David Fincher ha abituato lo spettatore alla logica del gioco. Niente Huizinga, niente Caillois, niente rappresentazione teatrale dello spazio politico sotto la lente di Schmitt e di Benjamin. Fincher non specula sul gioco, semplicemente raffigura dei giochi. Non importa quanto essi possano apparire estremi, privi di regole, o se contemplino anche il porre fine alla partecipazione di un giocatore (consapevole o meno), privandolo della vita (elemento fondamentale per sussistere anche fuori dal gioco), impedendo così soprattutto, di poter ricominciare un’altra partita, che è forse l’essenza stessa del gioco: la sua sempre differente ripetibilità. Tutto ciò non crea eccessivi problemi; la quasi totalità del cinema di Fincher è elaborata come un corpus dove si muovono dispositivi. Ogni film è un piccolo codice che inscrive, spesso col sangue, le proprie conseguenze su personaggi ridotti non solamente a cosa, ma a dispositivo. La reificazione moderna e poi postmoderna, in Fincher, diviene reductio ad dispositionem: i suoi personaggi non solo seguono determinate regole, sono essi stessi un insieme fisso di regole. Così il poliziotto interpretato da Brad Pitt in Seven non potrà che agire in un modo determinato a monte (perché lui è l’ira) da chi è consapevole del gioco, ossia il killer; i detective non potranno che sbagliare pista in Zodiac e via di seguito.

Anche questo film procede in tale direzione: lo Spielraum all’interno del quale si muovono, con diversi livelli di consapevolezza, i personaggi “codificati” di Uomini che odiano le donne è tuttavia assai vasto. Questo perché la tecnologia ha reso il mondo contemporaneo un enorme spazio di gioco dove quasi ogni componente è riducibile a dispositivo, ad un insieme di regole virtuali. In un primo momento lo spazio è quello della famiglia (quella tradizionale e convenzionalmente marcia dei Vanger, quella sfasciata di Mikael, quella inesistente di Lisbeth) che poi si amplia alla forma-Stato (la Svezia), per poi raggiungere il globo nel finale. I traumi e le idiosincrasie dei protagonisti: l’ateismo del giornalista d’inchiesta, l’aggressività sessuale della giovane punk investigatrice, non sono altro che paragrafi, i quali compongono i dispositivi costituiti dai personaggi. Siamo lontani da qualsiasi discorso di tipo psicologico o ideologico (che pure sono stati fatti); siamo, infatti, solo in presenza di regole che definiscono uno spazio narrativo, un plot: termine che, come ha recentemente sottolineato una teorica del diritto italiana, Cristina Costantini, rimanda alla demarcazione del lotto di terreno, ma anche semplicemente ad un’area circoscritta o ad un diagramma. Lotto, o rappresentazione visiva, che può essere lo spazio privato della famiglia, o quello comune del globo: la sua reificazione, nelle regole violabili di una privacy trasparente, permette ai dispositivi il loro gioco, il quale inevitabilmente, finisce per affascinare lo spettatore al pari del piccolo, programmatico, autonomo (nel vero senso del termine), videoclip iniziale che funziona da preambolo e nel quale il trauma di Lisbeth è pura attrazione figurativa.

Il fatto che i personaggi del film non siano altro che fasci di regole è abbastanza chiaro dal loro agire: Mikael desidera distruggere il corrotto uomo d’affari e vuole arrivare al segreto inconfessabile dei Vanger mediante le parole, tramite segni dunque, fonemi che si ripercuotano sul mondo e che magicamente, facciano emergere la verità dalla realtà; Lisbeth inscrive sulla pelle del suo aguzzino la condanna definitiva, in modo che essa sia visibile a tutti: «sono un porco stupratore», a segnare definitivamente, discrezionalmente (come l’amministratore, il giudice), il ruolo del viscido-assistente-sociale nello Spielraum. Ancora, essi agiscono in concerto, violando discrezionalmente le più elementari regole di rispetto della sfera privata, per un “bene superiore”, per un diritto niente affatto imparziale, ma che forse, è il dispositivo che più si avvicina ad un’idea di giustizia semibendata nello spazio di gioco costituito dal mondo, dove la punizione è proprio l’esposizione della regola: sia essa quella clanica dei Vanger, o i conti esteri che reificano (che sono) l’uomo-d’affari-senza-scrupoli che diviene il correlativo oggettivo del gioco-sporco-del-mondo secondo il protagonista.
Uomini che odiano le donne è dunque un film profondamente postmoderno, che smaschera e si smaschera in un gioco che è anche autoreferenziale e che, con la scusa di proiettare ideologie (discorsi un po’ stantii sulla Svezia luterana, ipocrita e in fondo nostalgica del nazismo, o sul maschilismo della cultura europea), fornisce una mappatura invero non priva di interesse della possibile geografia dei giochi che costituiscono i fragili mattoncini del mondo a noi contemporaneo. Un plot derivato dal romanzo fiume di Larsson che, proprio in quanto diagramma, il quale muta l’intero spazio globale in un lotto di terreno in cui è facile condurre i propri giochi, non poteva non interessare un regista seriosamente ludico come Fincher.                   

Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo), regia di David Fincher, USA/Svezia/Regno Unito/Germania/Canada 2011, 158′