Un sapore di ruggine e ossa è tratto dal primo racconto omonimo dell'antologia Ruggine e ossa di Craig Davidson, e da altri dello stesso libro pubblicato in Italia da Einaudi. Molto liberamente, va detto, perché nel testo il bambino caduto nel lago ghiacciato finisce in coma irreversibile e lo zio boxeur (non il padre) ne racconta la vicenda in flashback. Poco importa l'adesione letterale, del resto Jacques Audiard, regista e sceneggiatore insieme a Thomas Bidegain, dà con poche parole l'idea di quale sia il rapporto tra film e fonte letteraria. «Ali e Stéphanie non esistono nei racconti, e la raccolta di Craig Davidson sembra appartenere alla preistoria del progetto, ma la forza e la brutalità del racconto, la volontà che i personaggi vengano sublimati dal dramma e dal melodramma, ne sono il prodotto diretto». Un sapore di ruggine e ossa è dunque un'altra cosa, ma partecipa di una medesima visione del mondo e delle persone che faticosamente lo abitano. Non è solo per questo che siamo partiti da Davidson. Lo scrittore canadese, infatti, è anche (stato) un pugile, e il suo libro, come il film di Audiard, subisce lo sguardo di chi combatte. Le ossa del titolo, ad esempio, sono le 27 della mano del pugile che vanno in frantumi spaccando il ghiaccio del laghetto. 
 
La menomazione viene traslata da Audiard in una situazione che non appartiene solo a chi sfrutta per campare la propria propensione al combattimento (Ali è prima buttafuori poi streetfighter), quanto nella condizione traumatica di Stéphanie, che ha perduto entrambe le gambe dopo un incidente al Marineland di Antibes, dove lavorava come addestratrice di orche (nel libro accade qualcosa di analogo a un uomo). Il cineasta francese, tuttavia, coglie della boxe e della sua narrazione un aspetto fondamentale, ovvero la relazione tra spazio e lotta. Due personaggi (e nei suoi ultimi quattro film – Sulle mie labbra, Tutti i battiti del mio cuore, Il profeta e Un sapore di ruggine e ossa – la dinamica è sempre tra coppie) si fronteggiano sul ring della vita. Uno crede di sopraffare l'altro anche invadendo il suo territorio (una cella, un ufficio, una camera da letto, uno studio musicale, un appartamento desquatterizzato) e poi finisce diversamente, o con una inversione di ruoli (Il profeta) o con il raggiungimento di una armonia impensabile all'inizio. Soprattutto tra uomo e donna (e nel caso di Tutti i battiti del mio cuore la figura femminile dell'insegnante di piano è anche materna), invece di andare al tappeto personaggi diversamente marginali trovano una sintesi, non per forza basata su presupposti passionali. 
 
In Un sapore di ruggine e ossa l'attrazione tra Ali e Stéphanie nasce dai corpi, devastato quello di lei e resistente, debordante, quello di lui, che fa della fisicità il principale linguaggio individuale, fino alla violenza prima incontrollabile (la reazione a stento trattenuta nei confronti del bambino) e poi indirizzata verso un codice, seppure anarchico come quello del combattimento di strada. Che è sì una degenerazione del pugilato, ma è anche l'unica chance concessa a chi dai bassifondi arriva (a inizio film, come in un western) e alla società del consumo ha da offrire solo se stesso, letteralmente. Rispetto al libro, che è pessimista, il film sceglie un finale decisamente meno cupo. Come se il melodramma del quale sono protagonisti Ali e Stéphanie, interpretati da due attori eccezionali, il belga Matthias Schoenaerts e Marion Cotillard, si risolvesse in una sorta di redenzione carnale, con Ali che esce dalla clandestinità dei match e trascina la donna, ma anche il bambino, verso una rinascita prima di tutto sociale. Non un vero e proprio happy end, però, perché è certo che la ricerca di una qualsivoglia forma di felicità, in questo mondo, sia possibile soltanto attraverso contributi di sangue. 
 
Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d'os), regia di Jacques Audiard, Belgio/Francia 2012, 120'.