Questo è un libro sulla sovversione di valori, istituzioni, costumi e tabù esistenti, a est e a ovest, a destra e a sinistra, messa in atto dall’arte potenzialmente più potente del secolo. Un libro scettico nei confronti di tutta la saggezza ricevuta (compresa la propria), delle verità eterne, delle regole dell’arte, delle leggi “naturali” e umane, verso tutto ciò che può essere considerato sacro. È un tentativo di preservare le opere e i risultati sovversivi nel cinema.

La sovversione comincia quando la sala si oscura e lo schermo si illumina. Il cinema è un luogo magico, dove fattori psicologici e ambientali si combinano per creare un’apertura verso la meraviglia, la suggestione e lo sblocco dell’inconscio. È un santuario nel quale i moderni rituali radicati nelle memorie ataviche e i desideri inconsci vengono messi in scena  nell’oscurità, al riparo dal mondo esterno.
Il potere dell’immagine, la nostra paura, l’eccitazione che ci attira, sono reali. Non abbiamo alcuna difesa da essa, se non chiudendo gli occhi, un’azione difficile da compiere, al cinema, e senza precedenti.

Quando il treno dei Lumière arrivò in quella stazione per la prima volta nel 1895, avanzando direttamente verso la macchina da presa, gli spettatori gridarono. Gridarono ancora quando Buñuel affettò l’occhio di una donna con un rasoio, quando Clouzot resuscitò i morti, quando Hitchcock commise un improvviso assassinio nella doccia, quando Franju uccise animali davanti ai loro occhi. Svennero durante la proiezione di operazioni chirurgiche, vomitarono nelle sequenze di parto, si entusiasmarono per i film di propaganda, piansero mentre l’eroina moriva lentamente di leucemia, urlarono angosciati vedendo l’ottovolante girare in Cinerama, si preoccuparono persino di essere stati esposti al colera dello schermo. Alla luce di queste reazioni manifeste, perché pensare che l’infinito numero di fantasie sognate in silenzio al cinema – fantasie di lussuria, violenza, ambizione, perversione, criminalità e amore romantico – siano meno potenti?

«L’unico mistero veramente moderno si celebra al cinema» (1), disse André Breton. È significativo che sia stato proprio un surrealista a sottolineare la curiosa combinazione di tecnologia e metafisica propria del cinema; poiché, secondo la scienza moderna, la realizzazione di un continuum dal razionale all’irrazionale è in diretto rapporto con la natura stessa del processo di visione di un film. Esso necessita di una sala buia, un’ampia disponibilità alla suggestione, la trance semi-ipnotica dello spettatore, l’emergere di ansie e desideri più profondi, e il prevalere di reazioni viscerali su responsi coscienti. L’accettazione di questo dualismo (il compenetrarsi di razionalità e irrazionalità) è un passo avanti e non una sconfitta nella lotta dell’uomo verso la Conoscenza.

I meccanismi del processo di visione sono stati discussi fra gli altri da Mauerhofer, Kracauer, Stephenson e Debrix (2) e altri, ma manca ancora un’analisi esauriente. Lo spettatore entra in sala volentieri, se non impaziente) e pronto ad arrendersi (profondamente insoddisfatto, poi, se il film è “brutto”, se l’illusione “non funziona”). L’esperienza del film richiede un’oscurità totale; nulla deve distrarre l’attenzione dello spettatore. Diversamente dall’esperienza televisiva a bassa pressione (durante la quale egli è cosciente dell’ambiente che lo circonda e della presenza di altre persone, aiutato in ciò dagli intervalli), l’esperienza del film è totale, isolante, allucinatoria. Lo spettatore “dimentica” dov’è, chi è, in balia di luci estranee, rumori della strada o del pubblico che rompono l’illusione anticipata e accettata.

Appena si abbassano le luci, il grande rettangolo dello schermo – prima notato con disinteresse – diventa l’universo totale, ciò che su di esso traspare in un alternarsi di luce ed oscurità viene accettato come vita, le immagini vanno verso lo spettatore ed egli entra in esse. I misteri del cinema iniziano in questo momento: accettare che una superficie piana si faccia tridimensionale, l’azione improvvisa, i cambiamenti di scena e di piano, il bianco e nero come realtà. «Lo spettatore non è scioccato nel trovare un mondo in cui la profondità è stata alterata, le misure e le distanze appiattite, dove il cielo ha lo stesso colore del volto umano», osserva Rudolf Arnheim (3).

Ma i misteri sono appena cominciati. L’oscurità stessa che avviluppa lo spettatore è più completa di quanto egli non si renda conto; l’essenza del cinema non è la luce, ma un patto segreto fra luce e oscurità. Metà del tempo passato al cinema dalle vittime di quest’arte tecnologica è oscurità totale, in un solo secondo quarantotto momenti di oscurità si alternano a quarantotto momenti di luce e, sempre perché la pellicola si ferma nel proiettore quarantotto volte al secondo, l’immagine viene proiettata due volte, come una fotografia. Data l’incapacità della retina di adattarsi rapidamente a differenze di luminosità, si crea una illusione di movimento per la rapidità della proiezione dei fotogrammi, ognuno impercettibilmente diverso dal precedente.
Quindi, per metà del tempo passato al cinema, l’occhio dello spettatore non recepisce alcuna immagine, e comunque il movimento non è mai reale. Senza la complicità fisiologica e psicologica dello spettatore, il cinema non potrebbe esistere.

L’illusione del film, così ingenuamente decantata dai giornalisti, si rivela perciò un’intricata rete di imbrogli, che coinvolge la tecnologia del processo filmico e la natura delle percezioni della vittima. Potrebbe essere esattamente durante i momenti di oscurità totale che il nostro inconscio vorace, nuovamente nutrito da un’altra immagine provocante, “assorba” il  significato più profondo del lavoro e faccia partire catene di associazioni?
È in questo ambiente alieno che lo spettatore volontariamente permette alle immagini “forti”, create e manipolate da un mago-regista, che controlla completamente la sua visione, di invaderlo. Tutta la visione, anche quella non diretta, è dinamica e riflette, come sottolinea Arnheim, un’invasione dell’organismo da parte di forze esterne che rompono l’equilibrio del sistema nervoso (4). Ma mentre nella vita quotidiana lo spettatore può variare il punto focale della sua attenzione come desidera – senza perdere il senso di continuità nei confronti di ciò che lo circonda – al cinema la sua attenzione è fissata su una successione preordinata di immagini, la cui natura, il tempo, la sequenza e la durata sono state accuratamente costruite per ottenere il massimo impatto da parte di terzi.

Rimosso dal mondo reale, isolato anche dagli altri, lo spettatore si abbandona al sogno e alle fantasticherie, nell’oscurità uterina del cinema. Sommerso da immagini, il suo inconscio è liberato dalle costrizioni abituali e le sue facoltà razionali sono inibite.
Stephenson e Debrix sottolineano che, al cinema, a parte la vista e l’udito, il corpo e gli altri sensi sono a riposo, permettendo così all’immaginazione, stimolata dal materiale appositamente ed emotivamente caricato dal regista, di esercitare un’influenza più duratura e più profonda. Mauerhofer parla di spettatore volontariamente passivo e acriticamente ricettivo; Kracauer, infine, mette in luce l’oscillare dialettico fra auto-assorbimento (che allontana lo spettatore dall’immagine verso associazioni personali da questa innescate) e auto-abbandono (movimento verso l’immagine). Forse lo stato dello spettatore (e qui Mauerhofer, psicologo, e Breton, surrealista, concordano) è più vicino a quello del dormiveglia, in cui si abbandona la razionalità della vita quotidiana senza essersi ancora arresi completamente all’inconscio.

La potenza dell’immagine è tale che non le si può sfuggire; forse l’uomo, in risposta ad ataviche memorie di paura e di gioia infantili, non può resistere all’attenzione del movimento, ai cambiamenti scioccanti provocati dal montaggio, all’improvvisa intrusione di forme nello schermo, a scoppi di immagini che si alternano a una velocità più rapida della vita, al potere sensuale del primo piano. A teatro è molto più facile sottrarsi all’azione: qui lo spettatore accetta la sua irrealtà (proprio come al cinema accetta, invece, la “realtà” del film), ma poiché se la scena non può attaccarlo, la reazione alla violenza del palcoscenico è diversa. In entrambi i casi, l’uomo assassinato risorge per farsi uccidere una seconda volta; ma il cinema è “più vicino” allo spettatore – strano tributo, questo, alle facoltà cerebrali capaci di venire maggiormente influenzate dai riflessi bidimensionali sullo schermo che da attori vivi recitanti in uno spazio tridimensionale.

È un tributo del visuale in quanto tale. Le immagini, infatti, nell’evoluzione dell’uomo, precedono la parola e il pensiero, raggiungendo strati più profondi dell’essere. L’uomo inizia da ciò che vede, progredendo nella rappresentazione visuale della realtà e l’impatto dell’immagine mutuata dall’arte non sembra diminuito. Sacra oggi come nella preistoria, l’immagine è accettata come vita, realtà, verità – a livello di sensazione, più che a livello mentale. È significativo il fatto che lo spettatore emerga dal suo stato ipnotico solo se la sospensione d’incredulità è rotta dall’insoddisfazione per un dato film.

Però l’immagine, per quanto possa essere “autentica”, rimane una distorsione della vita. Non solo manca di profondità e densità, di continuum spaziotemporale e della non-selettività della realtà, ma  enfatizza certi aspetti a discapito di altri, isolandoli entro un formato fisso, in una concatenazione perennemente in moto di bianco e nero, oggetti e superfici. Quest’invocazione magica di immagini concrete, che in apparenza riflettono la realtà quando invece la distorcono, crea una tensione addizionale tra film e spettatore, aumenta il suo senso di disagio e di spaesamento, creando altri canali nel suo inconscio sempre più vulnerabile. È la forza delle immagini, il loro fluire in uno spazio nero e in un tempo artificiale, la loro affinità alla trance e all’inconscio, la loro abilità di influenzare masse e oltrepassare confini, che ha da sempre reso il cinema un bersaglio appropriato per le forze repressive della società (censura, tradizione, stato). Ma né la repressione, né la paura, sembrano in grado di arrestare quel processo verso un cinema più liberato, nel quale tutti i soggetti di volta in volta proibiti vengono coraggiosamente esplorati.

L’evoluzione dal tabù alla libertà è dunque il soggetto di questo studio.

NOTE

(1) Cit. in J.H. Matthews, Surrealism and film, Ann Arbor, University of Michigan Press, 1971.
(2) H. Mauerhofer, Psychology of Film Experience, Londra, The Penguin Film Review n.8,  1949; S. Kracauer, Theory of Film, New York, Oxford University Press, 1960 [tr. it. Teoria del Film, Milano, Il Saggiatore, 1962]; R. Stephenson, J.R. Debrix, The Cinema as Art, Londra-Baltimora, Penguin Books, 1965.
(3) R. Arnheim, Film as Art, Londra, Faber & Faber, 1933 [tr. it. Film come arte, Milano, Il Saggiatore, 1960].
(4) R. Arnheim, Art and Visual Perception, Berkeley, University of California Press, 1965 [tr. it. Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 1962].

(traduzione di Cristina Trunfio, rivista e corretta da Gabriele Gimmelli e Alessandro Stellino)