L’azione si svolge in Polonia. Cioè in nessun luogo.
Alfred Jarry

C’è un destino avverso che incombe su questo film.
Jerzy Skolimowski

Da poco rientrato dalla trasferta belga di Le départ (Il vergine,1967), culminata con un inaspettato Orso d’Oro al Festival di Berlino, Jerzy Skolimowski si mette al lavoro per quello che rimarrà per decenni il suo “ultimo film polacco”, Ręce do gory, Mani in alto!.
Ideale proseguimento di una trilogia altrettanto ideale (dei primi “due capitoli”, Rysopis, Segni particolari: nessuno e Walkower ce ne siamo occupati in L’irrevocabile libertà: gli esordi di Jerzy Skolimowski) la pellicola vede ancora una volta protagonista Andrzej Leszczyc, personaggio interpretato dallo stesso Skolimowski, proprio come nei due film precedenti, alter ego dichiarato del regista. Andrzej è qui alle prese con un forte atto d’accusa nei confronti della società polacca del tempo, in particolare contro il conformismo dei membri della sua generazione, i trenta-quarantenni che, illusi da un apparente benessere, hanno completamente perso ogni senso della responsabilità collettiva e individuale nella costruzione del proprio presente, costantemente disposti all’assenso totale al potente di turno, sempre tacitamente pronti ad alzare le mani in alto in segno di resa. Il film è certamente più celebre per le sue contrastate vicende distributive che per la sua forma e il suo contenuto che in realtà lo rendono una delle opere più interessanti del regista polacco.


Sfuggito al controllo iniziale della censura – grazie al fatto che Skolimowski, come sua abitudine, non presenta una vera e propria sceneggiatura, ma si basa su un canovaccio ben poco indicativo di quello che accadrà durante le riprese -, girato in soli ventidue giorni, il suo espatrio sarà proibito dalle autorità polacche appena cinque giorni prima della prevista proiezione al Festival di Venezia del 1967. Il direttore della Film Polski Skawina telefonò a Skolimowski per comunicargli il ritiro del film dal concorso per iniziativa del KC, ovvero il Comitato Centrale del POUP, il Partito Operaio Unificato Polacco. Skolimowski riuscì a scoprire che il responsabile della decisione fu Kliszko, il numero due del regime, braccio destro di Gomułka. Il regista rievoca così il suo incontro con l’alto funzionario: “Era un giorno di nebbia. Un clima da metafora. Per la prima volta nella vita varcai la soglia del Comitato Centrale. Tetri corridoi, tutto deserto, risuonare di passi. Mi dissero di aspettare. Dopo un po’ la segretaria mi fece entrare dicendo: “Ha cinque minuti”. E io per quei cinque minuti non chiusi bocca. Nella mia ingenuità difesi il film, forse maldestramente, cercando di addurre a giustificazione la franchezza e l’impegno. Alla fine domandai a Kliszko se sarebbe stato in grado, a quel punto, di emanare una disposizione che rimuovesse quella fatale coincidenza (mi ero sempre spiegato l’avvenimento come una fatale coincidenza). Rimase ad ascoltarmi per tutto il tempo, infine rispose seccamente: “No!”. E si alzò in piedi, a sanzionare la fine del colloquio. Uscendo buttai lì che, finché il film non fosse uscito sugli schermi, non intendevo farne altri in Polonia. Rispose: “Buon viaggio”. Poi, negli anni di Gierek, mi capitò di incontrarlo al parco, solo, ricurvo. Non mi venne mai in mente di parlargli. Ma probabilmente non avrebbe potuto fare niente. Era il collettivo a decidere, e non solo quello polacco” (1). D’altronde, come ricorderà sempre lo stesso Skolimowski, “Alcuni personaggi di potere in Polonia mi hanno detto che un grande film è sempre un grande problema”.
Il divieto di proiezione resterà valido fino al 1981, quando i mutati tempi di Solidarność permetteranno la presentazione del film al Festival di Cannes. Skolimowski deciderà di ridurre la durata di circa quindici minuti, aggiungendo un prologo a colori girato a inizio 1981 a Londra (città in cui il regista risiede all’epoca), Varsavia e Beirut, sul set di Die Fälschung, L’inganno, pellicola di Volker Schlöndorff in cui Skolimowski recita nei panni del fotografo Hoffmann. Le due edizioni sono raccolte nel dvd, edito da Malavida, che offre un’occasione per ritornare sul film e le sue trasformazioni dovute a questa particolare vicenda distributiva.

Ritrovatisi per festeggiare l’anniversario di laurea, cinque medici stanno trascorrendo insieme una serata all’apparenza serena. Ognuno racconta le sue vicende personali e i propri successi professionali, facendo sfoggio della condizione economica raggiunta, mostrando come propri valori denaro e oggetti considerati come veri e propri status symbol. Dei cinque, quattro sono perfettamente integrati, mentre uno solo, Andrzej, che fa il veterinario, non solo non gode di una buona condizione economica, ma ha anche avuto dei problemi con le autorità a causa di uno scherzo fatto anni prima: aveva infatti ideato ed esposto in pubblico un’enorme gigantografia raffigurante uno Stalin a quattro occhi e con un indice ammonitore.
Nel corso della cena, Andrzej invita gli altri a fare un viaggio alla ricerca di un altro collega, ora medico in un villaggio e per questo impossibilitato a partecipare alla riunione. Si tratta in realtà di un pretesto, e infatti il viaggio non avrà luogo: i cinque rimarranno chiusi nel vagone di un treno per l’intera notte. Immobili nello spazio, compiranno tuttavia un percorso a ritroso nella memoria per svelare a se stessi e allo spettatore quel che si cela dietro le loro maschere cariche di conformismo. Infatti, una serie di flash back rievocheranno le loro vite da studenti negli anni Cinquanta, mostrandoli come già allora fossero disposti ad ogni compromesso. Nel presente, sono tutti terrorizzati dall’idea di perdere i privilegi ottenuti nel corso degli anni. Nella mente dei cinque, il vagone assume le inquietanti caratteristiche dei treni merci che conducevano padri e fratelli maggiori nei campi di concentramento. Quando all’alba il vagone viene aperto, tutti ritornano alla loro vita abituale.


L’opera di Skolimowski è un dichiarato attacco alla società polacca, quella del tiepido benessere degli anni Sessanta. Un atto di accusa alla sua stessa generazione, una generazione di assuefatti alla libertà vigilata del post stalinismo. Significativamente, i nomi dei protagonisti sono quelli delle loro automobili, finendo così per confondere gli uni con le altre, perché, in sostanza, agli occhi di Andrzej/Skolimowski sono la stessa cosa. Andrzej lotta contro la mentalità piccolo borghese dei vecchi compagni, anche se lo fa in maniera confusa, privo com’è di consapevolezze che guidino la sua polemica. Eppure, nonostante i suoi limiti ideologici, Andrzej è il regista di tutto, il grande burattinaio di quella terza parte della notte (per citare il celebre titolo di Andrzej Zulawski Trzecia czesc nocy, 1972) trascorsa all’interno di un vagone che percorre quel nessun luogo che è la Polonia (per citare la frase di Jarry riportata in esergo). Una notte dominata da pochi ma illuminanti dialoghi, dalle immagini potenti dei corpi dei cinque imbiancati dal bianco del gesso che li avvolgerà quasi mummificandoli. Perché è proprio l’immobilità l’accusa più grande che Andrzej muove agli altri. Ed è un’accusa allargabile a tutta la società e alla cultura in cui vivono. Infatti, i cinque compagni sono perfetti rappresentanti dell’anima polacca: si sentono vittime designate di un destino che cala inesorabilmente su di loro, dunque preferiscono restare fermi, godere di quello che riescono ad ottenere, senza domandarsi che cosa possa comportare.
Probabilmente più vicino a Barriera (anche per questo film ci permettiamo di rimandare nuovamente al nostro L’irrevocabile libertà: gli esordi di Jerzy Skolimowski) che a Rysopis e Walkower, in virtù della profonda vena simbolica che lo percorre (si è spesso parlato di “realismo fantastico” per quest’opera a lungo invisibile, anche grazie all’importante contributo delle musiche composte da Krzysztof Komeda), Mani in alto! è stato definito da Skolimowski come il suo miglior film.

Qualche anno fa, Fernaldo Di Giammatteo (che al regista dedicò l’uscita numero 127 di una celebre collana da lui ideata e a lungo curata) scrisse che l’importanza di Skolimowski, “questo polacco con la vocazione dell’esule è, forse, destinata ad affievolirsi nel corso del tempo”. Speriamo che uscite dvd come questa scongiurino tale “profezia” che, anche a causa del silenzio più o meno forzato del regista dal 1991 al 2008, è sembrata inesorabilmente destinata ad avverarsi.
Chissà che non avesse ragione Skolimowski quando nel 1988, sul set di Acque di primavera, dichiarava: “Il tempo e le sue casualità lavorano per me…il tempo ha lavorato per me” (2).

Mani in alto!, regia di Jerzy Skolimowski, Polonia 1967-1981 (Malvida).
(1) Jerzy Skolimowski in Jerzy Uszynski, Segni particolari. Intervista a Jerzy Skolimowski, in Małgorzata Furdal, Roberto Turigliatto, a cura di, Jerzy Skolimowski, Torino Film Festival – Lindau, Torino, 1996, pp. 25-26.
(2) Jerzy Skolimowski in una dichiarazione rilasciata a Telérama, 31 dicembre 1988.