La morte è una vita vissuta. La vita è una morte in arrivo
Jorge Luis Borges
 
 
 
Non si può eliminare dal campo la citazione ingombrante di Borges che offre una precisa chiave di lettura per attraversare la misteriosa e funerea opera prima di Jazmin Lopez (classe 1984) vera scoperta della sezione Orizzonti di Venezia 69, portata a compimento grazie a una lunga trafila di fondi europei e non, tra cui il Torino Film Lab. Leones ha la forma libera e sensuale di un nuovo cinema, capace di spingere lo spettatore verso una dimensione astratta ed enigmatica in cui si possono materializzare brevi istanti di folgorante verità, quasi tattile, lontana da ogni didascalico realismo.
 
Perturbante è la scena iniziale in cui un gruppo di cinque ragazzi si allontana da un'auto, dopo averla posteggiata ai limiti del bosco: cercano la strada che li porti verso il mare, un paesaggio che appare impossibile di fronte all'infittirsi delle fronde ombrose. Una di loro, Isabel, si tocca leggermente la nuca sporca di sangue, un dettaglio fugace e invisibile per gli altri, da subito troppo intenti nella loro ricerca. E noi spettatori, come loro ragazzi, trascuriamo la fisicità del sangue scuro per seguire il cammino, avvolgente e sinuoso, di una macchina da presa che li segue, li perde, li sorprende, li anticipa e poi li perde nuovamente in un percorso che poteva sembrarci quotidiano e invece rivela il suo volto sinistro. Si consumano discorsi, si infangano le sneackers, si gioca con gesti stizziti e parole ricorrenti, noi con loro, branco unito in una foresta ambigua e rivelatrice in cui possiamo sentirci “leoni”. Una sicurezza, che insieme all'incoscienza, è caratteristica comune dei cinque ragazzi, adolescenti dei nostri tempi annoiati e laconici, che arrivano a uno stagno e dimenticano la fatica del percorso, pronti a giocare a pallavolo immaginando un pallone che non hanno portato con sé, o non hanno più diritto di avere. Isabel li guarda attonita, unica a toccare con mano le proprie ferite e segnalarci le incongruenze di un tempo già vissuto che si appresta a trasformarsi in altro.
 
In una scansione che segue l'evoluzione fiabesca, appoggiandosi sui topoi delle selve oscure, Isabel affronterà una pistola carica di cinque proiettili, una vittima sacrificale offerta dallo stesso bosco, un attimo di intenso spaesamento e bellezza in mezzo ad alti fiori violacei, la paura di una dimora ormai impenetrabile dove porte e finestre sono state murate, la presa di coscienza della fine di un'infanzia di cui resta solo il fantasma liberato dal sangue che macchia gli oggetti infantili abbandonati nell'auto dei ragazzi.
 
 
Se la lettura ciclica invita a collocare l'avventura dei ragazzi in un tempo tra vita e morte, con Isabel in probabile stato di coma, unica a poter vivere ancora delle sensazioni (prova freddo, stanchezza e risentimento), il versante interpretativo più intenso è legato all'adolescenza come tempo di passaggio, tra l'integralità dell'infanzia e la labilità del mondo adulto. Il sangue rituale di una ragazzina che diventa donna e non può che piangere nel veder smarrita la propria figura eterea, liberata nell'aria del bosco, come rivela la sorprendente inquadratura che sgancia Isabel dal proprio volto per inchiodarla a un corpo che marcerà senza sosta per potersi trasformare in spuma di mare. Nell'inteso piano sequenza che segna il finale di questo piccolo ma significativo esordio, Isabel incede attraverso un paesaggio finalmente mutato: non più zona liminare e possibile del bosco, ma deserto spazzato dal vento del trauma di chi ha rotto il tempo trovando una nuova dimensione. Trauma che si attraversa solo perdendo i propri connotati, solo con i lunghi capelli al vento, il corpo proteso in avanti, senza più possibilità di possedere un proprio sguardo, un proprio volto, la propria identità. In una spiaggia in cui la fiaba di Alice incontra tragicamente la Sirenetta, la spuma di mare ci restituisce la verità dell'infanzia che abbiamo abbandonato.