Un’annata straordinaria per film e video d’avanguardia – molto più di quanto si fosse previsto per il 2011 – si è accompagnato a un momento di dolore e commemorazione verso la metà dell’anno, quando una serie di successive scomparse ci ha ricordato che molte delle grandi voci dei pionieri degli anni Sessanta e Settanta (generalmente considerati come la seconda ondata dell’avanguardia cinematografica, tra coloro che hanno tracciato i contorni del “New American Cinema”) era arrivati o erano vicini alla fine delle loro esistenze. Il 2011 si è portato via l’anarchico filmmaker lituano Adolfas Mekas, il leggendario maestro dell’animazione Robert Breer, quell’enigmatico giullare che era Owen Land (aka George Landow), il compositore di musiche visive Jordan Belson, l’inimitabile supernova dell’underground camp, fanatico del trash e gemello impareggiabile George Kuchar, così come il maestro franco-cileno Raoul Ruiz e il bad boy britannico Ken Russel, entrambi avanguardistici nelle loro allucinanti (e molto diverse) maniere.

Tuttavia, sarebbe prematuro e superficiale proclamare un cerimoniale cambio della guardia. Tre fra i più grandi artisti dell’immagine in movimento (quanto a consistenza e prolificità), al lavoro da più di quarant’anni, si mostrano senza alcun dubbio al culmine del loro percorso. Nathaniel Dorsky, Ken Jacobs e James Benning – gli ultimi due in un’esplorazione del regno digitale secondo modalità rivelatrici, rinvigorenti e al loro meglio imperscrutabili – vengono più che giustamente acclamati come tre degli artisti più importanti di oggi.

Anche se tutti e tre lavorano come pittori, ognuno continua le proprie peculiari tessiture e preoccupazioni tematiche in modi che sono insieme sospetti e inconsapevoli. In The Return vediamo Dorsky rivisitare quel terreno ventoso, crepuscolare, luccicante che gli è familiare, come se col suo 16mm cospirasse contro la sua sparizione. Ma lo splendore da vetrata che è diventato caratteristico del suo lavoro viene colto a tratti da momenti perturbanti (nel senso autenticamente surrealista del termine), come quando mani volteggianti conducono un’animata ma silenziosa conversazione orchestrale, rimandandosi parole visibili e invisibili comunicate dall’incontro casuale con pezzi di nastro adesivo, o un carrello destabilizzante che punta magniloquente verso i cieli, solo per smascherare la nostra inevitabile goffaggine in questa esperienza chiamata vita.
Più oscuro, nel tono e nel colore, di molti suoi lavori recenti, The Return è anche molto più psichedelico e infuso di uno humor scaltro che blandisce le tradizionali definizioni della grazia. Il film è stato presentato nella sezione “Wavelenghts” del festival di Toronto, mentre nella sezione “Views from the Avant-Garde” del New York Film Fest è stato accompagnato dallo splendido (a quanto si dice) Words of Mercury di Jerome Hiler, filmmaker e mastro vetraio.

Intanto con Seeking the Monkey King, e le sue nozze esplosive di bellezza metallica e veementi dichiarazioni politiche, Ken Jacobs ha infranto alcune illusioni – non solo quelle ottiche, ma anche quello che troppo spesso assumono una posizione dittatoriale nella storia dell’immagine. Jacobs è l’artista meno compiaciuto che possa esserci, radicale oggi quanto lo è sempre stato. Qui ci seduce con foglia d’oro (subito affiorano in mente reliquari e icone medievali) e un blues cristallino, frenetico, che ci scuote, ridacchiando e schernendoci con la sua brillantezza, mentre un cosmo pulsa oscillando tra 2D e 3D, tra fuoco e fuori-fuoco, stimolando la nostra percezione mentre il crollo della Storia getta la sua diabolica ombra.
Reagendo ai tempi tragici e turbolenti in cui viviamo, Jacobs consegna ai sottotitoli un testo straordinariamente incisivo, mentre l’intensa colonna sonora psico-acustica di J. G. Thirlwell (il fu Foetus) accresce il ribollire di questo Monkey King. È vero, “l’America è una finzione” e sta a noi interpretare le immagini Rorschach del suo passato riciclato: Monkey King fa un bel paio con un altro compare dissidente, Film Socialisme di Jean-Luc Godard, che segue le tracce dell’oro saccheggiato fino ad Hollywood e utilizza sottotitoli criptici e assertivi come fossero un requiem per l’umanità, vittima delle ciclicità dell’imperialismo.

Da quando ha acquistato una videocamera digitale per girare Ruhr (2009), James Benning è stato letteralmente inarrestabile, producendo una quantità di film e installazioni ogni anno. Il 2011 ha dato diversi frutti, a cominciare da Twenty Cigarettes, che ha debuttato a febbraio nel Forum della Berlinale e si è fatto strada nel circuito dei festival.
Un film-ritratto warholiano, ingannevolmente semplice, Twenty Cigarettes è palesemente un film sulla durata, ma è ricco di significati e tocca in profondità alludendo agli Screen Tests tanto quanto alla vita e alla carriera dello stesso Benning. Una scorpacciata di Benning si è fatta all’Australian Filmmuseum a novembre, dove Ruhr e Twenty Cigarettes sono stati proiettati insieme al glorioso restauro in 35mm di American Dreams (lost and found) (1984), una nuova copia 16mm di Landscape Suicide (1986), oltre all’anteprima mondiale di quattro nuovi lavori: Two Cabins, Small Roads (a rischio capolavoro), You Tube Trilogy: 4 Songs, History, Asian Girls e Faces (e grazie a Cassavetes) accompagnato da un volume di splendida fattura (FC) Two Cabins by JB, curato da Julie Ault e pubblicato da A.R.T. Press.

Tuttavia, il 2011 se l’è largamente aggiudicato Ben Rivers, l’artista-filmmaker inglese che ha avuto tre film importanti esibiti contemporaneamente in più continenti, in grandi, medi e piccoli festival: l’epica futuristica in quattro parti Slow Action, che è stata mostrata sia come opera cinematografica sia come installazione, il corto vincitore del Baloise Art Prize, Sack Barrow, e il suo debutto al lungometraggio, Two Years at Sea, che ha guadagnato il FIPRESCI a Venezia e il premio principale al CPH:DOX. Lavori distinti che riuniti rivelano un’ancor più distinta impronta autoriale e che Rivers approfondisce indagando mondi che scompaiono e forme ibride, chiamando in causa la fantascienza, la fiaba e l’etnografia. Tornando a visitare l’abitatore delle foreste che era stato il soggetto del suo This Is My Land (2006), Rivers osserva una figura senza nome dall’aspetto faunesco (Jake Williams), che vive nel più completo isolamento svolgendo i rituali quotidiani che sostengono lui e la sua libertà. Nonostante la forma austera e sottile/sotto tono, Two Years at Sea è riscaldato da una generosità di visione, di spirito e di sottile humor. Le sue sublimi immagini panoramiche si librano e si stagliano/sollevano su un uomo che vive la propria vita e l’osservazione prolungata si trasforma in meditazione (per lui e per noi). Ogni fotogramma del film crepita di vita – e di magnifiche nature morte – mentre un orologio ticchetta abbondantemente anche se il tempo si è fermato. In qualche modo all’opposto di The Turin Horse di Bela Tarr, Two Years at Sea offre canti d’uccelli anziché venti ululanti, la libertà invece dell’imprigionamento, un soffio di melanconia nostalgica piuttosto che la disperazione nietzscheana. Stupefacente, toccante nella sua discrezione silenziosa, è il debutto di un importante futuro autore. Rivers è già in produzione per il suo prossimo lungometraggio che sarà co-diretto con l’amico e collaboratore Ben Russel, che con River Rites torna al fiume Surinam e al piano-sequenza della camera a mano sinuosa del suo primo Let Each One Go Where He May. I due Ben hanno curato insieme un programma al CPH:DOX di quest’anno, intitolato come il loro prossimo A Spell to Ward Off the Darkness. Sono partite scintille quando una copia di Lucifer Rising di Kenneth Anger ha misteriosamente preso fuoco e una strana sessione di aerobica filmica si è diffusa spontaneamente alla folla scatenata.

I due Ben non sono comunque soli nel loro interesse per l’etnografia. Molti lavori importanti di quest’anno hanno adottato un approccio pseudo-etnografico, sia esso tradizionale, come nel caso di Robert Fenz con lo studio di frontiera The Sole of the Foot e il suo omaggio a Robert Gardner Correspondence, genuinamente lirico in Broad Channel di Sarah J. Christman, crudo e personale come in Jan Villa di Natasha Mendonca che ha vinto il Tiger Award, originale e idiosincratico negli studi sul Bosforo di Jonathan Schwartz Between the Gold e A Preface to Red, e d’improvvisazione in 28.IV.81 (Descending Figures) di Christopher Harris, doppio ritratto in 16 mm del parco a tema sacro Holy Land Experience di Orlando, in Florida.

E se l’imminente scomparsa della celluloide ha dato vita a un costante e spesso lamentoso discorso di sottofondo, con i laboratori in chiusura che hanno spinto gli artisti ad affrettarsi affannosamente verso altri confini (principalmente Amsterdam e il Canada), il 2011 si è dimostrato l’anno del lungometraggio sperimentale. In aggiunta ai già menzionati vanno segnalati The Ballad of Genesis and Lady Jaye di Marie Losier, molto amato dai festival internazionali, il minuzioso Voluptuous Sleep di Betzy Bromberg, il presciente Low Definition Control di Michael Palm, The Three Disappearances of Soad Hosni di Rania Stephen (anche in veste installativa presso la P.S.1), The Rivers and My Father di Luo Li’s e Les Éclats (ma gueule, ma révolte, mon nom) di Sylvain George. Il più atteso di tutti, probabilmente, era il primo lungometraggio di Lewis Khlar, The Pettifogger, un sontuoso collage noir che si abbandona ad intense astrazioni sublimate.

La retrospettiva dell’anno, senza rivali, è stata la grandiosa e spettacolare “Radical Light: Alternative Film and Video in the San Francisco Bay Area 1945-2000” (Pacific Film Archive), curata da Kathy Geritz, Steve Seid e Steve Anker e accompagnata dall’omonima pubblicazione. Dieci anni spesi nella concezione e nell’organizzazione del progetto: la monografia è un contributo imperdibile alla storia e allo studio del cinema sperimentale.

Altre chicche del 2011 (e sono tante!) includono Quality Control, il sorprendente lungometraggio di Kevin Jerome Everson, ritratto in bianco e nero dei lavasecco dell’Alabama (per non dire della sua eccellente esposizione al Whitney Museum of Art); l’esordiente Blake Williams con il suo Coorow-Latham Road, creato utilizzando Google Street View; lo scintillante These Blazing Stars di Deborah Stratman; il minaccioso Conference in 35 mm di Norbert Pfaffenbichler, collage dei tanti volti cinematografici assunti da Hitler; l’ugualmente inquietante Black Mirror at the National Gallery di Mark Lewis, basato su uno strumento del designer francese Martin Szekely; lo scultoreo Untitled di Neil Beloufa; Devil’s Gate di Laura Krane; My Father Is Still a Communist di Ammad Ghossein; Palacios de Peña di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt (il primo è stato omaggiato da una meritata retrospettiva nella sezione Experimenta del London Film Festival); e varie performance in super-8 del regista Paul Clipson, di base a San Francisco.

Una menzione speciale obbligata va agli archivisti e conservatori Andrew Lampert (Anthology Film Archives), Mark Toscano (Academy Film Archives) e Ross Lipman (UCLA Film and Television Archive) per aver fatto sì che la storia del cinema sperimentale possa essere apprezzata da nuove generazioni (almeno per ora), come nel caso dell’opera di Chick Strand che quest’anno ha circolato ampiamente proprio grazie agli sforzi di Toscano.

Infine, il 2011 è stato l’anno che ha visto fiorire internazionalmente micro-cinema e cineclub, molti dei quali hanno messo in ombra rinomate istituzioni. La loro programmazione, più versatile e autonoma, risponde meglio alle mutazioni globali e, come ha attestato il 2011, il flusso è rapido e dirompente. Siate pronti!

Andréa Picard è programmatrice della sezione sperimentale “Wavelenghts” al TIFF
Testo originariamente pubblicato su Indiewire.com.
(Traduzione di Tommaso Isabella e Alessandro Stellino)