più sulla memoria culturale condivisa che su una nostalgia da parte degli spettatori per cose che non hanno e non avrebbero potuto conoscere. La nostalgia è all’ordine del giorno nella critica musicale, grazie al libro Retromania di Simon Reynolds, un’inchiesta sulle ragioni per cui la musica pop, così intuitivamente associata all’oggi (almeno da parte dei critici), abbia finito per essere terribilmente ripiegata sulla sua stessa storia. Benché il libro di Reynolds tratti di musica, il termine “retromania” è utile per descrivere il proliferare di artefatti artistici contemporanei che, a tutti i livelli e in tutti i media, feticizzano e in parte cercano di ricreare oggetti culturali e forme del passato, non solo in riferimento a predecessori specifici ma anche a intere estetiche e tradizioni, spesso moribonde.

Scrivendo della Hollywood contemporanea, David Bordwell fa spesso riferimento a un senso diffuso e pervasivo di “ritardo” (belatedness), una consapevolezza della storia del cinema che si trasforma in un fardello caricato sulle spalle dei giovani cineasti, al quale rispondono in maniere diverse. In campo critico, comunque, nostalgia e “retromania” non paiono motivo di particolare costernazione. I critici passano più tempo ad analizzare le altre maniere con cui Hollywood guarda al proprio passato (riciclaggi, sequel, remake…). Ciò accade perché alcune forme di nostalgia cinefila vengono date ormai per scontate, e considerate parte non solo dell’intrattenimento culturale popolare ma anche del Canone. L’allusività e la referenzialità erano argomenti all’ordine del giorno nella fase di ascesa del cinema d’arte internazionale, e oggi sono parte integrante dell’arsenale a disposizione di quel cinema. I film europei che si rifacevano a film del passato, a interi generi e a estetiche specifiche e obsolete (il noir, i musical della MGM, etc), sono sempre stati ampiamente rispettati, e il cinema francese in particolare  vi è tornato di continuo dagli anni ’60 in avanti, dalla nouvelle vague a Resnais e Ozon, fino a esempi recenti come The Artist.

È vero, però, che quando ciò accadeva nel cinema popolare americano veniva visto con maggior sospetto. Nessuno si è mai lamentato con John Woo per aver saccheggiato Peckinpah e i melodrammi classici di Hollywood, soprattutto perché all’epoca la cinematografia di Hong Kong appariva come un’alternativa rivitalizzante all’offerta corrente hollywoodiana. Come sempre, ciò che è in voga a Hollyood in un dato momento è Male, e negli anni ’90 il cinema di Hong Kong rappresentava gloriosamente l’Altro, offrendo allo spettatore tutti quei piaceri che Hollywood sembrava non procurare più. Il solo fatto di provenire dall’Asia ha fatto beneficiare dello status di Buon Cinema Popolare alla produzione di Hong Kong, allo stesso modo in cui il Cantopop e il j-pop sono stati abbracciati con entusiasmo dai fan occidentali, che si sarebbero tenuti a distanza da quelle stesse insipide canzoni se fossero state cantate in inglese.

I film retro-hollywoodiani realizzati negli Usa sono sempre stati molto più controversi, specialmente quando venivano dai grandi Studios. Inizialmente, la consapevolezza della generazione dei movie brats era stata bene accolta, data l’intelligenza e la giocosità dei loro film, in confronto alla piattezza dei vari Love Story, Airport e simili. Ma tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, l’autoreferenzialità era diventata solo una strategia ereditata dall’Europa da parte di molti registi americani. Al principio degli anni ’80, i blockbuster di Lucas e Spielberg erano intrisi di quel referenzialismo, proprio mentre altri cineasti formalmente più innovativi cominciavano a impantanarsi. Come conseguenza, questo tipo di nostalgia cominciò a ottenere un responso critico da parte di scrittori che accusavano quei registi di sapere tutto sul cinema e nulla della vita (si veda American Film Now di James Monaco, 1984).

Fu in quel periodo, nel 1982, che Noël Carroll pubblicò “The Future of Allusion”, tuttora uno dei migliori saggi sull’estetica della New Hollywood, benché le sue conclusioni siano discutibili. Il saggio di Carroll sottolineava ottimamente i fattori che incoraggiavano un cinema mainstream hollywoodiano pieno di allusioni, e la sua teoria che questi film comunicassero su due livelli differenti allo stesso tempo mi trova d’accordo: attirano un pubblico generalista per mezzo di semplici narrazioni di genere, e uno più cinefilo con riferimenti ad altri film. All’opposto, si potrebbe sostenere (come fa Jim Collins in Genericity in the Nineties: Eclectic Irony and the New Sincerity) che i film di genere costruiti sull’allusione e il pastiche rispondano all’attualità culturale e sociale, come in qualunque altra epoca; ovvero, nel nostro caso, allo spiegamento mediatico che satura la vita di tutti i giorni. Credo sia vero, ma l’obiezione più forte che mi sento di avanzare nei confronti del saggio di Carroll riguarda l’idea che quei film incorporino un significato “inorganico” desunto da altre fonti, piuttosto che uno “organico” capace di esistere in virtù delle componenti interne al film stesso. Come si può sostenere che Blow Out e La conversazione siano incomprensibili per coloro che non hanno mai visto Blow Up? Al contrario, tendo a pensare che i film di De Palma e Coppola siano migliori di quello di Antonioni (di gran lunga il suo film più compiaciuto e datato).

In un certo senso può capitare che quelle allusioni siano in grado di veicolare significati al film che le contiene. Inoltre, l’accusa che un film che si affida a esse non può che risultarne arricchito non si applica ad alcuni casi. Super 8, ad esempio, è stato condannato o celebrato in base a due fattori: la maniera in cui possiamo accettare un omaggio allo Spielberg della seconda metà degli anni ’70/primi anni ’80; e quanto J.J. Abrams sia riuscito a richiamare i piaceri di Incontri ravvicinati e E.T.. Nessun ha prestato la stessa attenzione ai debiti di Captain America: The First Avenger nei confronti de I predatori dell’arca perduta, in particolare nelle scene d’azione: non solo perché si trattava di “un altro film di supereroi” ma anche perché le sue allusioni a Spielberg erano più stilistiche che narrative. In altri casi, più rari ed estremi, un film che si serve dell’allusione come strategia principale potrebbe non avere molto senso senza che se ne percepiscano correttamente le relative fonti. In tal senso non sono d’accordo con Carroll quando sostiene sia proprio il caso di Blow Out e La conversazione, ma credo che pochi sarebbero in disaccordo nel dire che un minimo di conoscenza del cinema di genere è un requisito necessario per comprendere l’iperstilizzazione di Kill Bill.

2.

Ritengo che Drive appartenga decisamente a questa categoria: un film che sembrerebbe vuoto se non addirittura incomprensibile a coloro che non avessero la consapevolezza cinefila di percepirlo come omaggio al cinema di Jean-Pierre Melville, Walter Hill e Michael Mann. È un film costruito intorno alla nostalgia provata da un certo tipo di fan nei confronti di quei film, al punto da poter essere etichettato come “retromaniacale”. Ma se il libro di Reynolds non è che il logico punto d’approdo delle polemiche sul “rock da collezionisti” che circola sulla stampa inglese da diversi anni a questa parte (lanciato dal Britpop degli anni ’90), i critici cinematografici non avanzano proteste di questo tipo riguardo Drive. Ciò accade forse perché il suo regista, Nicolas Winding Refn, vanta un genuino pedigree europeo. Non è il suo primo film in lingua inglese ma nessuno menziona mai il precedente Fear X, ed è diventato una sorta di cocco dei critici in particolare grazie alla trilogia di Pusher (in danese), a Bronson (in inglese) e a Valhalla Rising (un classico “europudding”: regista danese, protagonista danese che non parla mai, cast di attori inglesi, in un film ambientato in Inghilterra e… altrove). In parte ciò è dovuto al tipo di cinema per il quale Drive incarna un’ardente nostalgia: il poliziesco a basso costo e patinato, con un protagonista duro ed esageratamente silenzioso. Molta cinefilia è al corrente, più o meno direttamente, di quanto dice Manny Farber riguardo il fatto che questa tipologia di film con la reputazione di “Arte della termite” giunga al pubblico completa di un apparato estetico ben preciso, risentendo di una generica posizione critica aprioristica rispetto all’analisi delle caratteristiche specifiche del singolo film. Ritengo che sia proprio per ciò che Drive raggiunge un punteggio di 79 su Metacric, in rapporto ai 70 di Contagion. Benché Contagion sia più ambizioso, innovativo e più compiuto, è troppo apertamente rispettabile per alcuni, troppo rapportato al sociale per causare il medesimo flusso sanguigno di cinefilia, quasi fosse di Stanley Kramer – e nessuno se la sente di fare il Bosley Crowther del caso e difenderlo.

Sia che apprezzino il lavoro di Refn o meno, i critici hanno riscontrato la feticizzazione delle fonti da parte di Drive ma non ne mettono in discussione la legittimità. Forse perché, in virtù del suo essere danese, a Refn è permesso portare avanti la tradizione che vede registi europei ritagliarsi abiti su misura con la stoffa dei vecchi film hollywoodiani. Ciò risulta evidente nella genealogia dell’eroe del film, noto come “L’Autista”, tracciata dai vari recensori. Ann Hornaday del Washington Post elenca Steve McQueen, Lee Marvin, Ryan O’Neal (non lo specifica, ma intende quello del film di Walter Hill, The Driver) e Robert DeNiro; Peter Travers in Rolling Stone menziona Alain Delon in Frank Costello faccia d’angelo e Alan Ladd in Shane; Roger Ebert, Delon e Clint Eastwood (“l’uomo senza nome”); Kenneth Turan del Los Angeles Times, Delon; Rene Rodriguez del Miami Herald e Anthony Lane del New Yorker, Eastwood. Alcuni di questi recensori e altri, però, riconoscono che il pastiche di Refn va oltre. Lane evidenzia subito i debiti nei confronti del film di Walter Hill, cosa che fanno anche J. Hoberman su The Village Voice e Jaime N. Christley su Slant; Rodriguez scrive “il film coniuga l’azione pulp di Senza un attimo di tregua con lo stile elegante e raffinato di Michael Mann. La colonna sonora è composta di canzoni Europop e musica per sintetizzatore. Persino i titoli di testa, scarabocchiati in rosa, evocano gli ’80” (in un’intervista Refn ha ammesso di averli rubati da Risky Business).

Travers spinge gli spettatori a “fare raffronti con i film degli anni ’70 e ’80, come Strade violente di Mann e Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin. L’Autista è un solitario che ricorda Alain Delon in Frank Costello di Melville, benché aggiunga che portare a galla tutte le influenze sarebbe ingiusto poiché “Refn, come Quentin Tarantino, ha il dono di assimilare la storia del cinema per dargli una nuova forma, contrassegnata da un DNA personalizzato”. Secondo lui Drive è “puro cinema”. Shawn Levy di The Oregonian nota anch’egli i debiti nei confronti di Strade violente ed è bravo a definire il cinema di Refn come capace di “unire fascino arthouse e violenza grindhouse, con una sensibilità macho che fa pensare a un mix di Terrence Malick, Brian De Palma e Michael Mann”. Jessica Winter di Time scrive che Refn “è un figlio degli anni ’80. Per lui Vivere e morire a Los Angeles e l’opera omnia di Michael Mann sono testi sacri che vanno rimessi in scena”.

La rete dei riferimenti si allarga. Sul New York Times, A.O. Scott nota debiti verso Sergio Leone, a livello narrativo ma non stilistico (e qui credo che si sbagli di grosso, per una ragione fondamentale: sia i film di Refn che quelli di Leone sono caratterizzati dall’uso del focale lunga), ma anche lui riconosce il forte radicamento del film nell’estetica del cinema dei primi anni ’80. In un punto interessante dell’articolo, scrive che il film di Refn ricorda “la malinconia mascolina solitamente associata a Michael Mann” e un altro film d’autore/di genere che ha attinto a fondo dall’euro-pozzo, American Gigolo di Paul Schrader. Hoberman, che intitola la sua recensione “Retro Thrill Ride”, esplora in maniera dettagliata la derivazione dagli anni ’80 e da Eastwood: “Drive è solo nominalmente ambientato nei giorni nostri. Il 40enne regista fa di tutto per evocare il periodo della sua adolescenza, con le languide dissolvenze e i bar al neon di Miami Vice, gli skyline notturni e gli angoli di ripresa di Blade Runner, i lenti dolly di Top Gun e i lirici interludi di montaggio alla MTV. Il tempo si è fermato! L’azione ha luogo in un subliminale LinnDrum, la colonna sonora affondata in un techno-pop romantico, esaltato e dolente. Gosling, con il suo raro sussurro adenoidale, è un eroe sottotono nella tradizione di Eastwood-McQueen, per certi versi ai limiti del ridicolo: il suo stuzzicadenti è un equivalente rimpicciolito del sigaro che Eastwood rumina in continuazione nei film di Leone”.

In un’intervista, lo stesso Refn cita Bella in rosa, ma la cosa sembra far parte dell’auto-marketing sentenzioso e offuscante di cui si dilettano alcuni registi (come i Coen quando sostengono di non aver letto l’Odissea, o Lynch che sostiene di non essere stato influenzato da altri film, ma solo dal fatto di vivere a Philadelphia).

Ora, tutto questo alludere è al servizio di cosa, esattamente? Gran parte del dibattito sorto attorno a Drive tenta di rispondere a questa domanda. Stephanie Zacharek, che paragona il film a Strada a doppia corsia e Punto zero (presumibilmente sulla base della feticizzazione dell’automobile, dal momento che ha poco in comune con entrambi i film), ammette: “nessuno vuol sostenere che Refn abbia inventato un nuovo linguaggio; solo, utilizza il vocabolario alla perfezione – possiede gli strumenti e il tocco giusto. È un meccanico capace di far cantare un motore”. Coloro che sollevano obiezioni, al contrario, insistono proprio su questo punto: “senza l’estrema violenza che mette in scena, Drive non sarebbe che uno spento rimaneggiamento di quei thriller esistenziali e autoconsapevoli alla Driver e Strade violente”, scrive David Edelstein su New York. Scott, la cui posizione è più vicina alla mia riguardo il giudizio complessivo sul film, considera Drive “prigioniero della sua vacuità, perché sostituisce l’atmosfera alle emozioni e sfoggia uno stile preso a prestito come fosse reale audacia”. Hoberman, sullo stesso argomento, è più positivo: “è una macchina, ma funziona”.

3.

Non c’è dubbio. Se il target di Drive è un tipo specifico di spettatore cinefilo, cresciuto a forza di thriller iperstilistilizzati, suggestivi ed esistenzialisti, centra il proprio bersaglio con estrema precisione. Buona parte delle ragioni per cui piace hanno a che fare con il modo con cui la narrazione, i personaggi e l’iconografia si rifanno a una tradizione consolidata. Come in Driver, il protagonista di Drive è un autista professionista per rapine di basso profilo, uno che dà il meglio nel proprio lavoro e opera secondo un codice severo; qui, il suo lavoro come stuntman cinematografico aggiunge al film un ulteriore strato di autoconsapevolezza. In Driver, il personaggio di Ryan O’Neal sembra non provare mai granché per niente e nessuno, con una sola eccezione, ed è quell’eccezione che lo conduce quasi alla distruzione: l’Autista attira l’attenzione del Poliziotto (Bruce Dern) che alla fine lo costringe a correre rischi enormi. Le uniche emozioni in gioco sono quelle che emergono da una rivalità maschile: esplicitamente si tratta di un orgoglio che confina con l’arroganza; ma in maniera latente si tratta semplicemente di invidia. In termini puramente emozionali, dunque, Drive, più che al film di Walter Hill, si richiama a Frank Costello faccia d’angelo di Melville (1967): in quel caso, un assassino esita a uccidere una bella cantante che potrebbe identificarlo, e il venir meno a questa regola lo conduce alla morte.

Michael Mann, e Refn con lui, trasferisce questa versione del noir – un uomo “cattivo” rovinato da una donna innocente – su un terreno apertamente emozionale. In Strade violente (1983), Frank (James Caan), criminale con un suo codice etico ma che sogna un’altra vita, si innamora di Jessie (Tuesday Weld) e comincia a progettare un futuro insieme a lei. Ciò lo rende vulnerabile, e questa vulnerabilità lo conduce al suo destino, perché il desiderio di appagamento è in conflitto con la sua scelta di libertà: tiene troppo a Jessie e alla sua vita per bene, e lo comprende con sgomento, finché non è costretto a dare fuoco a tutto quanto per potersi sottrarre al controllo del boss malavitoso Leo (Robert Prosky). In Drive, l’autista è condannato fin dal momento in cui si innamora di Irene (Carey Mulligan) e fa di tutto per tirare fuori dai guai lei, suo figlio e il marito ex galeotto. In entrambi i casi, quindi, il criminale diventa vulnerabile a causa di ciò che prova per una donna innocente (e non una femme fatale) che rappresenta il tipo di vita che lui non potrebbe mai avere.

Come l’Autista di Ryan O’Neal, ma diversamente dal Frank di Caan, il personaggio di Gosling si distingue da coloro che gli stanno intorno per la rinuncia alla parola. I personaggi di Michael Mann negli ultimi anni sono stati meno inclini a verbalizzare i propri pensieri (Miami Vice, Nemico pubblico), ma da Strade violente a Heat erano piuttosto loquaci quando si trattava di parlare dei propri sogni, delle proprie debolezze e di descrivere il proprio codice morale. Questo non significa che fossero sempre onesti con se stessi e con gli altri, ma tendevano a possedere – e mettere in mostra – un apparato di obiettivi e regole ben strutturato. Al contrario, l’Autista di Gosling conosce solo la storia della rana e dello scorpione, che trasforma in emblema – lo scorpione dorato cucito sulla schiena del giubbino. Con il loro Autista, Gosling e Refn si rifanno da vicino a Hill e O’Neal almeno quanto essi si richiamavano a Melville e Delon in Frank Costello, eccezion fatta per il livello emozionale presente nel film, e che l’Autista non può controllare. La prova di Gosling è più esplicitamente emotiva e conflittuale, sia rispetto a quella di Delon che di O’Neal; ma a parte un bacio in ascensore, il suo Autista non consuma mai i propri sentimenti nei confronti di Irene, e sembra voler genuinamente aiutare il marito di lei, Standard (laddove il protagonista di un noir avrebbe certamente macchinato per tradirlo, così da avere la donna tutta per sé). Tanto il suo altruismo quanto il suo atteggiamento laconico richiamano alla mente l’Uomo senza nome di Eastwood (l’innovazione apportata da Leone alla figura dell’antieroe è infatti quella di aver inserito un personaggio alla Melville in un contesto western).

Il silenzio del protagonista di Drive sta diventando una caratteristica tipica del cinema di Refn: One-Eyeye (Mads Mikkelsen) in Valhalla Rising non spiccica parola, avendo un trasandato interlocutore infantile che può o meno rappresentarlo in maniera veritiera. In diverse interviste, Refn ha detto di aver fatto il possibile per privare il suo Autista di un background e dei dialoghi: “Amo il linguaggio del silenzio. Come il protagonista di Punto zero, che è altrettanto esistenzialista nel suo ostinato silenzio. I grandi eroi sono sempre stati silenziosi, fa parte della mitologia: l’uomo più silenzioso è anche quello più imprevedibile” (dal sito Gossip Central). Lo stesso tipo di autoconsapevolezza che ha  motivato la scelta di farne uno stuntman (si noti che ciò è già presente nel romanzo di partenza di James Sallis) procura un make-up piscologico al personaggio, di modo che l’Autista di Gosling non è solo un tipo silenzioso nella tradizione di Delon e Eastwood, ma pare modellarsi deliberatamente su di essi. Gosling: “Credo sia uno che ha visto troppi film. Confonde la propria vita con i film che ha visto e ha trasformato se stesso nell’eroe del proprio film d’azione. Come se si fosse perso nella mitologia di Hollywood” (The A.V. Club). A questo punto si potrebbe sospettare che tale idea – il protagonista vede se stesso come il personaggio di film – non costituisca che un alibi per l’indulgenza di Refn. In fondo, come ha detto parlando del processo di adattamento, “ho semplicemente preso e dissezionato il tutto e poi rimesso i singoli elementi secondo la mia visione feticista. Sono un cineasta feticista” (Gossip Central).

Se la narrazione e il personaggio protagonista manifestano una palese feticizzazione di Melville, Hill, Mann e altri, ciò vale anche per lo stile del film. In uno dei pezzi migliori che ho letto in proposito, Jim Emerson evidenzia le allusioni ai vari Driver, Strade violente, Vivere e morire a Los Angeles e American Gigolo e “al soundtrack pseudo-Tangerine Dream così popolare nei primi anni ’80”, prima di sostenere che “Drive non è altrettanto interessato all’emozione, ai personaggi e alla storia che racconta. Il film fa un uso feticistico dei significanti, ma le sue preoccupazioni più tangibili hanno a che fare con astrazioni sognanti di forma e movimento”. Questa è senz’altro la grande forza del film: il potere sensuale con il quale Refn schiera i propri significanti feticistici. Il film trasuda iconografia del sotto-genere: inquadrature di ambienti notturni al neon o fluorescenti, il fiume che attraversa Los Angeles (ci ho vissuto per anni e non l’ho mai visto, ma pigliate un qualunque poliziesco ambientato a L.A. e non mancherete di trovarcelo), tavole calde male in arnese, garage, appartamentini trasandati, camere di motel ancor più trasandate, ristoranti da due soldi, scogliere e, soprattutto, le strade della downtown losangelina.

Nonostante tutte le allusioni visive che contrassegnano Drive, (ricordate i neon riflessi sulla Ferrari di Don Johnson in Miami Vice?) è proprio attraverso lo stile visivo che Refn apporta il proprio marchio personale all’interno della tradizione. Melville si serviva di lenti da 50mm; c’è della profondità di campo in Frank Costello, ma le focali non sono mai estreme. Il montaggio di Melville è conciso, come sempre; i suoi movimenti di macchina sono agili, ma usati con parsimonia. Hill segue il suo esempio, e lo stile visivo di Driver è persino più spoglio e lineare. Evita la profondità di campo, fatta eccezione per alcune inquadrature, e i movimenti di macchina sono ridotti al minimo e fortemente motivati. In Strade violente, Michael Mann tende a servirsi di una marcata profondità di campo, spesso accentuata da riprese in notturna piuttosto buie e, saltuariamente, dall’uso di diffusori. Spesso, poi, alterna improvvisi stacchi di grandangolo a sostenute riprese in campo lungo. In particolare nella scena del parcheggio, dove un’inquadratura planimetrica di Frank che raggiunge gli uffici è seguita da un grandangolo in cui lo si vede entrare, seguita da un campo/controcampo in cui parla con la receptionist e poi nuovamente un grandangolo quando entra nell’ufficio del capo. Nella scena in cui Frank rade al suolo la propria concessionaria, lo si vede camminare lungo il piazzale in focale profonda; ma subito dopo Mann si serve di focali piatte per mostrarlo all’interno della propria macchina, mentre il piazzale va a fuoco sullo sfondo. Inoltre, alcune delle immagini più memorabili del film sono quelle con poca profondità, in cui Mann si serve della focalizzazione piatta con effetti pittorici straordinari, ad esempio durante la seconda rapina, in un cui usa una fiamma ossidrica per aprire la porta di una cassaforte, riempiendo l’immagine di fumo e scintille.

Refn e il suo direttore della fotografia, Newton Thomas Sigel, invece, si servono di lenti grandangolari per ottenere una considerevole e persistente profondità di campo; nella rivista American Cinematographer, Sigel parla della passione di Refn per le lenti da 18 e 21mm. Inoltre, Refn e Siegel esasperano ulteriormente la profondità con inquadrature angolate dal basso e dall’alto. Altrove insistono sulla profondità sfruttando composizioni en abîme, in particolare quando Gosling è in auto. Non solo Drive differisce dai suoi predecessori per le scelte stilistiche, ma è proprio in quelle scelte che si riconosce la firma di Refn. In Bleeder e nella trilogia di Pusher, il suo stile era di una durezza naturalistica e prevaleva l’uso della camera a mano. Con Bronson e Valhalla Rising, invece, ha dato pieno sfogo alla sua attrazione per  la profondità. Bronson, girato per lo più in interni, si serve delle focali grandangolari per effetti quasi da fisheye, insieme a lunghe riprese statiche e angolate dal basso, punteggiate da continui carrelli laterali.

Se tra i film di Refn, Drive è quello à la Mann, Bronson è il suo omaggio a Kubrick. La prova di Tom Hardy si colloca nel solco della grottesca teatralità  di Sterling Hayden e George C. Scott ne Il Dottor Stranamore, Malcolm McDowell e Patrick Magee in Arancia meccanica (evidente pietra di paragone per Bronson), Jack Nicholson in Shining e Vincent D’Onofrio in Full Metal Jacket. Anche il ritratto delle prigioni inglesi e dello squallore urbano di Bronson ricorda Arancia meccanica, e così l’utilizzo della musica classica come strumento di dissonanza cognitiva; anche le performance teatrali in cui il protagonista mette in scena la propria vita davanti a un pubblico ricordano le dimostrazioni della Cura Ludovico di fronte all’uditorio.

Valhalla Rising, invece, è la versione pulp di un film di Herzog. Forse perché gira quasi completamente in esterni, Refn ritorna all’uso della camera a mano ma conserva la profondità di campo. Nel film gli effetti di profondità hanno il vantaggio di valorizzare l’azione fisica – e chi ha visto questo film sa che mette in ombra la discussa testa schiacciata di Drive. Ma viene usato anche per creare un effetto di un cinema di contemplazione iperviolento, e se il film nel complesso ricorda Aguirre, ci sono casi in cui le inquadrature ricordano da vicino, nella loro staticità, L’enigma di Kaspar Hauser.
Come in Valhalla, anche in Drive abbondano i movimenti di macchina e, come in Bronson, si tratta di carrelli. Ma se i carrelli di Bronson possiedono una magniloquenza kubrickiana, in Drive i movimenti scorrevoli e sinuosi della Steadicam sono la chiave seduttiva delle immagini del film.

Cosa dire, insomma, dello stile visivo di Drive? Se la narrazione, la colonna sonora e l’iconografia del film feticizzano Melville, Mann e Hill (e Leone, Schrader, Friedkin, ecc.), allora le qualità visive ottenute attraverso le riprese in Steadicam, la profondità di campo, le inquadrature dal basso e quelle composte sono profondamente sensuali, danno l’impressione di carezzare gli spazi e gli oggetti, caricando e feticizzando la superficie stessa dell’immagine. E qui sta un altro dei motivi per i quali Refn si può considerare un regista feticista: feticizza non solo le sue fonti ma anche il materiale del film stesso, fino al punto di astrarre la fisicità del genere narrativo, in cui Drive non è più un film poliziesco, ma il sogno di un film poliziesco (ancor più che una fiaba, come è stato definito), che sia il sogno dell’Autista o di Refn.

Una linea sottile separa il feticcio sensuale da quello sessuale. In American Cinematographer, il regista cita il classico sperimentale omoerotico di Kenneth Anger, Scorpio Rising (1964) come referente visivo e dice di averlo mostrato a Gosling. “L’ho mostrato a Ryan perché mi interessava la maniera in cui era girato, la sua natura sensuale, sessuale, il feticcio, l’oggettificazione, perché era la stessa che volevo ottenere nel film”. Correttamente, gli elementi visivi da cui Emerson sembra essere maggiormente attratto in Drive mettono insieme aspetti di stile e sessualità, principalmente l’uso del rosso, impiegato in particolare nelle scene tra l’Autista e Irene, e di cui è infusa la scena nello strip club.

La maniera in cui l’estetica del film lo impregna di una precisa carica sessuale indica un’altra delle innovazioni alla tradizione del poliziesco che glorifica. Possiamo trovare elementi sessuali anche in Frank Costello, forse ancor di più in Strade violente (e in Vivere e morire a Los Angeles, e certamente in American Gigolo), ma mai così evidenti come nel film di Refn. In quest’ottica, Drive può essere visto come un saggio di critica cinematografica (come L’uomo che non c’era lo era nei confronti del noir), scovando temi sessuali latenti, repressi o anche semplicemente accennati nei film precedenti, e tematizzandoli. È evidente che la violenza dell’Autista è un espressione della sua sessualità repressa. Il colore rosso lo sottolinea, dall’incontro nella tavola calda con Irene alla violenza nello strip club, dove l’Autista e la sua vittima sono circondati da pareti rosse e donne nude.

Nel momento chiave del film a livello emozionale, Refn rappresenta esplicitamente il legame fra sessualità e della violenza: l’Autista bacia Irene in un ascensore e un attimo dopo, nello stesso luogo, sfascia la testa di uno dei cattivi. Il sottotesto sessuale non è nuovo a questo tipo di film, ma Refn lo rende iperbolico e al contempo lo problematizza, come faceva De Palma con Hitchcock.

Drive, dunque, è un contributo a un tipo particolare di poliziesco, accattivante e iperstilizzato. Si tratta di un’intensificazione ragionata, barocca e decadente di quegli aspetti nelle opere di Melville, Hill e Mann che Refn feticizza, da appassionato in grado di parlare a un pubblico di appassionati come lui. Ma è sufficiente? Per un buon film di genere sicuramente sì, ma per un gran film?  A.O. Scott conclude la sua recensione sostenendo che Drive “con tutta la sua sbruffoneria, è timido e convenzionale”. Nel farlo, Scott accusa Refn di non servirsi del genere per “gettare un ponte tra le strutture narrative familiari e il modo in cui la gente si comporta e interagisce”. Difficilmente mi sentirei di criticare un film su queste basi, ma comprendo il suo ragionamento. Drive non riguarda alcuna forma di vita reale, riconoscibile; forse non cerca nemmeno di esserlo, ma tutti i grandi film lo sono, a qualche livello, a prescindere da quanto si appoggino all’artificiosità per sostenere le proprie idee. Certamente questo non è un film realista, ma anche a livello di sogni e fiabe non dice granché, parla di personaggi e non di persone. Forse trasmette emozioni reali, ma niente di riconoscibilmente individuale; è un film su questo tipo tutto d’un pezzo, l’Autista, ma soprattutto è un film sul Tipo Tutto d’un Pezzo, sul personaggio nel suo complesso che l’Autista rappresenta.

L’Autista silenzioso, così controllato e professionale, incarna un tipo di criminale che apprezziamo in libri e film (il personaggio di Parker creato da Richard Stark rappresenta il tipo elevato allo status di supereroe), ma come mai proprio questo particolare tipo è così largamente feticizzato? Per quanto mi riguarda posso risalire all’attrazione provata nei confronti di Batman da bambino (e da allora in poi): credo ci sia qualcosa di profondamente infantile nella fascinazione che si prova per questo tipo di personaggi (“buoni” o “cattivi” che siano), personaggi che vivono fuori da ogni regola, eccezion fatta per quelle che si sono dati da sé. È una fantasia di controllo, quella di essere come Batman, una fantasia che utilizziamo per spiegare e giustificare a noi stessi la sensazione di essere outsider (inclusa, a volte, la sensazione di essere migliori, proprio in quanto outsider).

Tutto questo è romantico, ma Drive, diversamente dalle migliori riproposizoni del mito di Batman, non dice niente di noi, solo di ciò che consumiamo e trasformiamo in feticcio. Può essere considerato uno studio postmoderno su questo genere di film e questo tipo di antieroe, ma non è altro che un film profondamente autoindulgente, di un’autoindulgenza che può essere condivisa da tutti coloro che hanno gli stessi gusti e feticci culturali. Considerare Drive un sogno potrebbe essere giusto, ma forse si tratterebbe anche di una giustificazione, di una scusante per la sua autoconsapevolezza, ossessione di genere e retromania. Preso a sé, Drive è sufficientemente compiuto, ma pur sempre modesto: è l’accurata disamina di un personaggio, un potente film di genere, e anche un potente atto cinefilo su un genere. Per fare un film come quello che ha fatto Refn, un diffuso senso di nostalgia non è solo necessario ma cruciale.

(Traduzione di Alessandro Stellino)