Ci sono dei momenti, al cinema come nella vita, in cui ci ritroviamo a ridere ben consapevoli che non dovremmo. Ma mentre nella vita comune questi scoppi di ilarità sono un meccanismo che possiamo cercare, con ragioni diverse, di interrompere o arginare, sullo schermo il libero sfogo è invece per noi pre-organizzato da una messa in scena ben precisa che gioca e orienta le nostre reazioni.

In Polisse la regista Maiwenn segue da vicino il lavoro di una squadra della Sezione Protezione Minori di Parigi. Cosi da vicino che la storia stessa comincia proprio da Maiwenn, o meglio dal suo alter-ego, una giovane fotografa borghese ma insofferente al suo milieu (ma il perchè non si sa) che viene incaricata dal Ministero degli Interni di documentare il lavoro di quei poliziotti che ogni giorno si confrontano con abusi, casi di pedofilia, stupri e altre atrocità. E quindi via a perdersi per le strade di una Parigi grigia e fredda, dove gli unici angoli veri e sinceri saranno quelli brulicanti di immigrati a Belleville, via a perdersi in un fluido scorrere di clichés strutturati in un tira-e-molla continuo: scene corali di tensione/scene corali di risate per esacerbare la tensione, scene di bambini in difficoltà/scene di poliziotti che si commuovo o incazzano, sguardi di corteggiamento tra colleghi/sguardi di odi o gelosie tra colleghe, ecc.

Le fonti di ispiarazione per la messa in scena ibrida come quella di Polisse sono varie e, al di là di qualche involontario riferimento al cinema francese, è di fatto la matrice televisiva l’origine rivendicata dalla stessa Maiwenn: Enquete d’Action (una sorta di inchiesta stile Rai 1), rivisitato mescolando elementi d’intreccio poliziesco e Real TV (ogni scena viene filmata con tre telecamere digitali) alla struttura episodica di certe serie comiche commerciali tanto popolari sui canali francesi. Da un lato una società francese (su misura della sola Parigi) dove chiunque puo’ essere un genitore violento o un adolescente senza una guida, dall’altro una brigata-famiglia, forte e fragile, rumorosa e ruvida ma dal cuore grande, che urla corre grida s’indigna piange e infine ride e scherza per filtrare gli orrori del genere umano. Ma qui sta l’equilibrio sfalsato, qui Polisse si rivela per cio’ che, volente o nolente, in fondo è: un  feuilletton in linea con la televisione negli anni di Sarkozy, dove per ogni problema c’è una speciale  corpo di polizia che veglia notte e giorno e un’emissione di divulgazione pronta a filmare e tranquillizzare.

Preso questo declivio, Maiwenn non sa arginare la deriva, si fa prendere più delle vicende private dei suoi poliziotti, dalla messa in scena della sua stessa relazione ( Joeystarr è il suo compagno nella vita) e di se stessa (i dettagli biografici sono disseminati ovunque) e si permette di tutto, accumula, strafa, in una megalomania inconsapevole che non le permette alcuna presa di distanza. E mescola tutto perchè tutto sembra per lei poter coesistere sulla stessa superficie e a vere lo stesso spessore, dai i padri-padroni alla pizza al tartufo.

Ma soprattutto, in camera a spalla affinché l’effetto documentario e la tensione del montaggio rendano assimilabile il superficiale al vero, scivolano battutte e risate che, perso un po’ di vista l’impegno sociale, rivelano una scrittura e una regia troppo immatura per mantenere una sguardo dritto, anche a livello formale, su una tematica cosi difficile. Il risultato è che, dopo la prima metà del film, dopo che si è (e per forza) pianto di fronte ad un bimbo che non vuole separarsi dalla madre,  ci si trova a ridere di un’altra madre che masturba un bebé per farlo addormentare o a non notare la gratuità di uno scambio di battute davanti ad un feto morto. Cosi le risate cominciano a trascinare verso il basso, perché la messa in scena non sembra più garantire il rispetto necessario per le sofferenze delle vittime e il film si fa in fondo pericolosamente ingenuo, pretenzioso, formalmente degenerato, e problematico da un punto di vista morale.

La volontà di usare l’umorismo nella sua facoltà di auto-difesa per i personaggi scivola nel rischio che si rida a costo delle vittime e non più per esorcizzare le atrocità denuciate, perchè nella struttura stessa della narrazione, nei ritmi della scena e nella durata delle inquadrature, Maiwenn sceglie di mettere al centro non più la gravità degli atti, quanto la sdrammatizzazione degli stessi. Alla fine di Polisse rimane il senso di aver assistito a qualcosa di ambiguo, ad una malsana giostra di  comportamenti umani (gelosia, scontento, gelosia, malattia, attrazione, dolore, …) dove i bambini sono solo un pretesto (l’affiche d’altra parte, in un certo senso, diceva già tutto : gli attori col volto coperto dalla fotografia di un viso infantile) per mettere in scena un voyeurismo sugli adulti, un voyeurismo per Maiwenn forse necessario istintivo e narcisista perchè risultato o mezzo per esorcizzare un passato violento, ma anche inconsapevole di come la grazia stia più spesso nel non fare tutto cio’ che passa per la testa.

Il senso drammatico, superficiale e talvolta sgradevole di Maiwenn, d’altra parte, era forse prevedibile. In uno dei suoi film precedenti, Pardonnez-moi, si metteva in scena mentre affrontava, ormai adulta, il padre violento: tenendo una video-camera in spalle e leccando un chupa-chups.

Polisse, regia di Maïwenn Le Besco, Francia 2011, 134′