La telefonata di un'amica lontana, Candy, spinge João Rui Guerra da Mata a tornare a Macao, terra di un'infanzia quasi dimenticata, per risolvere un mistero legato alla scomparsa di alcuni conoscenti che frequentano il mondo notturno della città. Quando arriva ogni suo punto di riferimento è sparito, in un mutamento repentino che ha cancellato le tracce della colonizzazione portoghese. Incapace di fornire l'aiuto richiesto e sopraffatto dalla memoria, Rui sarà implicato in una serie di sparizioni e morti che infittiscono il mistero attorno a Candy, che rivela sempre più la sua essenza fantasmatica e sfuggente.
 
The Last Time I've Seen Macao (A Ultima Vez Que Vi Macao), diretto da João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata, ha ricevuto una mezione speciale   a Locarno, segnalandosi come un'opera coraggiosa nel reinventare il cinema portoghese in un momento di forte crisi produttiva. Girato grazie a un piccolo fondo, il film intreccia una narrazione da thriller con le suggestioni visive di una sinfonia di città, rievocata attraverso la memoria di un bambino che vi crebbe quarant'anni prima.

Trovando una nuova apertura nel confine tra cinema di finzione e documentario, la coppia di cineasti si diverte a svelare la potenza ambigua e polisemantica delle immagini, costruendo un poema nostalgico sui fantasmi di una città sognata in infanzia. Li abbiamo incontrati, nell'accogliente atmosfera che offre il Festival di Locarno, per ripercorrere le tappe di questa particolare creazione e dello stato del cinema in Portogallo.

 

Com'è iniziata la vostra collaborazione?

Joao Pedro Rodrigues: Joao Rui è stato il protagonista del mio primo cortometraggio, Parabénes! (Happy Birthday!, 1997), e in seguito ho cominciato a lavorare con lui come art director. Cerco sempre di lavorare con le stesse persone e Joan Rui è una di queste, il mio direttore della fotografia è quasi sempre lo stesso, così come il sound designer. In questo modo ci sono meno discussioni sul set, non perché non si discuta di come fare le cose – anzi, sono molto preciso, pignolo – ma voglio dire che ci si capisce meglio, che quando spiego una cosa gli altri sanno esattamente cosa intendo. Nel 1997 Joao Rui ha scritto la sceneggiatura per un corto intitolato China, China da farmi dirigere e quando abbiamo cominciato a preparare il film abbiamo capito che dovevamo firmare entrambi il film, dirigerlo insieme. Poi ci sono stati Morrer como un homen (Die Like a Man, 2009) e Alvorada vermelha (Red Dawn, 2011).

Joao Rui Guerra Da Mata: Lui fa i suoi film e a volte facciamo film insieme, altrimenti, di norma, lo aiuto come art director e nel processo di scrittura…
 
JPR: In fase di sceneggiatura mi piace lavorare con persone diverse. Non contemporaneamente, ma in momenti differenti. È qualcosa che faccio sin dalla prima stesura: di solito elaboriamo il soggetto al computer, discutendo i vari punti mentre scrivo. Poi faccio leggere la sceneggiatura a diverse persone – persone di fiducia naturalmente –, per sapere cosa ne pensano, e Joao Rui è invariabilmente una di queste. 
 
 
Nel caso particolare di The Last Time I've Seen Macao, come è nato il progetto?
 
JRGDM: È partito da me. Ho vissuto a Macao quando ero piccolo e credo siano stati i giorni più belli della mia vita, quando tutto era nuovo, un'avventura, una scoperta costante. Ho parlato spesso di Macao a Joao Pedro, così pianificavamo da tempo di andarci insieme, giusto per visitare i posti in cui ero cresciuto. Abbiamo dovuto posticipare il viaggio a lungo, per diversi motivi e priorità. Poi abbiamo deciso che sarebbe stato interessante realizzare un documentario su Macao e abbiamo partecipato al bando indetto dal Portuguese Film Insititue. La prima volta che ci siamo andati insieme abbiamo capito subito che non volevamo più fare un documentario…
 
 
Che anno era?
 
JRGDM: Il 2009. Ci siamo stati tre volte per un totale di sei mesi. Abbiamo capito che c'erano già troppi documentari su Macao e che ci interessavano due punti di vista sulla città: quello legato ai miei ricordi e quello legato al modo in cui il cinema classico americano aveva ritratto la città e l'Oriente in genere. In particolare Macao di Sternberg che era sostanzialmente girato in studio, negli Stati Uniti, fatta eccezione per poche riprese realizzate in loco dalla seconda unità. 
 
JPR: Sentivo di conoscere bene Macao anche se non c'ero mai stato perché è stata a lungo una colonia portoghese e perché sono un grande amante del cinema orientale, e il cinema aveva permesso che mi creassi una mia immagine della città. Una sorta di territorio di finzione che esisteva solo nella mia testa. La prima idea da cui siamo partiti, dunque, è stata il confronto di questa doppia finzione: quella legata ai ricordi di infanzia di JR e quella legata all'immaginario che mi ero creato io attraverso il cinema.
 
 
È stato a questo punto che avete deciso di viaggiare lungo la linea sottile che separa documentario e finzione?
 
JPR: Il film doveva essere girato come un documentario. Di questo eravamo sicuri, perché avevamo pochi soldi e perché il bando prevedeva quello. Non poteva essere un film di finzione con una troupe e gli attori. Eravamo noi due più un assistente, un fonico e un antropologo con il quale avevo lavorato per un paio di documentari sull'immigrazione portoghese in Francia e sull'idea di casa e deterritorializzaione. Gente che sta in un posto ma appartiene a un altro.
 
JRGDM: Ci interessava molto la finzione che gli immigrati creano, o ricreano, sul proprio luogo d'origine e la vita che vi hanno vissuto.
 
JPR: Il film è stato tutto girato secondo questa forma di restrizione tipica del documentario. Abbiamo deciso che saremmo andati a cercare i posti in cui Joao Rui aveva vissuto, per filmarli. Ma ogni volta che ci recavamo alla ricerca di questi posti qualcosa compariva sulla nostra strada e ci dirottava. Non avevamo uno piano di lavorazione preciso e, operando in piena libertà, lo modificavamo di continuo.
 
JRGDM: Va detto che la nostra compagnia di produzione ci ha dato estrema libertà e abbiamo avuto anche un grande aiuto da parte dell'Istituto Culturale di Macao. Un aiuto non di natura economica ma altrettanto importante, visto che ci consentiva di girare ovunque, fatta eccezione per i casinò e per qualche tempio. In questi casi dovevamo parlare con altre persone… E in ogni spostamento era come se di fronte ai nostri occhi si materializzassero delle possibili finzioni, o frammenti di esse. E non parlo semplicemente di luoghi, angoli di strada buoni per le location, ma proprio di azioni, accadimenti. 
 
 
Vi è mai venuto in mente di andare alla ricerca di ciò che rimaneva del Portogallo a Macao? 
 
JRGDM: Non era tra le nostre priorità, ma quanto al ritrovare il nostro Paese a Macao c'è da dire questo: appena prima che il Portogallo lasciasse Macao, negli anni '80, il governo portoghese ha deciso di pavimentare la città con le pietre di Lisbona, quelle bianche e nere, molto tipiche, forse per mostrare che eravamo stati davvero lì!
 
 
È vero che in Macao di Sternberg si intravede la casa in cui ha vissuto Joao Rui?
 
JPR: Sì, all'inizio del film ci sono delle riprese documentarie della città, e in un'inquadratura girata a bordo di una barca si vede brevemente la casa, molto brevemente, tanto che lo stesso Joao Rui non se n'è accorto che la terza o quarta volta che vedeva la pellicola. L'idea che un film su Macao fosse girato quasi completamente in studio ci ha fornito lo spunto per realizzare qualcosa che fosse esattamente il contrario: abbiamo girato in una vera città, ma come se il film fosse fatto in studio. E per di più ci sono scene che non sono state girate a Macao, ma in altri luoghi, proprio per rafforzare l'idea di una città fittizia, immaginaria. 
 
JRGDM: A modo nostro, anche noi volevamo reinventare Macao, una Macao che fosse più vicina ai miei ricordi di infanzia o alla finzione che me n'ero fatto, perché da bambini le prospettive sono molto diverse rispetto a quelle della vita adulta. Le cose sembrano molto più grandi e alcuni posti non si trovano dove sono in realtà. 
 
 
Ci sembra di capire che, per voi, il grande potere del cinema sia quello di dare vita a un immaginario. Ma credete anche nelle possibilità del documentario come forma pura?
 
JPR: No, non ci crediamo. O meglio, tecnicamente è una possibilità, ma nel momento in cui si gira, qualunque cosa diventa una scelta, qualcosa di molto personale, già a partire dall'inquadratura. Il nostro voleva essere un ritratto di Macao, ma un ritratto molto personale, come ho già detto: una reinvenzione del luogo.
 
 
Forse è per questo che molti dettagli banali acquistano nel film un sentore poetico, quasi da sogno. Pensiamo soprattutto alle scene nel parco.
 
JPR: Beh c'è la gabbia, questo elemento misterioso che ricorre nel film. Passa di mano in mano e non si capisce perché….
 
JRGDM: Tenete conto, però, che a Macao è pieno di gente che porta in giro gli uccellini nelle gabbie. Spesso le tengono coperte con dei teli per fare sì che non si spaventino…
 
JPR: …e molte scene le abbiamo girate ad hoc. La mano guantata è di Joao Rui, ad esempio. Entrambi compariamo in diversi momenti del film, proprio perché non potevamo utilizzare gli attori e i pochi ruoli a disposizione li abbiamo interpretati noi.
 
 
Ci si può chiedere come mai abbiate deciso di inserire comunque dei “gesti” attoriali, come appunto le mani che impugnano pistole, rinunciando ad astrarre del tutto l'azione.
 
JPR: Pensavamo che non avesse senso rendere il film completamente astratto. E in ogni caso non mostriamo mai corpi interi, solo parti di essi. Dunque possiamo dire che anche in questo caso si tratta di astrazioni.
 
JRGDM: Io non compaio mai del tutto, ad esempio, spesso sono solo un'ombra, una silhouette. Non mi si vede mai se non per mezzo di vecchie fotografie, che sono vere, ma avrebbero potuto anche essere di qualcun altro. 
 
JPR: Anche il suono ha un ruolo molto importante. Come se fossimo ancora al lavoro con il 35mmm, suono e immagine viaggiano su due linee diverse che a volte scorrono parallele, a volte coincidono, altre volte divergono e si allontanano l'una dall'altra. Ci piaceva l'idea di dare una specie di dissonanza giocando con il rapporto tra immagine e suono. 
 
JRGDM: E quando abbiamo deciso di sincronizzare il cantato di You Kill Me tratto da Macao nel prologo del film abbiamo scelto Cindy (Scrash, ndr) non solo perché era già stata in un altro nostro film (To Die Like a Man) e aveva il look da star hollywoodiana, o alla Andy Warhol, ma anche perché il pubblico avrebbe visto la sua faccia e il suo corpo ma non tutto quello che le succede dopo. Allo stesso modo ascoltiamo le conversazioni telefoniche ma inquadriamo delle cabine telefoniche vuote. Ecco cosa intendeva dire Joao Pedro riguardo l'astrazione e la relazione tra immagine e suono.
 
JPR: E poi non ci andava di raccontare ogni cosa con le nostre voci, ci interessavano molto di più i rumori. Quando Candy muore si sente solo la macchina arrivare, il cane che abbaia, lo sparo e il corpo che viene buttato nell'acqua. E il cane è l'unico testimone. Così alla fine del film, quando a Macao non sono rimasti che gli animali, tra quegli animali c'è anche il testimone dell'omicidio…
 
 
Nei vostri film recenti la presenza dell'umanità è sempre più ridotta e alla fine di questo c'è persino un apocalisse… Vi state disamorando dell'essere umano?
 
JPR: Nei miei film ho sempre ripreso esseri umani, e continuo a pensare che le persone siano la cosa più interessante che si possa filmare. Qui c'è anche una componente giocosa, ed è in questo senso che va visto il finale catastrofico. Certo, c'è la componente sociale, economica, lo stato di crisi internazionale, ma l'idea era quella di mimare i film catastrofici di “serie b”. È vero, però, che il mio prossimo film, intitolato The Ornithologist, racconta di un uomo che passa il tempo a osservare gli uccelli. Questo perché prima di studiare cinema ho studiato biologia e mi sarebbe piaciuto diventare un ornitologo. La natura e gli animali mi interessano molto, e in particolare mi interessa la componente animalesca che c'è dentro di noi: in molti dei miei film gli uomini si comportano secondo il proprio istinto, come se seguissero una parte di loro che è prettamente animalesca. 
 
JRGDM: Non credo che ci siamo stancati dell'umanità. Quando Joao Pedro parla del nostro approccio giocoso non si riferisce tanto all'idea che sia tutto uno scherzo ma che si tratti di un bricolage, un film fatto in casa. Un film fatto con poche cose, quelle essenziali. Il paragone con i film di fantascienza degli anni '50 è calzante perché allora c'era la guerra fredda, la paura del nucleare, l'incubo della fine del mondo, e questa cosa si è ripresentata nel 2012, con le assurdità sulla fine del mondo secondo il calendario Maya. Non volevamo prenderci sul serio, pur trattando argomenti come questi. Avevamo 150 ore di girato e volevamo che il film fosse corto, massimo di un'ora e mezza, come i “b-movie” di un tempo. E poi non si tratta tanto della fine del mondo quanto dell'inizio: tutti hanno una nuova vita, dopo l'Apocalisse, anche se in forma animale! È un finale positivo. E poi se leggi la Bibbia scopri che l'Apocalisse non è la fine del mondo. È durante il Medioevo che si è diffusa l'idea che fosse così, a causa dell'oscurantismo regnante.
 
 
E dopo l'Apocalisse cosa ne sarà del cinema?
 
JRGDM: Una cosa che posso dirti per certo, e che mi sta molto a cuore, è che non so cosa ne sarà del cinema portoghese domani stesso! La crisi che stiamo vivendo, da questo punto di vista, è pesantissima e noi siamo molto felici di essere qui a Locarno con due film in concorso (l'altro era il corto O que arde cura, ndr) ma in patria non abbiamo più nemmeno un Ministro della Cultura, nessun supporto, e il nostro Film Institute non ha più soldi. 
 
JPR: La situazione è drammatica e, in aggiunta a tutto questo, una cosa che mi preoccupa davvero è il fatto che in tutto il Portogallo non ci siano più laboratori di sviluppo per la pellicola. Significa che non puoi più girare in pellicola, o che se lo fai devi andare a sviluppare il film in Spagna. Questo mi fa paura. I tre film che ho fatto in precedenza li ho girati in pellicola e vorrei poter girare così anche il prossimo. Quanto a Macao, non avevamo altra possibilità di farlo che in digitale e per me è stato abbastanza strano. Girare in HDV mi ha sicuramente dato più libertà, anche dal punto di vista della fotografia – perché non è una cosa che saprei fare da solo girando in pellicola – ma il fatto che sia diventato tutto più semplice comporta che circolino anche molte brutture, perché la diminuzione dei costi fa sì che la gente pensi meno a quello che deve fare e alle proprie scelte, cosa inquadrare, quando smettere di riprendere…
 
JRGDM: Il processo di democratizzazione è molto importante, il fatto che il cinema sia alla portata di mano di più persone è positivo, ma la domanda è: stiamo facendo film migliori?
 
JPR: E ad ogni modo, se pensi ai film americani girati oggi in digitale, i grandi film, sono dispendiosi come se li avessero girati in pellicola, se non più. Forse si risparmia sulle riprese ma comunque tutto il lavoro di postproduzione è molto più costoso rispetto alla pellicola. Non che mi interessi molto la lavorazione degli effetti e il PGI, non so nemmeno come funzionano!
 
 
Ci chiediamo se il vostro film abbia anche un risvolto politico. Abbiamo letto che Macao è considerato un luogo strategico dal potere cinese e che le istituzioni non si scontrano con le triadi e la delinquenza organizzata perché vogliono convincere Taiwan a rientrare a far parte della Cina…
 
JRGDM: Riprendersi Taiwan è il grande sogno della Cina, da tantissimo tempo a questa parte. Significherebbe unificare la Cina. Ma mi chiedo cosa ne pensino i taiwanesi. Da una parte la Cina è diventata talmente ricca che sicuramente potrebbe essere favorevole – la stessa cosa è successa con il Tibet – ma il vero problema riguarda i costumi e l'eredità culturale del Paese. Quando vivevo a Macao, negli anni '70, tutti parlavano cantonese, perché quello era il modo di mostrare che non appartenevano alla Cina e rifiutavano l'unificazione culturale data dall'uso del mandarino. Ora invece tutti parlano mandarino, e l'unico posto in cui si parla ancora cantonese è Hong Kong, perché hanno avuto un'educazione britannica che ha fatto sì che comprendessero quanto fosse importante conservare la propria eredità culturale. Su Youtube ci sono filmati esilaranti tratti dai notiziari locali dove i leader cinesi chiamano “cani” gli hongkonghesi che rifiutano di parlare il mandarino. Nel nostro film non abbiamo affrontato il problema direttamente, non direi che è un film politico, ma credo che sotto la superficie, alcune di queste questioni vengano toccate.
 
JPR: La cosa buffa è che per i cinesi è il Portogallo ad essere esotico! Hanno reiventato il Portogallo all'interno di un Hotel come se fosse la loro Las Vegas. Ci siamo stati e ti assicuro che è stata un'esperienza imbarazzante. Tutto ciò che rimane del Portogallo a Macao ha a che fare con la fascinazione esotica. Siamo molto critici riguardo a ciò che il Portogallo ha fatto lì negli anni della colonizzazione ma non possiamo che esserlo anche nei confronti di ciò che sta facendo adesso la Cina. 
 
JRGDM: Un problema che ha l'occidentale quando va in Asia per filmare è che tutto sembra esotico e vorresti filmare ogni angolo! È una trappola che abbiamo cercato di evitare. 
 
JPR: La libertà della forma è qualcosa che cercavamo nel film. Ammiro molto il lavoro di Chris Marker e la maniera in cui ha composto i suoi film, le associazioni che creava erano talmente sorprendenti… Volevamo che anche il nostro film fosse un film personale sulla memoria come alcune cose che ha fatto lui. E che il film non fosse categorizzabile, sia nella forma che nel contenuto.  
 
Questo film è piuttosto distante dagli altri realizzati da te, Joao Pedro Rodrigues, pensi che il tuo percorso futuro vada in questa direzione di sperimentazione di una forma libera o Macao è stato un caso isolato? 
 
JPR: Mi fa molta paura la possibilità di ripetermi, l'idea di creare uno stile che mi appartenga e che allo stesso tempo mi imprigioni, perché facilmente riproducibile da me stesso. Vorrei fare delle scelte che mi rendano la vita difficile, per così dire, mi piace guardare in direzioni diverse. Anche se mi piace l'idea che certi registi abbiano uno stile riconoscibile, la possibilità di entrare in un cinema senza sapere che film viene proiettato ma che le immagini mi facciano capire chi le ha girate. È affascinante che un regista riesca a imporre il proprio sguardo sulla materia che filma e a comunicarlo allo spettatore, ma mi fa anche paura perché ne ho visti tanti che non fanno che ripetersi.
 
A Joao Rui: Ci vuoi dire qualcosa di O que arde cura, in concorso nella competizione internazionale corti.
 
JRGDM: Si tratta di un lavoro ispirato molto liberamente a La voce umana di Cocteau. È girato all'interno di una stanza, con un uomo al telefono, mentre all'esterno si scatena in grande incendio che ha devastato Lisbona dopo il terremoto del 1725 (controlla). Una persona parla con un'altra che non si vede mai e di cui non si sa niente, nemmeno il sesso. È il mio corto di debutto come regista e volevo girarlo in studio e volevo che fosse in uno spazio molto claustrofobico, concentrazionale: il luogo è uno ma è in continuo cambiamento, le pareti si spostano, ci sono proiezioni sui muri, l'informazione arriva dalla radio o da filmati reali della tv trasmessi proprio quel giorno, l'attore si muove come se fosse in uno peep-show, e sono stato ispirato anche dai dipinti di Francis Bacon. Ho fatto centinaia di casting per il protagonista e poi ho capito che Joao Pedro era il volto, il corpo e la voce ideale e la sua presenza ha portato una nuova dimensione al film. Si tratta di un film sulla fine di una relazione e c'è un rapporto tra questo evento e l'incendio che infiamma la città. Il titolo è una frase tipica che le madri dicono ai bambini in Portogallo, “quello che brucia cura”, ma non siamo riusciti a trovare una traduzione adeguata in inglese o in francese, perché l'espressione non esiste. 
 
Locarno, Agosto 2012