I film di Brillante Mendoza appaiono come delle finestre metonimiche su un mondo che si apre di schianto davanti ai nostri occhi. I paesaggi urbani schiaccianti di Lola rimanevano sullo sfondo, ma lasciavano intravedere, dietro alla coriacea nonnina protagonista, seguita costantemente da una mdp incollata quanto moralmente distante, tutto il babelico disordine di una società civile sviluppatasi in maniera disorganica, che tende inevitabilmente a lasciare soli gli individui, per quanto deboli e indifesi possano essere. 
 
Sinapupunan – Thy Womb risulta un perfetto contraltare di quel film. Può suonare inesatto parlare di protagonisti per un’opera che di fatto sconfina nel documentario etnografico. Mendoza fotografa una tipologia di realtà, quella del popolo di pescatori Bajau, accostandovisi con un occhio rispettoso, prendendo come perno una coppia matura, lui pescatore, lei levatrice, alle prese con un problema annoso, quello dell’infertilità di lei. Il film si dimentica qui e lì di questa traccia narrativa (che lo spettatore tiene però ben presente a causa del titolo, il tuo ventre), per allargarsi con un ben più ampio respiro al contesto in cui questa coppia si muove, quello di gente ancorata alle tradizioni e alla vita sull’acqua, quasi dimentica della modernità. Lo spettatore molto presto si adegua al racconto così placido e poco preoccupato di una nozione comune di ritmo: Thy Womb riesce a fare ben altro rispetto al raccontare, riesce ad eliminare ogni punto di vista esterno immergendo così chi guarda in una dimensione perfettamente conchiusa. Questa particolare formula del cinema di Mendoza è brillantemente esemplificata dalla scena in cui la coppia di protagonisti rimane implicata in una sparatoria in mezzo al mare: lui non solo viene colpito da una pallottola vagante, ma cade in acqua rischiando la morte. La moglie lo ripesca, lo riporta in casa, estrae la pallottola, cura l’uomo. Nessuno si pone il problema di chi fossero i personaggi coinvolti nella sparatoria, quali le loro motivazioni, né tantomeno ci si preoccupa di pensare ad una qualche rivalsa su di loro, di qualunque forma: quello che importa è solo riprendere il naturale ritmo di vita di sempre, armonico al punto da essere evidentemente, in sé, ripieno di un senso superiore che non ha bisogno di alcuna ulteriore specifica o spiegazione.
 
 
Non stupisce che in questa dimensione, lontana non per geografia, ma per alterità delle regole morali e civili che la governano, la levatrice, con un grande fervore, aiuti il marito a trovare una seconda moglie che possa finalmente assicurare quella discendenza a cui lei non potrà mai provvedere. Mendoza ci mostra, anche qui, una porzione della realtà dei Bajau crudele quanto inamovibile: nessuno dei due coniugi mette in discussione che una discendenza debba esserci, né ha mai il minimo dubbio che essa debba essere ottenuta con tutti i mezzi messi a disposizione dalla tradizione. Indi per cui è lecito anche spogliarsi dei propri averi per procurarsi il denaro per la dote e sacrificare il proprio amore. “Ti ammiriamo per ciò che stai accettando per tuo marito” dirà alla levatrice la matriarca della famiglia della futura seconda moglie. Mendoza prima ci mostra di quale amore assoluto sia capace questa coppia singolarmente sfortunata, poi infierisce sullo spettatore spalancandogli gli occhi su quanto possa essere naturale la crudeltà umana con un finale che segna un feroce passaggio di consegne. Tutto in nome di una perpetuazione della vita che non passa, banalmente, attraverso la morte, quanto piuttosto lungo un inevitabile percorso di accettazione di regole arcaiche necessarie nella loro immutabilità.
 
A conquistare, in questa ultima opera di Mendoza (forse più etnografica e colorata e per questo più "piacevole" allo sguardo occidentale) è la capacità di lasciar intrecciare armoniosamente narrazione e descrizione, raggiungendo il suo tipico tagliente naturalismo. Non è infrequente nel film l’irrompere di militari e guerriglieri che sventagliano proiettili, in esplosioni di violenza fulminee quanto cruente, che paiono comunque solo un elemento dello sfondo, come se si trattasse di una barriera naturale, o architettonica. Questo occhio impietoso, con la sua limpidezza di sguardo, quasi sfida a quel mondo esterno che, anche nella sua più insensata brutalità, sembra alla fine incapace di modificare e di penetrare in un inscalfibile ordine delle cose.