Il Nuovo Cinema Tedesco con la Nouvelle Vague, il Free Cinema, la Renaissance inglese e il Cinema Nôvo brasiliano è da considerarsi come fenomeno storico, un movimento cinematografico nazionale legato alla realtà contemporanea politica e sociale.
   
Negli  anni Cinquanta è l’Heimatfilm a occupare il posto d’onore: diventato genere cardine per il contenuto patriottico-sentimentale, viene usato per attutire il conflitto nazista non mediante una riflessione sul passato storico bensì attraverso la sua unica rimozione. Commedie caratterizzate dal riciclo a discapito dell’originalità, dall’ignavia e dal ricorso alla tradizione piuttosto che di una vera e propria analisi della situazione contemporanea, si accontentano di storie d’amore ambientate nel sud della Germania per obliare con un costume folcloristico la presa di coscienza di un passato impossibile da insabbiare. A causa del fallimento della UFA, major simbolo della grandezza del cinema tedesco antecedente la seconda guerra mondiale e l’arrivo della televisione che propendeva a trasmettere melodrammi ricchi di cliché consolatori e privi di qualsiasi tipo di ricambio generazionale a livello registico, il cinema tedesco si trova nella condizione di stallo, di stasi assoluta. Nell’immobilismo generalizzato però emerge lo scarto, la svolta, la dichiarazione di guerra: slogan mutuato dalla Nouvelle Vague, “Papa Kino ist tot” (il cinema di papà è morto) è l’urlo di guerra di un gruppo di giovani registi capeggiati da Alexander Kluge (scelto per l’attività politica e per gli studi da giurista). Nel manifesto viene respinta la mentalità tracotante del cinema commerciale, «le convenzioni abituali dell’industria cinematografica, ogni tentativo di commercializzazione, ogni tutela finanziaria» per l’acquisizione di «nuove libertà […] concrete sul piano intellettuale estetico ed economico». Il Manifesto vuole un nuovo cinema libero dai condizionamenti economici, denuncia l’importanza del cortometraggio come campo di sperimentazione  e si propone di girare dieci film a soggetto finanziati dal denaro pubblico.
   
È però molto difficile – se non quasi impossibile – mappare, dare forma a un quadro generale su quali siano state le conseguenze, i contraccolpi che il Manifesto di Oberhausen genera all’interno della gravosa situazione in cui si trova il cinema tedesco nel sorgere degli anni Sessanta. Nel periodo che comprende la prima ondata (1962-1967) sono i film di debutto a restare i migliori: Schonzeit für Füchse (Divieto di caccia alle volpi), film in cui Peter Schamoni decide di mettere in scena simulacri, caricature di un mondo piccolo-borghese che non prende mai sul serio, e Jagdszenen aus Niederbayern (Scene di caccia in bassa Baviera) di Peter Fleishmann, in cui invece viene scarnificata l’immagine solidale e comunitaria del mondo contadino per mostrare piuttosto il fascismo quotidiano, la stupidità dell’osservazione del rito, l’ipocrisia della risposta in latino alla preghiera.
   
È però dal 1967 che il movimento del Nuovo Cinema Tedesco acquista fama in tutta Europa generando interrogativi e polemiche sul passato e sul presente della Germania: i giovani registi rimproverano le responsabilità memoriali stroncate e ostruite riguardanti l’ascesa del Nazismo e l’orrore paralizzante dei campi di concentramento proclamando così un ritorno al rimosso (1) inteso nell’ottica del tema del viaggio: se Wim Wenders in Im Lauf der Zeit (Nel corso del tempo) sceglie di tematizzare il concetto di “casa”, di “patria” come identità sfuggente – il personaggio prende coscienza del senso di appartenenza a un luogo solo staccandosene completamente – in Heimat di Edgar Reitz, «il viaggio non costituisce l’espressione di un movimento e di un’attitudine dello spirito, non è un continuo tendere a, bensì una reazione a una condizione esistenziale che si è fatta di colpo insostenibile – quasi una necessità» (2). Sono le costanti che determinano la partenza ad assumere un’importanza fondamentale nel cinema di Reitz, tanto è vero che in Heimat non viene raccontato il viaggio di chi parte, ma quello di chi è rimasto ad aspettare.  
   
Chiaramente, come succede ogni qual volta si tenti di tagliare nettamente la storia con il passato, l’ascesa del Nuovo Cinema Tedesco non progredisce in maniera lineare; i nuovi registi non costituiscono mai un movimento omogeneo in senso progettuale o estetico, ma cercano di basare i loro bersagli polemici sulle debolezze dell’industria culturale.
    
Personalità profondamente complesse, i registi che debuttano negli anni Sessanta sono stati testimoni di una metamorfosi continua nell’assetto politico-economico tedesco: hanno conosciuto durante la guerra fredda il conservatorismo dell’era di Adenauer, compreso il passaggio di Erhard alla cancelleria, la grande coalizione sotto Kiesinger a partire dalla metà degli anni Sessanta, l’alleanza social-liberale dell’era di Brandt e infine la virata a destra presa sotto Schmidt a partire dal 1974. In questo clima di continue alterazioni sistematiche i punti di riferimento vengono completamente smarriti. Da una parte vi erano registi come Kluge, Reitz e Syberberg, che si sono dedicati all’”elaborazione del lutto”, dall’altra cineasti che insistono su una rottura netta con il passato. Per esempio Vado Kristl, fautore di parabole politiche auto-distruttrici come La lettera (Der Brief, 1966) e Straub/Huillet, che fanno proprio il concetto di resistenza per esprimerlo mirabilmente in  Non riconciliati (1965). Rainer Werner Fassbinder non smette di far notare che  «la Germania più di altri paesi, stia tornando indietro per tutta una serie di cose. E questo dimostra anche che nel 1945, quando è finita la guerra e il Terzo Reich, non sono state sfruttate tutte le possibilità che la Germania aveva per trasformarsi radicalmente. […] Tutte le strutture e i valori su cui si basa la Stato, l’odierna democrazia, sono rimasti fondamentalmente gli stessi di prima.» (3) La Germania è afflitta da una «pesante diminuzione di libertà» (4) che si manifesta anche con «il desiderio stupido e assurdo che la gente sia tutta uguale, che tutti si vestano alla stessa maniera, che pensino e dicano sempre le stesse cose» (5).
   
Ma che cosa rimane oggi del Manifesto di Oberhausen? È sicuramente da considerarsi come un testo multiforme,  un oggetto interpretabile secondo infinite possibilità e potenzialità inesauribili. Se prendiamo per assunto che  nessuno è autore e produttore della propria storia, il Manifesto di Oberhausen ci sembra più uno strumento, un mezzo meta-discorsivo per sconfiggere l’incapacità dell’individuo di stare solo con se stesso, di prendere coscienza delle proprie ragioni, delle azioni che hanno causato un particolare avvenimento storico. Nei film di Fassbinder i personaggi vengono risucchiati da un vortice di una storia non scritta o almeno non scritta da loro direttamente, oppure, ancora nel 1994, in Lisbon Story di Wim Wenders preferiscono la fuga al confronto con il passato ormai spettro di una modernità (im)possibile, un fantasma con cui bisogna sempre fare i conti. Oggi, ancora di più degli anni Novanta, le figure in questione si sono moltiplicate, irrigidite, peggiorate, lontano da quella «indeterminazione del soggetto della storia, della stessa mentalità dominante per cui il film è confezionato [dalla televisione]» (6).
   
Il Manifesto di Oberhausen enuncia l’urgenza di avere un passato prima individuale e poi collettivo, una ricostruzione della  storia, una conquista fisica di un tempo risorto.

NOTE

(1) Vedere a questo proposito:  THOMAS ELSAESSER, Rainer Werner Fassbinder.
Un cinéaste d’Allemagne
, traduit de l’allemand par Christophe
Jouanlanne, Pierre Rusch, Jean Torrent, Paris, Éditions du Centre
Pompidou, 2005.
(2) GIOVANNI SPAGNOLETTI, ALESSANDRO IZZI, Nuovo Cinema Tedesco, Roma, Dino Audino Editore, 2009, p. 63.
(3) PETER W. JANSEN (intervista a cura di) in ENRICO MAGRELLI, GIOVANNI
SPAGNOLETTI, Tutti i film di Fassbinder, Milano, Ubulibri, 1989, p. 37.
(4) Ibidem.
(5) PETER W. JANSEN (intervista a cura di) in Tutti i film di Fassbinder, cit.,  p. 37.
(6) PAOLO VERNAGLIONE, RWF, Roma, Gremese, 1999, p. 107.