La quattordicesima edizione del Far East Film Festival di Udine, svoltasi dal 20 al 28 aprile 2012, ha dedicato la retrospettiva alla Corea del Sud, concentrandosi sugli anni ’70. Una scelta non aleatoria, per un decennio di passaggio che ha però significato molto nel processo di creazione di identità del cinema coreano, sospeso tra la Golden Age di fine anni ’50 e anni ’60 e la progressiva liberalizzazione iniziata con la fine degli anni ’80.

Si è trattato di un periodo difficile per il paese, sotto il segno del dittatore Park Chung-hee, ex generale dell’esercito, tra i responsabili del colpo di stato del 1961, presidente indiscusso dal 1963. Dal 1971 il suo dominio autoritario – che pure ha portato all’industrializzazione forzata dopo la lacerante guerra di Corea – subisce un ulteriore inasprimento, con una stretta sui diritti individuali, l’aumento della repressione, anche violenta, e un irrobustimento della censura destinato a mitigarsi blandamente solo grazie al suo assassinio, nel 1979.

Sul fronte cinematografico, il decennio consacra scelte politiche inefficaci e confuse, che portano al tracollo dell’industria. Si tratta di misure protezioniste, che però innescano un esacerbato meccanismo di disinteresse verso i prodotti autoctoni. Il sistema messo a punto riserva al cinema nazionale degli slot obbligatori nella programmazione delle sale; inoltre le compagnie di distribuzione devono assicurare la produzione di un certo numero di pellicole coreane per avere la concessione di importare i più remunerativi film stranieri.

Questa doppia tenaglia, nominalmente introdotta per rafforzare l’industria, porta in realtà alla sua rarefazione: i film coreani diventano passatempi senza budget, assemblati in fretta pur di poter distribuire i grandi successi di Hollywood. Il colpo di grazia è portato dalla scure della censura, sempre più miope, soprattutto nella forma preventiva dell’autocensura, che porta ad accantonare in partenza i progetti che si sanno sgraditi al potere. Bastano le cifre a mostrare la decadenza: se nel 1970 erano stati prodotti 209 film locali, nel 1979 sono solo 96, meno della metà. Stesso discorso per il numero di spettatori, stimato in 166 milioni nel 1970 e sceso a 66 milioni alla fine del decennio, quasi un terzo, con il contemporaneo aumento dei biglietti d’ingresso in sala da 73 a 715 won, sostanzialmente decuplicato.

Il clima da smantellamento non significa però che il periodo sia da dimenticare completamente; anzi, nella controllata libertà che si era venuta a creare nascono sperimentazioni che hanno dell’incredibile e tentativi autoriali destinati a dare in seguito i loro frutti.

La retrospettiva “Il decennio oscuro: i registi coreani negli anni Settanta” offre una panoramica variegata di questi anni, in una ideale top ten operata del selezionatore Darcy Paquet. In generale non si tratta quasi mai di film memorabili, ma tutti interessanti nella loro tentacolarità onnivora, che macina generi e idee con sconsideratezza possibile solo nel clima incerto dell’epoca. I dieci film selezionati appartengono a sei registi diversi, due esordienti e quattro veterani, colti però in un momento di mutamento strutturale.

Il regista più noto è sicuramente Im Kwon-taek, attivo ancora oggi e conosciuto per le recenti partecipazioni a festival internazionali (Ebbro di donne e di pittura è passato a Cannes nel 2002, Low Life a Venezia nel 2004): in realtà all’epoca Im si considerava un regista commerciale e solo sul finire degli anni ’70 scopre in sé un interesse per temi e modalità produttive più meditate. I due film presentati riescono a cogliere questo ripensamento in atto: Wang Sib Ri, My Hometown (1976) è il viaggio di ritorno nostalgico di un esule alla sua città natale, dopo quattordici anni di lontananza, in cui il protagonista coglie i cambiamenti intercorsi e cerca una difficile riconciliazione. Un percorso simile a quello del regista, che nel finale sembra finalmente trovare la chiave per tornare ad amare le proprie radici, nonostante la divisione ideologica imperante tra Nord e Sud. A livello stilistico il film rimane incompiuto, una sorta di radiodramma estremamente verboso con sottofondo di immagini di contorno, ma è efficace nella ricostruzione del clima controverso di quel periodo. Più consapevole è il successivo The Divine Bow (1979), che evidenzia il ritrovato interesse di Im per la storia e le tradizioni coreane: ambientato su un’isola sperduta, intreccia melodramma e credenze sciamaniche, in un eden che si rivela con sempre maggior chiarezza una prigione brutale.

Altro autore consolidato è Yu Hyun-mok, noto soprattutto per i capolavori realisti degli anni ’60 come The Aimless Bullet (1961) e Daughters of Pharmacist Kim (1963). Qui vengono presentati due film che hanno come snodo nevralgico il conflitto coreano, due film dalle tematiche simili, girati con grande trasporto evocativo, tra i film più appaganti della retrospettiva. Flame (1975) racconta per flashback incrociati la storia di un soldato apparentemente disertore, che si ritrova a vagare ferito per le montagne. Dai suoi ricordi riemerge l’intera storia della nazione, dall’occupazione giapponese alla guerra. Lo stile denso unisce raccordi sfumati e soggettivi, che inizialmente rifiutano di delineare i fatti con chiarezza, a un grande afflato retorico, in crescendo fino al finale. Il successivo Rainy Days (1979) è ancora più esplicito nel ridisegnare la storia patria a partire dal vissuto personale di un piccolo villaggio montano: narrato tramite i ricordi di un bambino, espone la spaccatura tra Nord e Sud a partire da quella tra due fratelli, verso un finale simbolico dall’alto impatto emotivo, in cui le immagini di un serpente si snodano sinuose insieme a una musica ipnotica, in un esorcismo che rimane impresso nella memoria.

Regista più propenso al cinema di genere è sicuramente Kim Ki-young, noto anche oggi per The Housemaid (1960), da cui Im Sang-soo ha tratto un infuocato remake nel 2010. La retrospettiva consegna due film folli e deragliati in grado di offrire un’immagine esploitativa inedita, rispetto alla censura vigente. Iodo (1977) è ambientato su un’isola al largo della costa meridionale della penisola coreana e presenta una comunità femminile che vive sul mare e grazie al mare. Con flashback successivi, espone la storia di una maledizione che sfalda la comunità, arrivando a mostrare impunemente la penetrazione e successiva eiaculazione del fallo di un morto. A Woman Chasing a Killer Butterfly (1978) è un film squilibrato e scompaginato, ma innervato da una necessità narrativa impellente, che alterna sequenze lisergiche assolute (una macchina che lancia ciambelle di riso ricopre i corpi dei due amanti nel mezzo di un amplesso) a divagazioni metafisiche fuori registro (la “volontà di vivere” mostrata dai protagonisti, in grado di sconfiggere la morte con la sola forza di volontà).

Kim Soo-yong è uno dei registi più prolifici dell’industria coreana, che dopo una serie di successi negli anni ’60, come A Seaside Village (1965) e Mist (1967), continua con successo a sperimentare. Night Journey (1977) segue la vita di una impiegata in banca tra il noioso lavoro e la pericolosa vita sentimentale, spesa in una relazione al di fuori del matrimonio con un collega. Il ritmo è impetuoso, la levatura pop, e l’accanimento verso la povera protagonista un crescendo disperato: la reiterazione mitiga il risultato, ma rimane un modello che in seguito fu riprodotto dall’industria in cerca di  titillazioni pruriginose per il pubblico maschile. Splendid Outing (1978) è invece più interessante, pur se concettualmente simile: segue una donna in carriera con posizioni proto-femministe in una spirale discendente che la porta rapita su un’isola sperduta, dove deve sottostare alla volontà di maschi bifolchi e burberi. Un’esposizione della misoginia intrinseca della società coreana che trova eco ancora oggi in film che a questo devono molto, come Bedevilled di Jang Chul-soo (2010).

Gli ultimi due film presentati sono di due registi più giovani. Pollen di Ha Kil-chong (1972), suo esordio, rappresenta una divagazione sulla famiglia borghese, in cui un ricco industriale sovvenziona l’amante e sua sorella più giovane, mantenute in una casa di campagna: l’arrivo del giovane aiutante dell’uomo scardina però gli equilibri, portando a un eccesso di violenza e morte che trascende nel grottesco, svelando la precarietà di finzioni del quieto vivere borghese. Il film è episodico, incoerente, smodato, ma è anche visivamente ricercato, con virati al rosso e inquadrature sbilenche, segno di un talento che non ha avuto il tempo di esplodere – anche a causa della morte prematura del regista, avvenuta nel 1979. Youngja’s Heyday (1975), secondo film di Kim Ho-sun, è meno innovativo, ma ben rappresenta il tenore dell’epoca, occupandosi tangenzialmente dell’industrializzazione del paese. La protagonista arriva in città in cerca di soldi e si accontenta dei lavori più umili: in seguito si innamora di un uomo che però parte per la leva e si ritrova in Vietnam. Anni dopo i due si rincontrano e lui scopre con orrore che lei è diventata una prostituta, oltretutto senza un braccio. La storia banale è ravvivata da alcuni sequenze esasperate (come la rappresentazione dell’incidente che menoma la donna).

Nel complesso Il decennio oscuro: i registi coreani negli anni Settanta presenta un’industria cinematografica che si muove a tentoni, ma in cui il sostanziale disinteresse permette di sperimentare smodatamente e liberamente – entro il confine angusto della censura. Una scelta di dieci film variegata, che ha più che altro valore di testimonianza storica, ma che è comunque in grado di dare una visione sfaccettata dei tentativi dei registi di rinnovarsi e trovare nuove strade espressive – nonostante repressione e oscurantismo.