Il tabù del cinema contemporaneo è il tempo. Siamo prigionieri del tempo, non possiamo sfuggirgli: lo evochiamo, lo rimpiangiamo, lo ricostruiamo, lo riscriviamo. Viverlo, invece, no: niente presente, solo passato. Al massimo un futuro distopico.
Oltre le lancette ferme di Zemeckis e l’ingranaggio bloccato dei Coen, il tempo materiale del cinema domina ogni forma di narrazione, scorre all’indietro nella stazione di New Orleans di Il curioso caso di Benjamin Button, impone il proprio passo inesorabile, moltiplicato per cinque, in Twixt di Coppola, vaga fluido per le decadi in Midnight in Paris e in Hugo Cabret, nella sovrapposizione tra Harold Lloyd e il piccolo orfano appeso alle lancette di un quadrante, rimane l’ultimo appiglio prima del vuoto.
Nel cinema contemporaneo il sentimento del tempo si è ribaltato nell’evocazione del tempo di un sentimento: il sentimento, cioè, che lega il mezzo alla propria storia e a quella tragica del secolo che lo ha visto prosperare. L’automa che chiude Hugo Cabret, in fondo, con il suo sguardo muto e impassibile, evoca gli orrori a cui il cinema farà da testimone, con gli occhi ciechi aperti sulla realtà ma incapaci di vedere.

Perché lo sappiamo fin troppo bene che il cinema guarda e non sempre vede: e quindi non fa strano che ora si sia deciso a rivolgere lo sguardo soprattutto verso se stesso. Ad occhi chiusi, come i sognatori di Inception o il marine in missione virtuale di Avatar; oppure sovrapponendo ere storiche ed ere cinematografiche, il muto e il digitale, come fa il Raya Martin di Independencia, che evoca la liberazione delle Filippine dalla dominazione spagnola e americana ricostruendo il cinema d’epoca coloniale, tra agli anni ’10 e ’20 del secolo scorso. Sovrappone messinscena e retroproiezione, adatta il passo fasullo del digitale a quello claudicante della pellicola muta, vira i colori verso il giallo della pellicola lisa (insomma tutto quello che The Artist evita accuratamente di fare). Il cinema di oggi incontra il cinema di allora in una foresta dove il tempo e lo spazio hanno regole illogiche, e così facendo redime la Storia dalle proprie bugie e dall’oblio a cui ha condannato una guerra dimenticata.
Raya Martin resta sospeso nel vuoto e crea un mondo di fantasia da un residuato di memoria inesistente; il suo sguardo è politico, usa la memoria come sentimento per ridestare un mondo invisibile e per sconfessare un cinema scomparso della colpa di non raccontare il presente e di soffocarlo con la sua patina fasulla: altro che malinconia! In Independencia la ricostruzione dei film anni ’20, più che riportare in vita il tempo ne sottolinea l’inesorabilità, lasciando alla nostalgia fantasmi di corpi e di sentimenti.

E ancora più a fondo in un mondo di fantasmi e di liquide evocazioni del passato si spinge il film più bello visto alla recente Berlinale: Tabu del portoghese Miguel Gomes (uno degli autori più interessanti del cinema europeo, libero giocoliere del cinema come macchina delle meraviglie), anch’esso un viaggio a ritroso nelle forme del muto d’inizio secolo, dove il melodramma incontra tre epoche, prima gli anni ’20, poi il Duemila e infine gli anni ’60.
Fin dal titolo il film si rifà a Murnau, ma non concepisce la citazione o l’omaggio come un atto dovuto. Al massimo come un gesto creativo e anche in questo caso politico. Ovviamente Tabu racconta di una fuga d’amore in una terra selvaggia (l’isola di Capo Verde), ovviamente mette in scena un sacrificio (ma solo d’amore), ed evoca il muto con la sua impacciata fisicità attraverso un onirico viaggio nel tempo, che del sogno ha il carattere illogico e imperscrutabile. Quello di Gomes non è, come ancora vorrebbe essere The Artist, un omaggio alle forme ingenue del cinema che fu: è il racconto dell’impotenza del desiderio di fronte allo scorrere del tempo, sia materiale sia personale, sia storico sia cinematografico.

Il suo vero soggetto è l’inattualità di ogni forma di racconto: l’inattualità del melodramma, del cinema muto degli anni ’20, dei musicarelli anni ’60, di una storia d’amore già vista e dannata. Il muto, con le sue imperfezioni e la sua ironia inconsapevole, è prima ricostruito, poi abbandonato per una parentesi realista, poi ripreso, ma raccontato da una voce off e completamente rimescolato: ambientazione fuori tempo massimo, musica diegetica ad accompagnare le immagini, parole assenti o incomprensibili. L’oblio è l’unica forma di linguaggio del passato e il cinema resta in vita come materia inerme.
Il discorso di Gomes, invece, è attuale, attualissimo, poiché la debolezza di ogni forma di rappresentazione deriva dalla debolezza del contesto politico in cui è prosperata: il colonialismo portoghese, l’imperialismo delle potenze europea che ancora a metà ’900 tenevano in vita il loro traballante potere. In Tabu il cinema muto è un discorso fiabesco e antistorico perché segno di un tempo irrecuperabile e fuori dalla Storia; qualcosa che resta nel cuore, come l’amore impossibile tra i due protagonisti del mélo, e che può rivivere solo come racconto mitologico, in voce off, distante dalla realtà e dalla vita.

Gomes, come Scorsese come Raya Martin come Coppola, resta sospeso alle lancette, e in quel vuoto fa vorticare il suo cinema all’apparenza nostalgico, mescolando le carte, inventando un linguaggio inedito dove la leggerezza da nouvelle vague dialoga con la distanza emotiva del muto.
Il tempo del sentimento, come mostra Fincher, scorre all’indietro e prima poi arriverà allo zero. Gomes, però, quello zero l’ha già individuato: nella storia del ’900, nel suo incidere impersonale che a un certo punto ha azzerato un’intera società, un’intera idea di mondo, e l’ha messa in discussione. E così facendo ha spezzato il tabù del tempo, restituendocelo in tutta la sua inesorabilità.