Fare le classifiche mi diverte molto meno che vent’anni fa, figurarsi leggere quelle degli altri. Poi, però, penso che le classifiche che si fanno oggi tra vent’anni saranno un documento del gusto di un’epoca. Dopo tutto ai canoni letterari attribuiamo molta importanza, come radiografia e sintomatologia della cultura e del gusto di un certo periodo (vedi anche il recente Critica e critici di Cesare Segre): e quindi perché non dovrebbe valere per il cinema? Ecco perché non mi sono tirato indietro quando Sight & Sound ha fatto l’onore di interpellarmi (con altri italiani che vanno da Paolo Mereghetti a Sergio Germani, da Carlo Chatrian a Giulio Bursi, da Adriano Aprà a Francesco Pitassio; chissà perché mancano però enrico ghezzi, Gianni Amelio e Nanni Moretti) per il World Poll che istituisce ogni dieci anni.

Il risultato è noto: La donna che visse due volte (Vertigo) ha scalzato Quarto potere, in cima da decenni. Il trend era anticipato da Martin Scorsese, che nel suo ultimo libro intervista, Conversazioni su di me e tutto il resto (Bompiani), annunciava: “Ora penso di avere raggiunto una certa saturazione con Quarto potere. Ci sono altri film di Welles che mi danno più spunti. E non solo di Welles. Per esempio Il fiume di Renoir e Duello a Berlino di Powell e Pressburger sono due film in cui continuo a trovare delle cose. Mentre ho un po’ esaurito Quarto potere e Sentieri selvaggi”.
Chi vuole può scorrere la lista del 2012, confrontarla con quelle del passato, vedere quali differenze ci sono tra la top ten dei critici e quelle dei registi, stabilire chi sale e chi scende. Non intendo aggiungere riflessioni a quelle che già si possono leggere sul numero di settembre della rivista, anche se en passant va accennato come la sostituzione di Hitchcock a Welles (e di quel film di Hitchcock) sembri premiare una cinefilia più fiammeggiante e frou frou, più estatica, sognante e in definitiva disimpegnata. Ma vorrei ampliare alcune considerazioni che facevo, in margine alla mia lista, sulle regole del gioco; e poi fare una considerazione più generale su mode e tendenze.
 
Quali sono i criteri per cui un film entra nel World Poll o un testo in un canone? Evidentemente un primo criterio è quello della rappresentatività: ma di che cosa? Di una mia idea di cinema, coltivata soggettivamente, di un mio piacere spettatoriale – o di un’idea di cinema con pretese di universalità, che vuole essere condivisa, e a volte lo è? In un caso la classifica è emblematica solo del mio gusto, nel secondo ambisce a dialogare con una comunità (se non a imporsi a essa); in mezzo, ovviamente, ci possono essere tutte le sfumature e i compromessi del caso.
Ne discende un secondo problema: quanto deve essere noto il film da canonizzare? Quanto meno è noto, tanto più difficile è attribuirvi un valore che vada al di là dell’affermazione di gusto. Ma come si costruisce la notorietà? È solo un fatto quantitativo? La storia del cinema è piena di riscoperte in grado di riscriverla, e di ciò va tenuto conto. Anche se possono passare decenni prima che gli storici siano disposti a riscrivere le proprie storie: ne è esempio quanto scriveva Kristine Thompson sul blog di David Bordwell dopo avere visto la retrospettiva Jean Grémillon al Cinema Ritrovato di Bologna; valutando la riscoperta, alla fine era lieta di pronunciare la sentenza: Grémillon rimane un minore, non c’è bisogno di riscrivere la (sua) storia.
 
Altri criteri, altri filtri: quanto deve essere lungo il film canonizzato? Si può mettere un cortometraggio nella top ten? E ancora: quanto può essere recente? Ci si può arrischiare a canonizzare un film dell’anno scorso, non ancora vagliato dalla storia? Da cui un altro problema: quante volte devo avere visto il film in oggetto per potermi permettere di metterlo in lista? Se l’ho visto troppe volte rischio di esserne saturato, come capitava a Scorsese con Quarto potere? Ma se l’ho visto una volta sola, anni fa, come posso pretendere di essere credibile?
 
 
La mia lista cercava di rispondere a queste domande, a volte dando la risposta sbagliata, dato che di un gioco si tratta. Quando ho scorso i risultati del World Poll, ho pensato anche a un’altra domanda: come bisogna bilanciare la nazionalità dei vari film? In che misura un canone deve cercare di essere onnicomprensivo e internazionale? Quanti film del mio Paese posso mettere senza temere di passare per sciovinista? In che misura le nostre scelte ratificano una storia del cinema scritta da altri, che molto spesso è americanocentrica o eurocentrica? Quanto pesa la correttezza politica? Rispondo solo all’ultima domanda: poco, a vedere tante liste.
Mi sono sorpreso, a posteriori, di non avere indicato neanche un film giapponese; avrei potuto mettere un film di Haile Gerima, e in compenso ho votato quattro italiani nei fatidici dieci, mentre nel World Poll ce n’è un solo, al decimo posto: 8 1/2. Scendendo si trova L’avventura al 21mo, Ladri di biciclette al 33mo e La dolce vita al 39mo, preceduto da Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975). Ora, che ci siano più persone che votano il film di Chantal Akerman di quelle che votano Fellini, mi sembra mostruoso. Ma a parte ciò, che è un fatto soggettivo, mi sembra emerga un altro tipo di cinefilia che trovo perniciosa: quella che coltiva l’autorialismo rigoroso e spigoloso, arroccata in un’idea di purezza del linguaggio filmico.
 
Scorrendo l’elenco dei registi menzionati, ci sono Marjane Satrapi e Mia Hansen-Løve (a proposito di talenti recenti) ma non Comencini, Lattuada, Genina, Citti, Damiani, Zampa, Bolognini, Amelio. Ci sono Fulci e Bava, ma se non fosse stato per il sottoscritto, Pietrangeli non c’era; di Moretti, tre (stranieri) votano Palombella rossa – e basta; di Germi il solo Jiri Menzel vota Divorzio all’italiana; anche a Monicelli e Risi, e addirittura a Ferreri, non va molto meglio. Il cinema italiano appare ancora una volta marginalizzato, anche se qualche spiritoso vota Pranzo di ferragosto. Il cinema italiano non è più cool, è poco studiato, poco visto. All’estero conoscono solo quello che esce con la Criterion: ed è poco, sono sempre i soliti dieci-quindici film. D’altronde, nella strombazzata The Story of Film di Mark Cousins, si parla di neorealismo senza citare Ossessione. Non mi sembra che la globalizzazione abbia fatto un gran bene alla cinefilia internazionale.