Uno strano rimpiattino ha marcato la filosofia del diritto, o meglio, la legal theory negli Stati Uniti. In principio erano i realisti all’inizio del secolo XX, ad affermare che il diritto, ossia la tecnica giuridica (quei «calcoli» che per Derrida non possono essere «la giustizia», ma riescono solo ad avvicinarsi asintoticamente ad essa [1]), non può essere seriamente studiato, se non in rapporto ad altre aree della cultura umana. Un grande teorico del realismo, Roscoe Pound, può scrivere una introduzione alla filosofia del diritto nel 1922, dichiarando, con enfasi mistica, di essere alla ricerca di una «ultima Thule» del diritto (2), o meglio, della legge, attraverso il pensiero filosofico. Resta tuttavia fermo il fatto che la sua teoria, la sua jurisprudence, si conserva fortemente sociologica, ancorata alla concretezza della storia e delle decisioni dei giudici che fanno la legge. Anni dopo il realismo, lo stesso afflato antiformalista si avverte pienamente nei cosiddetti Critical Legal Studies, il movimento di chi studia nella law school durante gli anni del Vietnam e della contestazione ma, insieme a Costituzione, contratti e tort, respira anche Marcuse, Horkheimer e Adorno, Erich Fromm e la critica cinematografica di Pauline Kael e Andrew Sarris.

Gli esponenti di questo movimento nondimeno, più che creare nuove discipline, rispolverano in chiave radical vecchie elaborazioni: law and literature in primis, ossia legge e letteratura (indicata spesso in lingua italiana con “diritto e letteratura”), la teoria sociologica del diritto, la filosofia del diritto rivisitata dai francofortesi di Berkeley e di New York… tutte più o meno tendenti ad una ricostruzione genealogica della cultura giuridica che si mostri capace di smascherare le ideologie che reggono i suoi calcoli. I giuristi e i teorici critici dunque, non fanno altro che rilanciare la “palla prigioniera” dei realisti, cambiando le regole e mutandola in una “palla avvelenata” alla tintura di nichilismo. Un nichilismo che, essendo scaturito da menti “liberali” statunitensi non può mai essere totalmente tale, così da rischiare di addentrarsi troppo negli abissi continentali dell’(eterno) non  ritorno. Esso è pur sempre condito di speranza, come afferma Allan Bloom (3).

Sull’ammirazione per Nietzsche aleggia pur sempre lo spettro della perfettibilità dell’uomo. Basti verificare come tale disvelamento della macchina delle false coscienze abbia, per molti studiosi americani, una sola finalità costruens: maggiore equality, più parità tra i sessi, meno discriminazione, un settore giuridico più democratico, o, per usare un’espressione riassuntiva di Robert Cover, l’invito di nuovi mondi (4) nella legnosità del conservatorismo metodologico.
Law and Film, ossia legge e cinema, è uno dei tardi prodotti di questo particolare clima culturale. Presente fin dalla fine degli anni Ottanta in diverse pubblicazioni, solo con gli anni Novanta la pratica è stata perseguita in maniera organica da studiosi di diverse provenienze: soprattutto da teorici del diritto, ma anche da esperti di mass-media e da sociologi del cinema. L’area geografica dove la disciplina di legge e cinema è nata e si è maggiormente sviluppata si individua, per ovvia filiazione teorica, negli Stati Uniti; di conseguenza, quasi tutte le riflessioni appartenenti al movimento riguardano la teoria generale e la pratica del common law nella sua declinazione americana.

Recentemente tuttavia, si è registrato un crescente interesse nei confronti di questa particolare materia comparatistica “congiuntiva” in Gran Bretagna e in Spagna: in quest’ultima, legge e cinema è divenuto un argomento di particolare interesse per i filosofi del diritto, al punto che la casa editrice accademica Tirant lo Blanch ha aperto una collana dedicata esclusivamente ad essa. In Italia soltanto un filosofo del diritto, Paolo Heritier, ha dedicato alcune riflessioni a una serie di rapporti tra l’immagine cinematografica e la teoria giuridica, in particolare con riferimento alla filmografia di alcuni registi come Wim Wenders e Jean Vigo. Negli Stati Uniti d’altro canto, è ormai facile che anche studiosi di media e di sociologia del cinema inseriscano notazioni e speculazioni appartenenti all’area, in studi di carattere più generale; nondimeno, anche certuni giuristi, interessati alle teorie del postmoderno ed ai rapporti del diritto con la cultura pop, come ad esempio Richard Sherwin, dedicano interi capitoli di loro opere all’analisi di testi filmici ed a particolari teoriche, nate nell’ambito degli studi sul cinema. Tuttavia, trattamenti monografici di questo movimento sono ancora pochi; vi sono numerose raccolte di saggi ed alcuni studi dedicati però ad argomenti specifici interni all’area, come l’applicazione della feminist theory ai film giudiziari, studi giuridici sull’industria cinematografica, o saggi sulla rappresentazione degli uomini di legge nel cinema (5).

Una questione imbarazzante e della quale sarebbe meglio tacere, qualora si stia trattando di un movimento intellettuale (o artistico), è la diabolica probatio dell’origine storica. Certo non abbiamo la pretesa o l’ingenuità di voler porre inutili paletti, per determinare quando si è parlato per la prima volta di un qualcosa che potesse essere sussunto nell’ambito di legge e cinema. Ciò nonostante, non ci sembra peregrino affermare che uno dei saggi più ambiziosi ed interessanti, dal punto di vista ermeneutico, che costituisce una cesura netta rispetto a discorsi più convenzionali sulla rappresentazione della categoria del giuridico nel cinema (trial movies e quant’altro), è pubblicato nel 1997 dalla studiosa Christine Corcos. Esso si incentra sulla rappresentazione delle politiche ambientali e della environmental law statunitense in Ghostbusters (1984) di Ivan Reitman (6). L’intento dell’articolo non è solamente didattico, ad uso e consumo delle law school americane, ma è fondamentalmente bipartito: da un lato, si ripercorre una sorta di storia sociale della politica ambientale negli Stati Uniti attraverso alcune rappresentazioni fornite dalla pellicola, senza perdere di vista l’immagine che di esse si costruisce, negli anni, la popolazione americana; dall’altro invece, è possibile rinvenire una questione filosoficamente e metodologicamente centrale, nello stesso linguaggio utilizzato dalla Corcos. Prima di introdurre alcune reali questioni giuridiche presenti nel narrato (attinenti a numerosi aspetti del diritto costituzionale statunitense e a concetti del common law), la studiosa si riferisce a tali problematiche con la locuzione di threshold questions, ossia domande-soglia. Il concetto stesso di soglia, che permette esegeticamente di unire il mondo della cultura pop di Ghostbusters e l’ambito del diritto nordamericano, è uno strumento ermeneutico abissale nelle mani di quel comparatista, il quale voglia, come dice Robert Cover, invitare nuovi mondi. La soglia, che assume infatti un ruolo decisivo in una filosofia comparatistica e genealogica come quella elaborata da Giorgio Agamben (7) (non a caso di formazione giuridico-politica), vive linguisticamente in quell’and (la e) che congiunge legge e letteratura, legge e cinema, politica e teologia, ecc., divenendo l’inevitabilità metodologica delle teorie che si prefissano di essere autenticamente critiche.

Queste discipline che abbiamo denominato “congiuntive”, rifiutando di fossilizzarsi su un solo ambito, agiscono proprio alla ricerca di queste possibili soglie, abissi tra differenti ontologie sociali, che aiutano a comprenderne e a disgelarne calcoli, ideologie ed origini, utilizzando quest’ultimo termine per designare un Anfang che sia suscettibile di analisi mitografica e non meramente storica, la quale però trovi continua vivificazione nelle pratiche umane e negli oggetti di comprensione che devono essere al centro dello studio umanistico (8). Lo stesso metodo conduce un teorico del cinema come Jean Mitry ad affermare che l’origine del cinema (e dell’arte) risiede nel sentimento religioso, o il filosofo Stanley Cavell a fornire la declinazione laica (ed a suo modo fenomenologica) della stessa questione, quando avverte che l’ontologia dell’immagine cinematografica è connessa con la magia, la meraviglia e il mondo ctonio. Un teologo francese, il gesuita Amédée Ayfre, che fu amico e collaboratore di André Bazin, in numerosi saggi e interventi, si è confrontato con un vero e proprio inquadramento teologico del cinema e delle teoriche della visione, anche dal punto di vista sociologico e psicologico. La filosofia del cinema elaborata da Ayfre consta di molti punti abissali, nei quali l’autore arriva ad affacciarsi sulla soglia tra il dispositivo cinematografico e la legge. Interessante da tale punto di vista è il suo discorso sui rapporti tra la creazione di Dio ex nihilo e la rielaborazione di ciò che egli considera a priori come “il creato”, i quali si risolvono nella libertà che il regista (o l’artista in generale) ha in concessione dal sovrano. Ancora è degna di attenzione la potenziale comparazione tra l’indirizzo fenomenologico che sottende le elaborazioni di Ayfre e la filosofia del diritto dei fenomenologi. Punti di contatto sono ad esempio istituibili con i cosiddetti concetti giuridici a priori sviluppati da Adolf Reinach, fino ad esempio allo studio dei rapporti tra i “soggetti parlanti” sotto l’egida della terzietà del diritto, proposto in Italia da Bruno Romano, il quale possiede numerose consonanze con la teoria di Ayfre secondo cui il cinema fungerebbe da terzo “mediatore” nei rapporti col prossimo, nella sala e sullo schermo (9).

Carl Schmitt, che è senza ombra di dubbio uno dei massimi ispiratori delle discipline comparatistiche congiuntive, ha individuato in maniera assai convincente la progressiva secolarizzazione dei concetti teologici nei concetti giuridici e politici che tutt’ora conosciamo: operazione congiuntiva e genealogica fondamentale per la cultura della modernità e del postmoderno. Parlando dei topoi, dei luoghi comuni alle varie liturgie, Schmitt ha sepolto in una nota del suo Il «nomos» della Terra, un riferimento alla proiezione cinematografica come uno dei tanti riti sociali (come il processo, la messa ecc.), che necessita appunto di precisi luoghi (10): la sala cinematografica, la chiesa, l’aula di tribunale e via dicendo. Schmitt già intravede, quindi, una delle possibilità più fertili nel campo della teorizzazione su legge e cinema: quella della geopolitica della visione, ossia della gestione dello spazio cinematografico, sia nell’accezione sociologica cui egli si riferisce, sia come amministrazione dello spazio stesso del film, al fine di veicolare determinati sensi del figurativo, dando vita al pensiero figurale. In entrambi i casi sarebbe possibile istituire fecondi paralleli tra teorie di tipo giuridico-politico e alcune elaborazioni, ad esempio, di un semiologo del cinema come Christian Metz. Si pensi alla trattazione psicanalitica di questo studioso dello spazio costituito dalla sala cinematografica, delle sue strategie fascinazione e significazione (11), o, per ciò che riguarda una vera e propria teoria normativa dei luoghi del film, il suo ultimo, definitivo ed abissale studio sull’enunciazione impersonale. Per Metz, il luogo del film è retto da istanze risultanti da una vera e propria autopoiesi delle regole, che esso stesso tende ad enunciare con modalità tutte testuali e mai «antropoidi» (12). Si ha l’impressione che egli stia parlando della “macchina” del diritto, o del sogno di una codificazione in grado di essere autoconclusiva; in entrambi i casi, tuttavia, si tratta del mito dell’ordinamento, del testo e come testo. Tutto ciò dovrebbe portarci ad affermare che è possibile una ulteriore congiunzione all’interno di legge e cinema: quella tra la filosofia del diritto e le teorie del film, aree che ponendosi entrambe come speculazioni su oggetti di cui è postulata, perlomeno, un’esistenza socialmente concordata, si caratterizzano fondamentalmente come ontologie. Nelle discipline comparatistiche congiuntive, i diversi mondi possono invitarsi a vicenda condividendo il postulato di un essere sociale.

NOTE

(1) Cfr. Jacques Derrida, Forza di legge. Il fondamento mistico dell’autorità (1994), Torino, Bollati Boringhieri, 2003, soprattutto pp. 75-80, ma in generale, tutta la prima parte.
(2) Roscoe Pound, An Introduction to the Philosophy of Law, New Haven & London, Yale University Press, 1922, p. 144. 
(3) Cfr. Allan Bloom, The Closing of the American Mind, New York, Simon & Schuster, 1987, la parte seconda, in particolare: pp. 141-156.
(4) Robert Cover, Nomos e narrazione. Una concezione ebraica del diritto (1983), Torino, Giappichelli, 2008, p. 92. 
(5) Si rimanda alla bibliografia.
(6) Christine A. Corcos, «Who Ya Gonna C(S)ite? Ghostbusters and the Environmental Regulation Debate», in: Journal of Land Use and Environmental Law, vol. 13, n. 1, Fall 1997, disponibile all’URL: http://www.law.fsu.edu/journals/landuse/Vol131/CORC.HTMl.
(7) Si veda l’uso che Agamben fa del concetto nel suo recetissimo Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.
(8) Mi richiamo negli intenti e nel linguaggio, ad una corrente multidisciplinare della comparazione giuridica italiana, per la quale rimando a due saggi che potrebbero fungere da manifesto: Pier Giuseppe Monateri, «Griffyndor. Un comparatista alla scuola di Hogwats», in: Valentina Bertorello (ed.), Io comparo, tu compari, egli compara. Che cosa, come, perché?, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 209-221 e Cristina Costantini, «Comparazione giuridica, ontologia politica e rappresentazione», in: Pólemos, n. 2, 2010, pp. 131-157. 
(9) Su Ayfre mi permetto di rimandare a: Enrico Cassini, «La teologia dell’immagine di Amédée Ayfre. Fenomenologia, fonti del diritto e schermi cinematografici», in: The Cardozo Electronic Law Bulletin, n. 16, Spring-Summer 2011, presso: http://cardozolawbulletin.blogspot.com/2011/06/law-and-cinema.html. 
(10) Si è utilizzata una recente traduzione in lingua inglese: Carl Schmitt, The «Nomos» of the Earth in the Law of the «Jus Publicum Europæum» (1950), New York, Telos Press, 2006, p. 50, n. 1.
(11) Contenute nella prima parte di Christian Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario (1977), Venezia, Marsilio, 1997, pp. 9-82.
(12) Cfr. Christian Metz, L’enunciazione impersonale, o il luogo del film, Napoli, ESI, 1995, soprattutto il capitolo III. Il libro è tuttavia una sorta di inestricabile “flusso di coscienza teorico” di cui è difficile ordinare i contenuti.

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