Dopo il successo internazionale de La bocca del lupo, Pietro Marcello
realizza un film sul cinema, omaggio a uno dei suoi registi prediletti, Artavazd
Pelešjan. Un incontro per scoprire l’universo del maestro armeno, dalla
straordinaria forza visiva, attraverso lo sguardo del promettente
regista italiano, affascinato dalle figure romantiche del Novecento.

Dopo esserti fatto notare con Il passaggio della linea, e la montagna di premi e di recensioni positive che ha ricevuto La Bocca del lupo, l’aspettativa nei tuoi confronti sta crescendo. Ti ha influenzato nel nuovo progetto?

Probabilmente mi fa essere più cauto. Quando ho iniziato avevo 23 anni ed ero più spensierato nel fare una forma di cinema “leggero”. Con il tempo mi sono reso conto delle molteplici complessità che uno deve affrontare, quando si appresta a fare un film che sia finzione o documentario, non importa. Il lavoro richiede tantissima energia. A vent’anni sei molto più spregiudicato di quando ne hai trentacinque. Ora mi pongo più domande. Ed in questo c’è forse l’aspetto più interessante, perché ti si pone di fronte il dubbio, e il dubbio implica un impegno diverso verso le cose, costringe ad essere più esigenti con se stessi. Nel caso di Pelesjan, assieme alla montatrice Sara Fgaier ci siamo divertiti molto, e non abbiamo sentito la fatica, anzi è stato un lavoro particolarmente ludico, si può definire un film studio… Tra l’altro questo ritratto non ha ambizioni particolari, è un film che non concorrerà mai nei festival, in un certo senso credo che sia un film a metà, realizzato per essere memoria di un grande autore, un genio…
Credo che sia il primo film ritratto nella storia del cinema dove il regista non si esprime e resta in silenzio, coerente con il suo cinema… Ho apprezzato molto questa sua scelta e non ero affatto spaventato di un “cinema senza parole”.

Il silenzio di Pelešjan è un film-ritratto su  un regista misconosciuto al grande pubblico. Quale è stata la scintilla che ti ha spinto ad intraprendere questo progetto?

È stato un caso. Anni fa, anche grazie a Fuori Orario, ho visto i film di Pelešjan, come tanti altri film di autori poco conosciuti che sono circolati in tutti questi anni di cinema nel palinsesto notturno di Raitre.
Visto che da sempre sono rimasto irretito dal cinema sovietico, quando è capitata l’opportunità di realizzare questo film – si può dire sia stato per me un’opera di formazione – ho subito accettato. È stato grazie a Enrico Ghezzi e Stefano Francia Di Celle che è stato possibile realizzarlo; ci ha poi aiutato Rino Sciaretta, amico di Pelešjan e distributore dei suoi film. Così è partito un progetto che mi ha permesso di passare del tempo in Russia, guardando film che non avevo mai visto, lavorando ad un film forse più sperimentale rispetto ai miei film precedenti.
Pelešjan mi affascinava soprattutto per la sua poetica e per l’energia che si sviluppa nei suoi film, film senza dialoghi che esprimono il linguaggio universale del cinema, montati in una maniera che rivela la sua forza di teorico del montaggio. Quando Artavazd era ancora studente al Vgik, ha avuto come insegnante al montaggio  Ludmilla Volkova… Negli anni successivi Sokurov avrà lei come stessa insegnante al montaggio… non è un caso che Sonata per Viola ha molto in comune con i film di Pelesjan… si può dire che la Volkova è stata l’iniziatrice del montaggio a distanza… Pelesjan ha poi teorizzato questa tecnica nel suo saggio “il mio cinema”.

Questa è stata la prima volta che hai utilizzato la pellicola: ha influenzato il tuo modo di girare il film?

Ho utilizzato la pellicola perché finalmente ne avevo la possibilità: ho comprato una piccola cinepresa che porta un rullo da 60 metri, una Aaton minima super 16, molto leggera. Il mio desiderio è sempre stato girare in pellicola, ciò che mi affascina è lo sviluppo alchemico che il digitale non ti offre. Di fatto quando utilizzi la pellicola è sempre un momento un po’ propiziatorio perché non puoi vedere subito ciò che filmi, inoltre possono succedere degli errori durante lo sviluppo e poi filmi molto meno perché la pellicola scorre e costa: insomma si può andare anche incontro a rischi. Infine mi interessa la pellicola perché sta scomparendo, tra cinque anni forse non ci sarà più… Mi assale una certa malinconia nel pensarci, anche se sono convinto che il buon cinema continuerà anche con il digitale: dipende tutto da come si sceglie di girare, da come si concepisce lo spazio filmato. Ad esempio, ultimamente ho visto un film girato con un telefonino e aveva un’ottima realizzazione: credo che lo strumento sia relativo, invece lo sguardo non si può riprodurre attraverso una macchina.

Nel finale del film su Pelešjan c’è una sorta di elogio della pittura capace di trasfigurare le miserie della storia.

Per quanto riguarda il finale, ho preso spunto dal desiderio di Pelešjan di realizzare Homo sapiens, un film che ha scritto ma non ha mai potuto girare, per il quale ha preso spunto dalla pittura, anche quella rinascimentale. Molte dei dipinti, che si vedono nel finale, sono stati scelti con Pelešjan. La mia è stata un’interpretazione di Homo Sapiens, forse molto distante da quella di Artavazd. La pittura, per me, è una questione di composizione, è la tua visione del mondo. È la storia che porti. Credo che in generale ci sia un rapporto molto forte tra cinema e pittura, come tra cinema e letteratura, che però oggi è quasi scomparso. Oggi più nessuno si interroga profondamente su queste questioni.

I tuoi film in generale sono estremamente poetici, personali, rientrano però nella categoria di documentario, che per antonomasia si occupa della realtà. Come ti trovi tra questi due mondi che sembrano così distanti?

Non credo di raggiungere la realtà attraverso il cinema. Il cinema è una sorta di fuga dalla realtà, perché attraverso il montaggio tutto diventa soggettivo e racconti la tua visione o percezione del mondo. Ritengo non ci sia una profonda relazione con la realtà. Per me il documentario non altro che uno strumento che ti permette di interpretare la realtà… Non credo che siamo noi uomini a cercare i limiti nelle distanze, interpretiamo la storia, a volte in modo errato… Non so cosa sia giusto per il futuro ma sono certo che sarà sempre più difficile ritrarre il presente… 

Non è semplice descrivere una persona, ancora di più se è una persona che ha a che fare con le immagini. Come è stato trovarsi a raccontare un regista?

È un film a metà: una parte è mia e una parte è sua. I pochi ma straordinari materiali di Pelešjan dovevano dialogare con quello che ho girato su di lui e che invece è semplicemente un ritratto soggettivo di un cineasta. Senza didattica. Senza il tentativo di spiegare qualche cosa. Pongo domande e osservazioni, ma non ho risposte né per me, figuriamoci poi per Pelešjan, che è una persona alquanto complessa. Per me questo ritratto poteva funzionare benissimo anche senza la mia voce che offre allo spettatore informazioni base sul cinema di Artavazd, ma diventava troppo estremo…

In una tua intervista dichiaravi che nella nostra contemporaneità, c’è sempre meno armonia. Perché l’armonia per te è così importante?

Credo che il cinema si fa con le immagini, poi ci sono i concetti e tutto il resto. Il regista porta la storia, ma poi il film deve riempire la vista di chi lo guarda. Bisogna fare i conti con la modernità, e la modernità è sempre più brutta. Mi angoscia l’idea di filmare un posto con una fila di suv senza soluzione di continuità, bar con tavolini di plastica… La nostra società è costituita dalla tecnologia e c’è sempre meno gente che si ferma a filmare un paesaggio, un albero, la bellezza – uno dei pochi che lo fa è Michelangelo Frammartino, amo molto e condivido il suo cinema. Io ho sicuramente una fascinazione per il classico e la sua bellezza. Forse però guardo al passato perché è meno faticoso che guardare al futuro. Il futuro non sai cosa comporterà.

Sembrano tendenze seguite anche da una certa cinematografia russa…

Certamente il cinema russo era molto legato alla scrittura e alla pittura – oggi non  più, il cinema arthouse è in crisi anche da quelle parti, ad eccezione per autori come Sokurov, che ha realizzato anche lavori ibridi: ha studiato documentario al Vgik, per poi approdare alla finzione dopo gli studi. Comunque ancora oggi è difficile parlare di documentario in Russia: questo deriva dal fatto che ai tempi del comunismo non si poteva improvvisare nulla, tutto passava attraverso la censura. Alcuni autori dovevano aspettare anche dieci anni per girare un film. Però c’era anche un lato positivo: i film che si producevano erano no-profit quindi se una scena era sbagliata, veniva rigirata finché non andava bene. Era diverso da come si realizzava il cinema in Occidente, legato al profitto e al denaro.

Oltre che per Pelešjan e Sokurov, hai sempre manifestato il tuo amore per la Russia. Cosa trovi di così stimolante nella cultura di questo popolo?

Sicuramente un realismo magico che non appartiene a noi italiani. Anche proprio per una semplice questione geografica dei luoghi. Riguardo alla letteratura, ritengo semplicemente che si siano elevati più in alto degli altri, anche per la loro spiritualità.

Oggi per te, quali sono i problemi nel cercare di filmare la contemporaneità?

Sono sicuramente più interessato a ciò che non è raccontato, rispetto a quello che la nostra società vuole raccontare quotidianamente attraverso un sistema mediatico estremo. Ora più che prima, credo sia faticoso trovare il modo giusto per mettere in scena il proprio presente. Pelešjan è stato in conflitto permanente sia con se stesso che con il proprio tempo: ha realizzato pochissimi lavori perché non è stato così fortunato. Non ha mai avuto la possibilità di realizzare un film lungo, e per tanti anni è rimasto in attesa di poter esprimere le sue idee e il suo cinema. In un certo senso è stato osteggiato per la sua diversità, per aver realizzato dei lavori che probabilmente non erano ritenuti rappresentativi. Per quanto riguarda me, in Italia non è così facile realizzare qualcosa di diverso dallo standard visivo paratelevisivo del Paese. Se lo fai hai dei problemi, probabilmente perché a nessuno interessa. Puoi riuscirci soltanto grazie a produttori illuminati pronti a rischiare per amore del cinema. Forse per questo si sceglie di utilizzare lo strumento del documentario, che ti lascia libertà maggiori e non sei soggetto all’industria produttiva. Credo che il documentario è qualcosa che appartiene al cinema, poi dipende da come usi questo strumento. Detto ciò, mi piacerebbe tantissimo girare un film di finzione.