Bellas Mariposas è l'adattamento di un romanzo breve di Sergio Atzeni che aveva attirato l'attenzione di molti registi fin dall'epoca della sua uscita. Alcuni la consideravano una trasposizione impossibile. Come hai trovato la chiave per portarlo al cinema e quali erano le maggiori insidie del testo d'origine?

Ho trovato la chiave leggendolo e rileggendolo, perché per tanto tempo sono stato perplesso riguardo la sua potenziale trasposizione cinematografica, proprio per la sua natura di scritto quasi sperimentale: si tratta di un testo sostanzialmente privo di punteggiatura, senza dialoghi e senza un plot preciso, in forma di un lunghissimo monologo. Lo vedevo come un terreno insidioso, di pertinenza esclusiva della letteratura, anche se poi, andandolo a scandagliare è possibile riscontare un arco narrativo che si compie nel corso di una giornata – “una giornata particolare”, potremmo dire, per ricordare altre giornate cinematografiche. L'idea mi è arrivata rileggendo il finale, quasi un sottofinale, quando la protagonista, Caterina, si rivolge direttamente a un personaggio che parrebbe essere il narratore stesso – stando anche alle indicazioni biografiche di Atzeni – e gli dice, grosso modo, “non mi guardare così, io non sono interessata a queste cose porche, non ci sto a questo gioco”. In sostanza: pur rivolgendosi costantemente al lettore, a un certo punto, chiama in causa il narratore stesso. È lì che mi sono detto: l'unico modo per portare al cinema Bellas mariposas è rispettarne questa caratteristica. In quel momento ho deciso di correre una gran quantità di rischi, perché si trattava di affidare la narrazione a una ragazza giovane, non un'attrice professionista, facendo sì che si rivolgesse allo spettatore proprio come accadeva nel racconto. Un terreno scivolosissimo dal quale non so ancora oggi come sono uscito, perché se è vero che l'accoglienza al Festival di Venezia è stata molto calorosa, il vero banco di prova resta il pubblico in sala. Con la speranza che il film possa trovare una distribuzione…
 
Per di più ti muovevi in un terreno poco noto. Cagliari non è la tua città. In che modo ti sei avvicinato a quest'ambiente estraneo? Quali passi hai compiuto in tal senso?
 
Sono andato a Cagliari nel 2009 subito dopo aver ultimato la sceneggiatura del film, per conoscere meglio la città in cui è ambientato il libro, e in particolare i quartieri popolari di Sant'Elia e San Michele. Ho pensato che il modo migliore per farlo fosse quello di unire gli intenti di ricerca all'attività di educazione all'immagine che da anni svolgo in parallelo alla regia. Ho cominciato a insegnare in due scuole diverse nel novembre del 2009 con in testa l'idea di trovare volti e corpi utili al casting del film ma poi mi sono appassionato così tanto ai ragazzi e alle loro storie che abbiamo girato un altro film, Tajabone, presentato a Venezia due anni fa.
 
Come di consueto nel tuo cinema, anche in Bellas Mariposas il cast è composto in maniera eterogenea, mescolando attori professionisti e non. 
 
Il processo è stato molto laborioso ed è partito da molto lontano, da quell'esperienza nelle scuole di cui ti ho detto, un'esperienza che per me era anche di appaesamento: lo scopo non era solo quello di lavorare al casting ma anche prendere confidenza con il luogo che intendevo raccontare, così da non sentirmici estraneo. Non volevo certo che il mio sguardo fosse quello di un turista di passaggio e, in questo senso, la scuola è stato un ottimo viatico. Mi interessava capire come funzionava quel mondo al suo interno, e solo stando con i ragazzi mi è stato possibile entrare anche nelle loro case, in questi palazzi che, bada bene, erano e restano inviolati dal cinema. Si tratta di luoghi ad alto tasso delinquenziale e ti assicuro che non è facile avervi accesso, perché lì la gente deve potersi fare i propri comodi e non sono ammessi sguardi indiscreti. La convivenza prolungata con tutti quei ragazzi, poi, ti porta a rimodulare un'idea di casting che hai sulla carta in partenza ma poi va adeguata alla realtà e alle facce che ti trovi davanti. Anche perché i luoghi in cui Atzeni ha ambientato il racconto non sono più gli stessi in cui vive la gente di cui parla. Questo è stato il grande problema di fondo: il quartiere aveva perso quella identità e riconoscibilità che gli aveva dato l'autore. Contemporaneamente mi sono reso conto che i quartieri popolari in qualche modo si assomigliano tutti, anche perché non sapendo ancora se avrei girato il film a Cagliari, sono andato a Tor Bella Monaca – un po' l'equivalente di Sant'Elia a Cagliari o Secondigliano a Napoli – e ho capito che anche lì esistevano le stesse dinamiche, lo stesso modo di abbigliarsi dei ragazzi, e lo stesso modo di truccarsi delle ragazze, la stessa musica a palla ovunque. 
 
Come mai dubitavi di girare il film a Cagliari?
 
Per una ragione puramente produttiva. La difficoltà di girare un film in Sardegna non è mai venuta meno, perché è chiaro che non girare a Roma significa avere una troupe in trasferta e perdere tutta una serie di vantaggi, a cominciare dal fatto di poter ricorrere ai noleggi dei mezzi in modo modulare, a seconda delle esigenze del momento. Ma anche se a un certo punto posso aver preso in considerazione l'ipotesi di girare altrove, in cuor mio non ho mai voluto fare a meno dell'ambientazione sarda, perché se è vero che tutte le periferie in qualche modo si assomigliano, il film volevo farlo a Cagliari.
 
 
È straordinario come, tanto nel libro di Atzeni quanto nel tuo adattamento, si raccontino contesti familiari di abbrutimento ma con il sorriso sulle labbra, con uno sguardo che non è mai cinico o compiaciuto ma ironico e compassionevole. Uno sguardo che si sforza di abbracciare tutti allo stesso modo, anche perché nessuno ha mai davvero la coscienza completamente pulita…
 
Devo dire che la capacità di Atzeni di trattare in maniera lieve una materia così dura è stata tra le qualità che mi aveva maggiormente sedotto fin dall'inizio. Come dici tu, si raccontano cose terribili e ho cercato di obbligarmi a questa lievità, e dal momento che trovare la misura non è stato facilissimo credo che, in questo senso, il cast abbia ricoperto un ruolo fondamentale. Nei volti doveva essere iscritta la capacità di sorridere anche di fronte a eventi drammatici. Sapevo che la scommessa si sarebbe giocata proprio lì e infatti nel comporre il gruppo degli attori ho fatto un lavoro ancora più ossessivo che in passato, incrociando ripetutamente le possibilità, riunendo i candidati per capire se, a parte le capacità dei singoli, funzionasse anche l'insieme. Non che questo bastasse ad assicurare la riuscita della messa in scena, perché in Bellas mariposas non è facile trovare appigli drammaturgici. Se ci fai caso, il testo procede come certo teatro di Checov, dove si assiste a una serie di eventi che apparentemente sembrano non portare avanti l'azione più di tanto, finché alla fine non accade qualcosa, anche di poco conto, che getta una nuova luce sui personaggi, e con questo colpo d'ala l'autore in genere ti restituisce anche un senso ultimo e più profondo del racconto. Credo che nel testo di Atzeni si possa riscontrare la stessa, sottile qualità. Tutto ciò aggiunge ulteriori problemi nel momento in cui lavori con attori esordienti o non professionisti, perché non ci sono eventi scatenanti, capovolgimenti di fronte, non accade mai niente di così importante per cui la trama stessa trascina l'attore e il personaggio ma c'è invece un incedere lieve – se vuoi da racconto picaresco –, e tutto rimane sotto traccia, mai realmente visibile, e a quel punto ti può salvare solo l'amore per la storia che stai raccontando. 
 
Avevo letto una precedente versione della sceneggiatura e mi sono accorto che hai lasciato fuori tutta una componente surreale, se vogliamo chiamarla così, che faceva capolino qua e là nel testo. Come mai?
 
Le ragioni sono esclusivamente di carattere produttivo. La parte a cui ti riferisci, ovvero tutti quegli elementi che avrebbero dovuto preparare al finale con l'arrivo della maga, e dunque i momenti con i gatti che avevo previsto ci fossero fin dall'inizio, è stata per forza di cose moderata. Perché non avevamo il tempo di istruire un gatto a fare quello che avevamo in mente né, tanto meno, la possibilità economica di animarlo in digitale, perché se anche i costi non sono alti come in passato, i preventivi erano pur sempre al di fuori del nostro budget. E credo sia un peccato, perché tenevo molto all'aggiunta di quella tonalità. 
 
Da Ballo a tre passi a Bellas mariposas, passando per Sonetaula, continui a trovare nell'infanzia e nell'adolescenza un terreno d'elezione per i tuoi racconti. Come mai ami così tanto questa fase della vita? 
 
Potrei dirti che si tratta di una fase che mi trovo alle spalle e che quindi sento di poter raccontare, perché mi ci sento a mio agio e sono convinto che si debba sempre partire da quello che si conosce. Si tratta di una fase straordinaria, in cui tutto assume una grande importanza, quasi decisiva, e a livello emotivo fornisce tantissima materia al cineasta. A me poi piace particolarmente il mondo della scuola e avendo periodicamente insegnato, a contatto con i ragazzi, credo di aver imparato a conoscerli bene e compreso come che si possono ottenere le chiavi d'accesso al loro mondo.
 
A proposito di lavorare su quello che si conosce: pensi di continuare a raccontare la tua terra o senti il desiderio di avventurarti oltre i confini dell'isola?
 
Credo che arroccarsi e farsi limitare dai confini geografici di un luogo, con il rischio anche di esaurirne le potenzialità visive, sia inutile. Ho rivoltato la Sardegna come un calzino e anche se credo che ci sia ancora molto da raccontare penso che una volta che hai filmato, fotografato un dato luogo, quel luogo muore e allora subentra la necessità di trovarne altri. Sarebbe davvero da stupidi confinarsi alla sola Sardegna, e non avendo ancora fatto programmi per il futuro credo che saranno le storie a portarmi in una direzione piuttosto che in un'altra. È chiaro che, a caldo, dopo un film come questo, il primo posto dove sono andato a cercare nuove storie è ancora una volta la letteratura sarda, ma in maniera non esclusiva. Ho letto da poco un bellissimo romanzo, Devozione di Antonella Lattanzi, una giovane autrice pugliese pubblicata da Einaudi. È la storia d'amore tra due tossicomani, molto intensa, straordinaria. Ma pensare di adattarlo vorrebbe dire mettersi in una posizione produttiva molto difficile, ancora una volta radicale, perché per ottenere un risultato degno in questo senso dovrei fare delle scelte estreme. Non che io mi lasci spaventare da certe scelte. Se credo fino in fondo in una cosa non ho paura a mettermi completamente in gioco e sono convinto che quando si è spinti da una passione vera e profonda i modi per fare un film si trovino sempre. Aveva ragione Rossellini quando diceva “o faccio quest'inquadratura o crepo”. 
 
 
La scommessa più grande, con Bellas Mariposas, è stata di carattere produttivo, visto che per la prima volta hai realizzato un'opera finanziata quasi interamente dalla tua società di produzione, la Viacolvento. Immagino si sia trattata di una grande soddisfazione ma vorrei che mi parlassi anche delle eventuali controindicazioni legate a una scelta del genere.
 
C'è da dire una cosa: in qualche modo mi sono sentito obbligato a fare così, perché dopo due film non avevo guadagnato una forza contrattuale tale da potermi presentare a un produttore e farmi finanziare un film come questo. Tieni presente che l'idea che avevo, sin dall'inizio, era quella di girare il film in un certo modo: rispettandone il piano linguistico, utilizzando quasi esclusivamente attori non professionisti, etc. Un film, dunque, che già sulla carta si metteva fuori dal mercato – sempre ammesso che ci siano delle ricette che ne garantiscano l'accesso. Quindi era fondamentale essere sorretti da un convincimento forte, e io questo film volevo farlo a tutti i costi, sapendo che sarebbe stato un percorso a ostacoli che non è ancora terminato, visto che il film, a oggi, non ha ancora trovato una distribuzione. Detto questo, è chiaro che il poter decidere tutto in prima persona ti offre un'enorme libertà e, apparentemente, un grande vantaggio, perché nessuno si può opporre alle tue scelte. Ma qui risiede anche il grande pericolo di una condizione di questo tipo. Ad esempio: ogni regista è istintivamente portato a puntare quasi tutto sulla ripresa e a trascurare la post-produzione, o la promozione, perché è convinto che la parte più difficile non sia quella e non sia lì che si gioca la riuscita dell'opera. E il dover pensare a tutti gli aspetti organizzativi di un film, quindi non solo a quelli puramente creativi, toglie tantissima energia e attenzione in passaggi che possono anche essere cruciali. Mi è capitato spesso di dover gestire momenti difficili della messa in scena in coincidenza con momenti altrettanto difficili dell'organizzazione ed è allora che invochi la presenza di un altro che si faccia carico di questi problemi e in qualche modo ti venga in soccorso. Perché vorresti dover pensare solo alla scelta delle inquadrature e delle luci, o come poter portare un attore alla giusta temperatura in una scena, e non a quanti cestini devi far arrivare sul set e a come esaurire il programma di un figurante perché non te lo puoi permettere il giorno dopo. Ma così non è stato, e il film posso davvero dire di averlo fatto da solo con mia moglie (Elisabetta Soddu, partner anche produttiva del regista in Viacolvento, ndr) che ha seguito il progetto al mio fianco dall'inizio alla fine, passo dopo passo. A cose fatte, credo che se si vuole realizzare film di questo tipo si è quasi obbligati a fare come ho fatto io, a meno che i traguardi raggiunti in precedenza siano tali da poter chiedere tutto quello che vuoi, ma quanti sono i registi italiani di oggi che possono farlo?
 
Questa scelta ha inciso in qualche modo anche nel tuo modo di girare? Ho avuto l'impressione che in Bellas Mariposas i movimenti di macchina siano meno enfatizzati rispetto al tuo film precedente, Sonetaula
 
Nel film ci sono molti piani-sequenza e il montaggio è quindi interno alla ripresa, perché sono gli attori a condurre lo sguardo da una parte all'altra, mentre in Sonetaula ricorrevo a un montaggio più classico, se vogliamo. Da spettatore, in linea di massima, mi piace la magniloquenza di certi gesti registici, ma quando mi metto dietro la macchina da presa invece tendo a censurare, perché sono convinto che le immagini debbano essere sempre al servizio del racconto e non prevaricarlo. 
 
Anche la fotografia è decisamente diversa.
 
Sai, oggi il digitale ha davvero spalancato enormi potenzialità. A partire da un girato semplicemente “corretto”, puoi reinventare la fotografia in fase di post-produzione, cambiando anche direzione rispetto a quella che avevi previsto in origine. Un tempo, con i costi e i tempi di un laboratorio, tutto questo era impossibile e contava tantissimo l'esperienza prima del set era determinante. Oggi, paradossalmente, puoi persino ricrederti, in fase di post-produzione. E la stessa cosa vale per il montaggio. 
 
Ma cosa è cambiato nel mondo del cinema italiano rispetto a dieci anni fa, quando hai cominciato? Sei più ottimista o pessimista rispetto agli esordi?
 
Intanto, dopo dieci anni, ho qualche energia in meno ma, detto questo, a essere profondamente cambiate sono le modalità di fruizione del film. Io sono cresciuto con l'idea che la sala fosse l'unico luogo deputato in cui vedere il cinema e oggi non è più così: i ragazzi vedono i film sullo schermo di un computer o addirittura su quello di un cellulare. E se forse il modo di godere dei film è immutato, di certo è cambiata l'intensità con cui quest'emozione si può sprigionare. Sarò un nostalgico ma credo che l'esperienza della visione in sala non sia barattabile. D'altra parte è cambiato radicalmente il modo di vivere e di relazionarsi con gli altri, perché non dovrebbe cambiare il modo in cui si guardano i film?
 
Settembre 2012