Se immaginate tutte le inquadrature che costituiscono un film come una griglia o una scacchiera, allora su quella scacchiera esiste per il cavallo un percorso particolare: esiste un modo per vedere tutte le inquadrature comprese come unite perlomeno da una regola; esiste un modo di visitare tutte le caselle che è costruito dalla maniera in cui si può muovere il cavallo.

Mi piacciono cose che hanno la tensione di una bolla di sapone, che rendono conto di sé completamente.

(Hollis Frampton, 1976) (1)

A chi ha concepito la visione di un “cinema infinito”, la confezione di un doppio DVD deve stare per forza un po’ stretta. Hollis Frampton ha vissuto una vita troppo breve per la concezione sterminata che ha avuto del cinema e l’aspirazione oceanica che, di conseguenza, ha investito nella sua opera. L’insonnia, in cui aveva riconosciuto la musa del film, è finita per diventare l’allegoria della sua ricerca incessante e inesauribile: un compito che eccede sempre le condizioni di partenza, che non può arrestarsi né resistere alla potenza travolgente del proprio progetto. Possiamo solo approssimarci a questa idea in base ai monumenti e ai frammenti che sopravvivono al loro architetto: carte e pellicole, parole e immagini, che localizzano i punti di affondo del pensiero di Frampton nella materia cinematografica, emersioni di una terra incognita che il regista aveva cominciato ad esplorare troppo tardi per i propri limiti biologici.

Il dvd antologico a lungo atteso e finalmente uscito per Criterion, va accolto come un’ottima introduzione all’universo filmico di Frampton e forse, soprattutto, come un’occasione per ripensare a quanto la macchina filmica e teorica che stava assemblando possa funzionare ancora a pieno regime nel presente. Ma è proprio questo aspetto “metastorico” che lo storicismo implicito in ogni canone rischia di mancare. Si tratta di un limite ineludibile di ogni antologia, che non va certo imputato all’apprezzabile edizione di questa “odissea”: il fatto è che la sua selezione, necessariamente rapsodica, si scontra pesantemente con l’approccio sistematico di Frampton, generando un paradosso più sensibile che in altri casi. Del resto, l’impresa di canonizzazione svolta da Criterion, ha toccato solo occasionalmente il campo del cinema sperimentale, ed è difficile pensare che, come nel caso di Stan Brakhage, la casa dedicherà un altro volume a Hollis Frampton (anche perché altrimenti la selezione avrebbe dovuto essere differente).

Per quanto sia inappropriato in così poche righe mettere a confronto due pilastri di questa statura, lo si conceda almeno per un momento, se può servire a chiarire il paradosso appena esposto. Stan Brakhage ha aperto un varco maestoso nel mondo prelogico dell’immagine in movimento e la sua opera è senza dubbio un organismo complesso, mutevole, in crisi permanente; ma anche la visione di un solo film è sufficiente a sprofondare nella sua massa visiva incandescente, in cui si entra e si esce di continuo, da ogni parte, abbandonandosi alle peregrinazioni del suo occhio “non istruito” (2). Brakhage spalanca le porte della visione e vi si inoltra; Frampton, invece, sembra permanere sulla soglia, studiare le condizioni e i limiti di questo percorso, riallacciando l’occhio selvaggio, sguinzagliato dal predecessore, alla pesante massa della corteccia cerebrale. Ed è proprio l’impossibilità di circoscrivere e dettagliare l’attività estremamente sottile, diffusa e interconnessa di questa corteccia, a fare dell’opera di Frampton un esemplare difficilmente campionabile. Anche se, per un’ulteriore paradosso, la volontà di racchiudere tutto il proprio cinema e il cinema tutto in ogni singolo film è molto più esplicita e radicale proprio nella sua opera. Tuttavia, come si capirà meglio in seguito, questo aspetto ‘monadico’ del suo lavoro va colto nelle vicende della sua “morfologia”, non guardando i film “dall’esterno” come “oggetti isolati”, ma “dall’interno, come un codice organico che evolve dinamicamente” (3).

Si può provare a ricostruire l’articolata griglia intellettuale, che Frampton proietta sulla materia cinematografica, a partire dalla sua persistente interrogazione dei rapporti tra immagine e linguaggio, quel linguaggio che Brakhage aveva esiliato dal proprio terreno d’indagine. A questo proposito, lo stesso Brakhage ha dato del lavoro di Frampton una sintesi folgorante, affermando una volta che egli “sottopone il cinema alla tensione del linguaggio”. Questa “tensione” (ma il verbo “to strain” usato dal filmmaker, come sottolinea Annette Michelson, ha diversi significati, e oltre all’azione di “tendere”, “sforzare”, “tirare fino all’estremo”, indica anche quella di “filtrare” il cinema attraverso il linguaggio [4]) è senz’altro una chiave privilegiata per accedere all’opera di Frampton e seguirne lo sviluppo, così come è riassunto nelle principali sezioni dei due DVD, che capitolano i punti fondamentali della sua opera filmica: i primi esperimenti (1966-69), l’affermazione con Zorn’s Lemma (1970), il corpo multiplo (qui mutilato) di Hapax Legomena (1971-72) e infine l’incompleto e forse interminabile disegno che va sotto al nome di Magellan.

La tensione tra il linguaggio articolato e la lingua muta del cinema, è già problematizzata nelle scomposizioni su cui è costruito Surface Tension (1968), dove alle immagini silenziose di Kasper Koenig, che racconta il progetto per un suo film mentre Frampton lo sta riprendendo in time lapse, segue una fuga, frammentata con la stessa tecnica, attraverso le strade di New York accompagnata stavolta dal racconto in tedesco dell’artista; il film si chiude nella sospensione di un acquario, in cui galleggiano un pesce rosso e le stesse parole, scritte in inglese e sovrimpresse, come un’immagine residua della storia narrata. Ma anche nei film precedenti, come Process Red (1966) o Maxwell’s Demon (1968), dove gli esperimenti più fisici di intervento sul materiale filmico cercano di esplorarne ed estenuarne limiti e possibilità, è sempre una struttura, un codice, a reggere l’organizzazione e la ricorrenza delle immagini. In questi primi corti, si manifestanoanche  quegli elementi di punteggiatura ‘materialistica’ (giunte, perforazioni, graffi, colorazioni), che Frampton sfrutterà in forme sempre più grafiche fino a Magellan, come strumenti per isolare le inquadrature, sezionando il flusso visivo e riducendolo ad unità discrete come quelle verbali (5).

Ma è con Zorn’s Lemma (1970) che l’intuizione che era già di Ejženstejn, quella di trattare il film come un testo e le inquadrature come parole, viene “presa alla lettera” (6), benché privata della sua sintesi discorsiva e aperta piuttosto a una logica combinatoria, che connette parola e immagine nelle inquadrature tipografiche della parte centrale e le disgiunge nel processo con cui le parole-immagini sono sostituite via via da immagini ‘pure’. Si produce così un sistema filmico dispensato dalla narrazione e dedito esclusivamente a completare se stesso, a risolvere il codice genetico del linguaggio nel codice generativo delle immagini. Suggerito come imposizione divina dalla filastrocca religiosa recitata nella prima parte e dissolto nello staccato finale delle voci che scandiscono un testo mistico sulla luce, il linguaggio subisce così un processo di decomposizione nelle sue unità minime, quelle dell’alfabeto, mentre il suo asse paradigmatico diventa il principio di organizzazione e di lettura del materiale visivo. Non si tratta solo di legare la lettura al processo di scrittura del film (7), ma di svelare la strutturale “morte dell’autore”, il suo essere passato sulla sponda del lettore, lui pure intento a decifrare l’andamento del processo che ha innescato. Già in questo film si riscontra una collisione tra il rigore del progetto e le deviazioni aleatorie, generate da un metodo che rovescia le consuete posizioni in cui il film si produce e si consuma: un autore ‘spettatore’ della potenza autopoietica della sua opera e uno spettatore che viene invitato a far funzionare il suo meccanismo.

La partecipazione dello spettatore al processo è un altro carattere fondamentale del progetto di Frampton, soprattutto nel passaggio ad Hapax Legomena, anche se questo ciclo, completato tra il 1971 e il 1972, rappresenta al tempo stesso la fase più nera e melanconica dell’opera di Frampton, di macerazione personale e decomposizione della materia cinema, tanto nel bianco e nero dominante quanto nel disseccamento minimalista della rappresentazione. Negli inevitabili tre film che l’edizione Criterion seleziona da questo corpus, quel “filtraggio” del cinema attraverso il linguaggio raggiunge un vertice di tensione e assume le forme di un’interrogazione sulle condizioni trascendentali del cinema. Una questione che viene appunto rivolta direttamente allo spettatore, coinvolto in una continua sfida a immaginare, una sollecitazione a riproiettare sul film il discorso che solitamente è costretto a introiettare in termini autoritari. Questa ridefinizione dei rapporti, che è tanto ‘democratica’ nella sua idea, quanto perturbante nella sua forma, si concentra soprattutto, all’interno dell’insieme di Hapax, nel dittico dei primi due titoli (nostalgia) (1971) e Poetic Justice (1972), riuniti non solo dal gesto con cui l’autore li ha avvicinati nell’ordine definitivo dell’opera, oltre la loro cronologia, ma soprattutto per come si corrispondono nel gioco di disgiunzione tra immagine e parola: una separazione che questa volta, però, fa esplodere nel cinema modulare e sistematico di Frampton lo spettro di una narrazione prosciugata e dispersa in uno slittamento continuo. Da una parte la sfasatura dell’io e del referente fotografico di (nostalgia), anamnesi della vocazione ‘interrotta’ per la fotografia e suo superamento nel rituale con cui le vecchie foto si animano bruciando davanti alla cinepresa, mentre la voce di Michael Snow pronuncia i ricordi di Hollis Frampton, riferiti però a una foto assente, già bruciata. Dall’altra la fissità dello script di Poetic Justice, un film assente che si muove solo da una pagina all’altra del blocco di fogli staticamente inquadrato . Bloccato in questo limbo della rappresentazione, il film invita a riempire lo schermo di immagini e al tempo stesso lo impedisce, producendo nella sua scrittura una crisi continua dei meccanismi di riferimento della lingua. E anche la criticità di Critical Mass (1971), sta ancora una volta nel rapporto tensivo stabilito tra la colonna visiva e quella sonora. La registrazione del litigio improvvisato di una coppia (è anche una crisi matrimoniale che Frampton sta affrontando in questo periodo), viene macinata minutamente al montaggio e trascinata in una serie di microloop, che estenuano lo spettatore e lo stesso scorrimento della pellicola, costretta continuamente a riprendersi e a rincorrere i propri estremi. Questo continuo incespicare del film in se stesso, rende fastidiosamente sensibili i meccanismi degenerativi insiti nel linguaggio, ma al tempo stesso mostra ancora una volta la possibilità che un film proceda rigenerandosi, per paradosso, dalla scomposizione delle sue parti.

Per riprendere la metafora cerebrale di poco fa e considerando il continuo lavorio di ridefinizione e riassemblaggio della propria opera che accompagna Frampton, viene da pensare al suo commento a proposito dell’autoritratto inserito in (nostalgia), quando nota lo scarto tra le cellule del proprio corpo, che dal tempo della foto si sono sostituite più volte, e quelle del proprio sistema nervoso centrale, che “fanno eccezione”. Del resto la volontà di inserire, spesso in modo sottile, la sua autobiografia nel processo biologico con cui l‘opera si rigenera e si espande, è un altro carattere ricorrente in Frampton, più esplicito e programmatico in un film come (nostalgia), Al contrario di quanto si potrebbe superficialmente ritenere, proprio la qualità autenticamente cerebrale del percorso di Frampton, fa sì che le sue astrazioni s’innervino in profondità nelle varie declinazioni della materia che essa incontra e attraversa. La ricorsività di questa dimensione, in cui il pensiero continua a espandersi e ricomprendersi, lungi dal fissarsi su una logica piattamente autoreferenziale, spinge sempre oltre la passione euristica di Frampton, consentendogli di esplorare diffusamente la sfera mediale contemporanea: dalla pittura modernista e dal minimalismo dei suoi vecchi compagni Frank Stella e Carl Andre, alla scelta della fotografia, di cui egli stesso ricorda l’impopolarità nella scena artistica newyorkese degli anni sessanta, assorbita dall’astrazione e restia a intellettualizzare un’arte troppo meccanica e “illusionistica. Eppure, quella scelta fu necessaria per avviare il lavoro di smontaggio di quei meccanismi e di quell’illusione che si avvierà con il passaggio al cinema. Dall’altro capo della carriera di Frampton, è il sorgere del video, a partire dall’applicazione di principi seriali alla TV commerciale in Remote Control (1972), a individuare, come dice Bruce Jenkins, un altro punto passaggio, “oltre la meccanica dell’immagine in movimento verso i sentieri elettronici dell’attività mentale” (8). Questi sentieri, che passano anche dal nucleo sperimentale formatosi all’Università di Buffalo, NY, in cui Frampton tiene lezioni dal 1973, arrivano alla ‘comica finale’ di Gloria!, dedicato, “nello stile di un marinaio ubriaco”, alla nonna irlandese, che gli insegnò a leggere: questo strano oggetto, che è uno degli ultimi mattoni di Magellan conclusi dall’autore, è una bizzarra celebrazione degli estremi, che riconnette il linguaggio informatico e la macchina da scrivere, il video e il cinema delle origini, attraverso l’ipertestualità del Finnegan’s Wake di Joyce, evocato attraverso le due comiche mute montate nel film, che mettono appunto in scena la veglia funebre della ballata di Tim Finnegan.

Quella congiunzione di medium e coscienza che Jenkins vede compiersi nel video, è un’ultima declinazione del nesso tra astrazione intellettuale e passione materica, che caratterizza tutto il percorso di Hollis Frampton, fin dalla sua attività di fotografo. E proprio nell’ambito della fotografia, si potrebbero isolare due numi tutelari, che sembrano passarsi il testimone nella transizione di Frampton dalla fotografia al cinema e alla riflessione teorica su entrambi i mezzi: Edward Weston e Eadward Muybridge. Di Weston è soprattutto la ricerca degli anni venti e trenta, la straniante messa in rilievo dei corpi e degli oggetti isolati e ingranditi, a influenzare l’attività fotografica di Frampton. Una qualità tattile che si ritroverà anche nel cinema. Ad esempio, nella straordinaria semplicità di Lemon, in cui il frutto viene rilevato nella sua forma e nella granulosità della sua texture da una luce che lo accarezza e lo avvolge circolarmente, si percepisce ancora quella “erotizzazione” delle superfici che caratterizza le fotografie di Weston (9). Con Ordinary Matter (1972), si compie una sorta di sintesi tra l’immersione euforica nel materiale di Weston e la gelida dissezione dello spazio-tempo di Muybridge. La scomposizione del movimento attraverso la pixillation, già messa a punto in Surface Tension, è usata anche qui per rendere lo spostamento della macchina un movimento non antropomorfico, che costruisce e attraversa uno spazio paradossale. Frampton l’ha giustamente avvicinato a quello della macchina da presa vorticante de La Région centrale dell’amico Snow (10); ma se questa lavora sul piano-sequenza e su un movimento ininterrotto, quella di Frampton si immerge negli scarti tra i singoli fotogrammi, creando un movimento non più fondato su un illusionismo meccanico, quanto su un materialismo ‘macchinico’, in cui l’occhio della cinepresa attraversa la materia che gli si squaderna davanti, decomponendosi e ricomponendosi in un percorso labirintico. “Materia ordinaria”, indifferenziata: come i vocaboli cinesi che vengono pronunciati senza alcun accento e, quindi, senza nessuna determinazione di senso in quella lingua: bolle acustiche di pura significanza che esplodono nello sfogliarsi continuo delle immagini.

La materia, scomposta e riorganizzata, acquista nel ciclo di Magellan una potenza sensuale e ribollente, che sembra reagire alla rarefazione di Hapax Legomena: nell’ultimo film della serie, Special Effects (1971-72), il rettangolo tratteggiato, che fluttua vuoto sul nero dello schermo come unico elemento visivo, sembra quasi attenda di riempirsi e debordare delle immagini a venire. Immagini che affluiscono attratte dall’orbita del “folle volo” che accompagnerà il resto della carriera del cineasta. Ma a differenza del viaggio di Ulisse, la circumnavigazione di Magellano è un ciclo che non può chiudersi, che va oltre la morte del suo stesso eroe e, ciclicamente, si espande all’infinito: Magellano è un vivo-morto, come Finnegan, muore prima di concludere la sua impresa, ma risorge, come in un culto solare. Ed è proprio nel calendario solare che il progetto trova una delle sue strutture primarie, articolandosi come un ciclo di 36 ore suddiviso in base alle giornate dell’anno, con punti eminenti nei solstizi e negli equinozi, oltre a varieesuddivisioni ulteriori, che segmentano sempre più fittamente l’organismo di Magellan.

Nella struttura prismatica di Magellan si manifesta al massimo grado quella tensione tra progetto e realizzazione già vista in Zorn’s Lemma, tra l’architettura cristallina che traccia le coordinate in innumerevoli appunti e grafici, e la costruzione in cui questi vanno a defluire come “cera persa” (11). Il meccanismo seriale, l’applicazione di regole che ordinano e collegano le unità minime del film, finisce per essere incorporato e riprodotto dal materiale stesso, che moltiplica e articola sempre più le sue connessioni, liberando il suo potenziale generativo che sorge, ma si svincola dalla razionalità del suo programmatore. Questi non può che osservare, con sgomento e meraviglia, i segmenti filmici che cominciano ad organizzarsi da sé nel processo di montaggio: “i pezzi di film, che erano opachi come una parola isolata, sembravano in qualche modo reclamare un’organizzazione più intricata di quella che avevo inizialmente progettato.”(12)

La manifestazione di questo intrico e di questa discrepanza entro un mondo autosufficiente e teso al massimo delle sue possibilità come una bolla di sapone, non è dunque una catastrofe, ma la necessaria approssimazione del film, non ad un teorema astratto, ma al funzionamento incoerente dell’universo e della realtà stessa. È in questa forma perversamente sublime di realismo che si può forse meglio cogliere la natura incontenibile dell’opera di Hollis Frampton. Ma l’insonnia, a cui aveva votato il suo progetto, non è solo l’abnegazione del creatore sprofondato nella propria opera, ma anche la veglia di un pensatore, che in essa riflette tutta una tradizione.

* * *

Il metastorico del film genera per sé il problema di derivare una tradizione completa da nient’altro se non i più evidenti limiti materiali della macchina filmica nel suo complesso. Dovrebbe essere possibile, suppone, passare da The Flicker a Unsere Afrikareise, o Tom, Tom, the Piper’s Son, o La Région Centrale e oltre, a passi stabiliti (ogni passo un film), applicando soltanto una scelta perfettamente razionale ad ogni mossa. Il problema è analogo al “percorso del cavallo” negli scacchi.
Preso alla lettera esso è insolubile, sfortunatamente. I sentieri aperti al cavallo si biforcano spesso (per ricongiungersi, chissà dove). La scacchiera è una griglia incalcolabile di righe e colonne, su cui nessun punto di avvio prescelto può essere difeso con sicurezza.
Nonostante ciò, intravedo la possibilità di costruire un film che sarà una specie di coniugazione sinottica di un simile percorso, il Percorso di tutti i Percorsi, per così dire, del film infinito, o di tutto il sapere, il che equivale alla stessa cosa. Una possibilità del genere si presenta con insistenza alla mia immaginazione, celata nel germe di un piano di esecuzione.

(Hollis Frampton, 1971) (12)

La vulgata colloca la figura di Hollis Frampton nel canone del cosiddetto “cinema strutturale”, stabilito da P. A. Sitney, in un famoso articoloxiiiche ne ha definito i caratteri estetici, associandoli a una rosa di nomi, che vede anche uniti storicamente nell’intento di confrontarsi e oltrepassare la tradizione stabilita, nell’area del New American Cinema, dal “cinema lirico” di Stan Brakhage (e di Maya Deren, Kenneth Anger, Sidney Peterson, Gregory Markopoulos, Jonas Mekas, ecc.): questi nomi sono quelli di Michael Snow, George Landow, Ernie Gehr, Tony Conrad, Joyce Weiland, Paul Sharits, Ken Jacobs. Al di là dell’ormai ineludibile storicità della definizione di Sitney, come delle sue palesi sviste ed approssimazioni, è interessante notare il taglio che dà Frampton alla particolare congiuntura in cui si trovarono queste persone, non tanto o non solo per una contingenza storica: vi era “un senso di comunità che in qualche modo ci univa, probabilmente nella convinzione che avrebbero dovuto esistere buoni film. Preferibilmente, film così buoni che non erano ancora stati realizzati. Che lo spazio intellettuale aperto al film non fosse ancora completamente saturato.” (15)

L’idea che ci siano ancora “buoni film” da realizzare, che ci siano ancora spazi, possibilità, caselle da riempire sulla scacchiera del cinema, non deriva tanto da un’urgenza espressiva individuale che preme per inserirsi nella continuità di una tradizione, ma dall’assunzione di una responsabilità, quella di ridefinire i fondamenti stessi quella tradizione: ridurla alle sue condizioni primarie per completarla, per portarla alle sue estreme conseguenze. Un disegno teorico di esaurimento delle possibilità del medium cinematografico, che proietta la sua griglia paradigmatica sulla successione storica del cinema: una visione che si apre allo sguardo del “metastorico” del cinema, così come è delineato nel saggio “For a Metahistory of Film: Commonplace Notes and Hypotheses” (16): in questo snodo centrale della sua opera, Frampton assume il proprio compito di cineasta-teorico come la logica esecuzione di un programma che diventa storia, che si realizza nei film che ancora mancano al cinema. Ma per fare questo il metastorico del cinema deve risalire controcorrente la sequenza storica degli eventi, riaprirla e rimontarla secondo la necessità della propria visione.

In particolare è nel rapporto centrale tra fotografia e cinema che questo testo trova gli strumenti per scardinare le assunzioni storiciste, che vedono prospetticamente il cinema come ‘accelerazione della fotografia’, e che in questa pretesa linearità, finiscono per avvolgersi in argomenti “del genere uovo/gallina”. La soluzione di Frampton è, ovviamente, quella di complicare la linearità di questo modello in un “labirinto” anacronistico, che ipotizza una via d’uscita nella precessione logica del cinema sulla fotografia, che Frampton sintetizza nell’immagine del “cinema infinito”: “Una camera polimorfa ha sempre girato e continuerà a girare per sempre, con la sua lente a fuoco su tutti gli aspetti del mondo. Prima dell’invenzione della fotografia fissa, i fotogrammi del cinema infinito erano vuoti, code nere. Poi qualche immagine ha cominciato a comparire sull’infinito nastro di pellicola. Dalla nascita del cinema fotografico, tutti i fotogrammi sono riempiti di immagini. Nella logica strutturale della pellicola cinematografica, non c’è nulla che precluda l’isolamento di una qualsiasi immagine singola. Una fotografia fissa è semplicemente un fotogramma isolato estratto dal cinema infinito.” (17)

La “logica strutturale della pellicola”, è vista dunque non come sequenza sintagmatica di istanti registrati, ma come insieme paradigmatico di quelle unità minime che sono i fotogrammi. Questo, da un lato, esclude ogni semplificazione che faccia del cinema una semplice messa in moto della fotografia fissa; dall’altro rovescia questo argomento, facendo della fissità della fotografia il fulcro di rigenerazione e movimento del film, liberando il singolo fotogramma dalla sua dipendenza dalla sequenza e dalla produzione di un movimento illusionistico. Quest’ultimo “si fonda sull’assunzione che il tenore di cambiamento tra fotogrammi successivi possa variare solo entro margini ristretti”, mentre “il film infinito contiene un’infinità di interminabili passaggi in cui nessun fotogramma assomiglia minimamente ad un altro, e un’ulteriore infinità di passaggi dove i fotogrammi in successione sono identici quanto lo si possa immaginare.” (18)

Certo, “cinema è una parola greca che vuol dire ‘movimento’ [or. movie]”(19): ma a Frampton non interessa tanto il movimento, ossia la condizione coatta della maggior parte dei movies che vanno a comporre la storia del cinema, ma la “logica strutturale” del film, della pellicola, che consente di aprirla e riattraversarla a partire da ogni singolo artefatto concepito in base a quella logica. In questo modo la visione “metastorica” si proietta dal materiale di base alle forme dell’opera compiuta e infine alla tradizione stessa in cui l’opera si inserisce. Per il metastorico del film la consueta dicotomia cinema/film non è una condizione inappellabile derivante dai rapporti tra qualsiasi macro e microcosmo, ma un problema da risolvere, un paradosso logico da svolgere e da tendere all’estremo nella pratica, dove ontogenesi del film e filogenesi del cinema finiscono per dimostrare stesso teorema.

Il metastorico del cinema è impegnato a “inventare una tradizione” o, meglio, “genera per sé il problema di derivare una tradizione completa da nient’altro se non dai più evidenti limiti materiali della macchina filmica nel suo complesso.” La tradizione in cui s’inserisce e che porta avanti, scarta ogni limitazione cronologica, configurandosi come “un insieme coerente e manipolabile di singoli monumenti”(20), la cui necessità è determinata dalle coordinate che il metastorico stesso traccia, non a partire da una successione storica, ma dal suo punto strategico di osservazione, che reinquadra e riattraversa quella storia, rendendola sempre e nuovamente presente a se stessa. Per questo la dimensione dell’archivio domina questa visione ed è la controparte materialistica della mistica intuizione del “cinema infinito”. Ogni singolo monumento deve essere considerato non come opera compiuta, ma come materiale, footage da inserire in una griglia oppure da smontare e riutilizzare per nuovi lavori, quelli che ancora non ci sono e si devono fare. Anche per questo Frampton, nel continuo smottamento del progetto di Magellan, comincia un movimento di riappropriazione del cinema a partire dalla sua stessa opera, inserendo frammenti o interi film negli scomparti del ciclo, che si biforcano di continuo come le ali della biblioteca di Borges, in un’approssimazione continua del film infinito alla mathesis universale e insieme a una sterminata macchina-archivio in continua rigenerazione. E nelle monadi “panottiche” dei Pans, (Panopticons), piccoli film-cellula, che scandiscono i giorni dell’anno, riuniti nella sezione di Straits of Magellan, dopo aver affrontato il problema del discorso filmico posto da Ejženstejn, Frampton risale fino alle vedute Lumière, all’inspiegabile “luminosità” di quei film, che si traduce in un’opacità resistente, “impervia all’analisi” e al montaggio. Come se beneficiassero, nonostante la storia che hanno originato, di una condizione edenica che li preserva dal demone del linguaggio. Ritornare a quel momento aurorale e rifare questi film, voleva forse dire, per il metastorico Hollis Frampton, muovere di un’altra casella le sorti di “un’invenzione senza futuro”.

A Hollis Frampton Odissey  (Criterion 2 DVD / BLURAY)


NOTE

(1) Dichiarazioni contenute in un’intervista rilasciata l’8 settembre 1976 alla London Filmmakers’ Cooperative per « Afterimage », e pubblicata solo in seguito in: Deke Dusinberre, Ian Christie, “Episodes from a Lost History of Movie Serialism: An interview with Hollis Frampton”, Film Studies n.4:2004, pp. 104-118.
(2) Cfr. Stan Brakhage, Metaphors on Vision, « Film Culture » n. 30:1963. Tr. it.: Id., Metafore della visione. Manuale per riprendere e ridare i film, Feltrinelli, Milano, 1970
(3) Cfr. Hollis Frampton, “For a Metahistory of Film. Commonplace Notes and Hypoteses”. Or. in «Artforum», (Settembre 1971), pp.32-35. Ora in: Hollis Frampton, Circles of Confusion. Film Photography Video Texts 1968-1980, Visual Studies Workshop Press, Rochester, 1983. Gli articoli contenuti in questa antologia, uscita alla morte di Frampton e ormai fuori catalogo, sono disponibili in pdf qui, mentre è recentemente uscita l’edizione integrale degli scritti a cura di Bruce Jenkins: On the Camera Arts and Consecutive Matters, MIT Press, Cambridge MA, 2009.
(4) Cfr. Annette Michelson, “Frampton’s Sieve”, in « October » n. 32:1985, pp. 151-166.
(5) Cfr. Bruce Jenkins, “The Red and The Green”, in « October » n. 32:1985, pp. 79.
(6) Deke Dusinberre, Ian Christie, “Episodes from a Lost History of Movie Serialism: An interview with Hollis Frampton”, cit., p. 111
(7) Frampton sconsiglia di arrestarsi all’aspetto semplicemente “partecipativo” del gioco combinatorio innescato nella parte centrale di Zorn’s Lemma. Cfr. l’intervista con Scott Mac Donald in: A Critical Cinema. Vol. 1, University of California Press, Berkeley CA, 1988.
(8) Cfr. Bruce Jenkins, “The Red and The Green, cit.,  p. 83
(9) Cfr.. Christopher Phillips, “Word Pictures: Frampton and Photography”, in « October » n. 32:1985, pp. 62-76.
(10) Cfr. l’intervista con Scott Mac Donald, cit., p. 69.
(11) Cfr. “Episodes from a Lost History of Movie Serialism: An interview with Hollis Frampton”, cit., p. 116.
(12) Ibid., p. 105
(13) Hollis Frampton, “For a Metahistory of Film. Commonplace Notes and Hypoteses”, in Circles of Confusion, cit., p.116
(14) Paul Adams Sitney, “Structural Film,” in « Film Culture » n. 47:1969, pp. 1-10. Ora anche in: Id. (a c. di), Film Culture Reader, Cooper Square Press, New York, 2000 (Ried.), pp. 326-348. Cfr. anche il capitolo “Structural Film” in: Id., Visionary Film. The American Avant-Garde 1943-2002, Oxford University Press, New York, 2002 (Ried.).
(15) Cit. in Ed Halter, “Nostalgia for an Age Yet to Come”, in A Hollis Frampton Odissey, Criterion, 2012
(16) Hollis Frampton, “For a Metahistory of Film. Commonplace Notes and Hypoteses”, in Circles of Confusion, cit.
(17) Ibid., p. 111.
(18) Ibid., p. 114.
(19) Ibid. p. 115.
(20) Ibid. p. 113.