Pointligneplan è un collettivo d’artisti eterogeneo che, da più di dieci anni, accoglie le opere di videasti al confine tra cinema e arte contemporanea. Pur avendo una sua specificità non facilmente equiparabile, la mostra "La fabrique des films", tenutasi alla Maison d’Art Bernard Anthonioz a Nogent-sur-Marne, alle porte di Parigi, tra il 6 giugno e il 22 luglio 2012, pare far proprie alcune delle tendenze maggiori dell’arte contemporanea: ibridazione, rilocazione, messa in archivio. Il progetto avanzato dal gruppo Pointligneplan costituisce nondimeno un interessante unicum, almeno in terra francese. 

La mostra si dipana in più spazi, ognuno dei quali ospita, ai suoi angoli o sulle sue pareti, frammenti di un discorso che si presume o già visto e già detto, o ancora da vedere e da dire. Dopo un corridoio ironicamente apodittico e “scientifico”, sorta di mappatura del panorama cinematografico francese e posizionamento del collettivo all’interno degli stringenti diagrammi del sistema, diciotto videasti si alternano e si interrogano, ognuno in modo diverso e producendo effetti egualmente diversi, sulle origini del fare artistico, disseminando tracce e segni prodromici e/o programmatici (oggetti, atti notarili, foto, disegni, appunti, estratti) di un’opera in video esistente o in divenire. Ogni spazio non dà semplicemente conto della genesi di un film, ma ne svela il retrobottega, la sua “fabbrica” stricto sensu
 
In un certo senso, i vari Thomas Bauer, Jean Breschand, Érik Bullot, Alain Declercq, Vincent Dieutre, Philippe Fernandez, Valérie Jouve, Bouchra Khalili, Ange Leccia, Christelle Lheureux, Julien Loustau, Nora Martirosyan, Christian Merlhiot, Valérie Mréjen, Bertrand Schefer, Arlond Pasquier, Noëlle Pujol e Philippe Terrier-Hermann hanno scomposto e ricomposto, senza per questo destrutturare, il proprio immaginario, mettendo a nudo le proprie esitazioni, conferendo forma artistica, strutturata e strutturante, allo schizzo, alla suggestione, all’impressione che precede l’idea, all’idea che attende ancora di tradursi in pratica. Ne risulta un’apertura, sorprendente e generosa, al “rimosso” della creazione artistica: il dubbio o lo stimolo iniziali e germinali prendono forma e funzionano come dispositivo a se stante, indipendente, autonomo, autotelico. Tutto è documento, dagli atti notarili di Pujol agli scatti di Jean Breschand. E il documento è già arte, è già narrazione. 
 
Rigorosa e scarna, proteiforme senza essere caotica, proprio come la bottega di un artigiano, questa fabbrica, che dovrebbe rappresentare, ed effettivamente rappresenta, un paratesto o architesto fluido ed eterogeneo, sfugge alla presa dal momento in cui tradisce, volutamente, le attese del visitatore. Quest’ultimo, dopo aver deambulato nello spazio espositivo e aver colto frammenti di un discorso incompiuto (o compiuto “altrove”), si aspetterebbe di vedere gli oggetti finiti, i film ultimati di cui le sale suggeriscono i contorni. Alcune di queste opere esistono (Le Dossier 332 di Noëlle Pujol, Exercice de fascination au milieu de la foule di Valérie Mréjen e Bertrand Schefer, The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili, The American Tetralogy di Philippe Terrier-Hermann, Si c’est une île, c’est la Sicile di Arnold Pasquier), altre sono in fieri (État des lieux di Nora Martirosyan, Testimonies di Alain Declercq, Don Quichotte. L’absence di Ange Leccia, Slow Life di Christian Merlhiot), altre ancora saranno eternamente in divenire (la serie di Facebook Films di Vincent Dieutre). Ma la loro visione è negata al visitatore. Come ricorda Christian Merlhiot, la Fabrique integra una doppia temporalità: «inizialmente un seminario in cui ciascuno illustra la documentazione sul suo lavoro, poi la presentazione de questi documenti durante l’esposizione. I film, loro, non sono nell’esposizione. Si tratta di esporre l’origine dei film, non i film. Esporre gli abiti che un film ha indossato». 
 
Un prima (la disposizione del materiale di cui l’artista si è valso e a partire dal quale ha costruito il film) che viene dopo, ma anche un dopo che viene prima: dopo la visione e diffusione dell’opera, dopo la sua fruizione e incorporazione, prima della realizzazione e della diffusione. Un tale rimescolamento temporale finisce con l’alterare, o depotenziare, la sequenza cronologica di ogni singolo progetto: ogni stanza presentifica un frammento che è il principio e il fine di un tutto insondabile perché assente o omesso.
 
La Fabbrica è in definitiva il luogo in cui si dispiega una macro-sceneggiatura impossibile o, meglio ancora, uno spazio in cui si manifesta l’impossibilità, per questa teoria di documenti e di segni, di assicurare la prefigurazione del film. La mostra ci suggerisce indirettamente la specificità del progetto di pointligneplan: rendere pubblica, e archiviare, la memoria di un lavoro, dare forma artistica all’archivio e dispiegare le ragioni intime e autentiche che presiedono alle forme cinematografiche non convenzionali che tutti gli artisti del gruppo paiono sposare. Il piacere della condivisione, la condivisione di un piacere: di continuare a narrare, nonostante tutto, anche solo per evocare l’impossibilità di un racconto tradizionale.